di Daniela Bandini

RigosiIncontro.jpgGiampiero Rigosi, L’ora dell’incontro, Einaudi Stile Libero, 2007, pp. 446, € 14,00

L’ora dell’incontro tarda sempre ad arrivare. Sia quando l’incontro è atteso con trepidazione che quando lo si aspetta con angoscia. Tutti gli appuntamenti hanno quella patina di necessità che li rende sgradevoli e finiscono per riprodurre gli stessi schemi di incombenza, urgenza, anche in ciò che vorremmo fosse piacevole. Prepararsi a sfoggiare il meglio, il peggio, il mediocre che è in noi: dipende solo dal nostro interlocutore. E se l’interlocutore fosse la nostra sopravvivenza? Se fosse una malattia senza speranze di guarigione a darci un appuntamento non saremmo più che lieti di disertarne la visita? No, a volte no.

A volte le aspettative sulla vita sono talmente fragili, legate insieme da tensori troppo sensibili ed eccessivamente elastici che non ci permettono di visualizzare una struttura definita: barcollando come ubriachi, on la vista annebbiata, andando a sbattere contro gli stessi spigoli migliaia di volte, facendoci del male sempre nello stesso punto, con una dolorosa paura di cadere dove invece stiamo sprofondando. E può accadere di voler disertare, cambiare, sorprendentemente, le carte in tavola. Entrare nella parte degli sconfitti, un tipo di sconfitti senza nessuna colpa, sopravvivere nell’innocenza dolorosa dell’ irrimediabile, dove tutto si sfuma e perde consistenza, dove il sorriso è già rimpianto, dove la felicità è immediatamente perdita: vivere sulla propria pelle il lungo calvario di un malato terminale.
Una donna, giovane, due figli piccoli, la prima volta che sente il nodulo sotto la pelle del seno, una sottile fitta che arriva al cervello sotto forma di angoscia, tutto l’arco dell’orrore che dovrà attraversare, tra lo sgomento, la disperazione, le percentuali di sopravvivenza, di chi ce l’ha fatta, di chi è ricaduto. E non si è più rialzato. Lo scrittore è riuscito in maniera sorprendente a trasmettere questi stati d’animo che raggiungono come flash la nostra più profonda vulnerabilità. Come se tutto non avesse avuto importanza fino a quel momento, fino al momento della rivelazione, della nostra condizione di mortali. Eppure dovremmo saperlo. L’85% delle nostre azioni sono geneticamente convogliate alla nostra sopravvivenza. Eppure lo smarrimento di fronte alla malattia, anche non grave è così riassumibile. Al male, che raffiguriamo antropomorfizzato, gridiamo, in maniera infantile: “ Ma perché ce l’hai con me? Cosa ti ho fatto?” Proprio non sappiamo spiegarcelo, non ce lo possiamo permettere, non pensiamo mai che l’attuale giornata potrebbe essere una delle ultime: tutto andrebbe a rotoli, non avremmo più alcuna motivazione, il sorriso e la serenità degli altri un intollerabile offesa di straordinaria volgarità.
E se al contrario tutta la creatività, la fantasia, la gratificazione fisica ed intellettuale, la curiosità, cominciassero dalla constatazione della propria precarietà? Non solo mettendoci nei panni di chi il dolore lo vive, ma vivendolo. E’ il caso della nostra splendida protagonista, Clara. Giovane madre separata, un figlio piccolo, è a conoscenza di qualcosa che la turba in maniera profonda, travolgendola. Un famoso oncologo bolognese seduce le sue pazienti, tutte in fase terminale della malattia. Non ci sono risvolti sado-maso, telecamere nascoste, giri loschi di affari che indubbiamente fiorirebbero attorno a casi simili: solo, e non sembra proprio esserci dell’altro, amore. Niente quindi di moralmente così inqualificabile da sentirsi in dovere di chiedere un risarcimento etico o infliggere una punizione esemplare.
Clara lo vuole come la vuole lui: una paziente senza speranza di guarigione, che si affida al suo medico di fiducia, che potrebbe donarle quell’intesa di paradossale felicità che la routine, con tutta la salute che si porta appresso, non è capace di dimostrarle. Un medico che infonde fiducia, rassicurante ma non inutilmente e fastidiosamente ottimista, un sano realista che ama al di sopra di tutto il suo rapporto con il lato oscuro della vita. Il suo obiettivo è donare il meglio di sé a chi non ha che dolore e compassione al suo fianco. Concedere l’amore fisico a chi sotto le coperte sente solo l’indifferenza e la ripugnanza per il proprio corpo, il dolore, il disgusto, la pietà.
Per fare l’amore ci vogliono benessere e salute, spensieratezza e senso di onnipotenza, cosa c’entra il cancro con tutto questo? E infatti bisogna passarci: dimagrire spaventosamente, carenza di ferro e vitamine del gruppo b, debolezza muscolare, milza e linfonodi ingrossati, e tutto ciò che porta con sé l’assenza di una digestione fatta di cibi diversi: nausea, vomito, giramenti di testa, alito pestilenziale.
La nostra Clara sarà una vera malata terminale, con tutto ciò che comporta, pur continuando a gestire un figlio piccolo che controbilancia il dimagrimento materno con un appetito che lei non ha mai avuto, lavorando in ufficio, dove colleghe e superiori sospettano a tutti gli effetti un cancro in stadio avanzato, dove il fratello e l’ex marito osservano da spettatori inorriditi i cambiamenti fisici e psicologici della persona cara. Ma chi ha voglia di ripulire la casa, spolverarla, annaffiare le piante, profumare gli ambienti? Il fumo fa male, ma per piacere non farmi ridere…
Clara otterrà un appuntamento dal suo dottore, da quell’oncologo che manterrà per tutto il romanzo un comportamento dal suo punto di vista irreprensibile, una persona che rimane un’incognita, un punto di domanda: che cose ottiene in cambio? La gratitudine? Cosa lo muove, la carità cristiana? Cosa spera di esorcizzare, forse la malattia che non riesce a debellare? Probabilmente è la realizzazione della propria visione comportamentale, un estremo, definitivo contatto tra medico e paziente, ben oltre il principio dell’empatia.
E’ il romanzo più sorprendente che abbia letto negli ultimi tempi, e lo consiglio di cuore. E se, anche solo per un giorno, proponessimo a un amico: “Ti va di giocare con me alla morte, come ha fatto Clara?” Probabilmente la nostra vita, e ho detto vita, non sarebbe mai più la stessa. Probabilmente sarebbe migliore.