di Mauro Gervasini

LaTerzaMadre.jpg[Era ora che qualcuno denunciasse le immonde boiate che Dario Argento sta propinando agli spettatori, da Suspirla – o magari, a essere molto generosi – da Inferno in poi. Film orridi e imbarazzanti, che paiono scritti e diretti da uno scolaretto, con qualche accidentale preziosismo fortuito. Alcuni imbecilli credono che, difendendo le spoglie di Argento, si difenda il film di genere. Niente affatto, lo si seppellisce. Ma lascio la parole a Gervasini. Delle Tre Madri, la prima era onesta, la seconda così così, la terza di facili costumi. Nessuna legge impone a un tizio di fare il regista, dopo ormai un ventennio di tentativi falliti. E, colto da generosità, non citerò il suo Il fantasma dellìOpera. La vergogna assoluta, se mai ve ne furono. Bruno Mattei lo avrebbe realizzato meglio.] ( V.E.)

Inutile continuare a rimuginare sull’importanza di Dario Argento nella cultura cinematografica (non solo) italiana. Basta acquistare la versione in dvd di Inferno, finalmente pubblicata dopo anni di attesa, per ricordarsi quanto sia stato uno dei principali maestri del fantastico. Ever. Però non si può parlarne che al passato. Argento non è più, e da un pezzo.

L’ultracorpo che vive la sua vita artistica – immaginiamo senza rimpianti – ci ha regalato negli anni solo scampoli di horror e thriller basati sul nulla. Trauma, Nonhosonno, La sindrome di Stendhal, l’indicibile Il fantasma dell’opera, fino alla Terza madre, che chiude indegnamente una trilogia cominciata trent’anni fa con Suspiria, non solo sono scritti malissimo e recitati peggio, cosa che i fan radicali sono arrivati addirittura a considerare un pregio (in base a elucubrazioni che lasciamo volentieri a loro), ma hanno dimostrato di non avere più una logica visionaria. La passione dell’immagine e per l’immagine che fece grande Argento è solo un simulacro per il suo ultracorpo, impacciato di fronte alla stanca replica di magnifiche elaborazioni architettoniche (il liberty di Inferno, il modernismo-razionalista di Tenebre) e visive (la saturazione dei colori primari, la fluidità dei movimenti di macchina) che ora paiono addirittura incoerenti se confrontate con un immaginario imbarazzante.

La verità è che l’ultracorpo sta all’horror come Tinto Brass all’erotico. Lo stile ginecologico del regista veneziano viene spacciato per ardito e anticonvenzionale quando è solo patetico; il suo cinema celebra un conformismo da guardoni dove il sesso è (a volte letteralmente, dati i cazzi finti) di plastica, inane, senza gioia. Anche in Argento tutto è ormai posticcio. I fan rimproverano ai critici di essere schiavi del “realismo”, anche se si sta parlando di tutt’altro. Per esempio della mancanza di autenticità nella costruzione dell’angoscia. Si pensi alla Terza madre: l’abbondanza di gore e qualche automatica repulsione (una gola tagliata in primo piano scuote chiunque) cercano di colmare il vuoto di tensione che era invece la ricchezza implacabile dei film del primo Argento, anche i meno plausibili narrativamente (e il caso di Inferno è emblematico: un capolavoro pieno di buchi di sceneggiatura!). Persino il buio sembra elemento estraneo all’occhio dell’ultracorpo, tanto che una passeggiata nelle catacombe romane – cromaticamente trattata con un’oscurità convenzionale e qualche giallognolo di prammatica che fa tanto antichità – è appunto solo una passeggiata. Come essere in una attrazione di Gardaland, con le comparse vestite da streghe pronte a farti “bu” da dietro l’angolo. Nessun mistero, nessuna passione.

La cosa che davvero manca agli ultimi film di Argento non è una “storia”, che pure è sempre raccogliticcia, ma la “pulsione”. Quel furore dello sguardo liberatorio e anarchico che davvero scompaginò i canoni dell’horror tutto, in un momento storico durante il quale oltreoceano si facevano i conti con il puritanesimo e in Gran Bretagna era venuta definitivamente meno la spinta oltraggiosa della Hammer. Oggi il suo cinema non incide perché sconnesso con il proprio tempo e il proprio mondo, e invece prigioniero degli incubi solipsistici di un autore che ha perso qualunque talento immaginifico, senza diventare mai territorio di paure condivise capaci di essere “nostre”.