unastoriaromantica.jpgdi Giuseppe Genna

Pochi giorni fa, sulle pagine culturali del Corriere della Sera, il critico Franco Cordelli affrontava temi nodali del nostro presente letterario (ma davvero solo del presente?). Lo faceva innalzando la discussione su un romanzo storico appena uscito, Una storia romantica (Bompiani, 569 pgg, 19 euro) di Antonio Scurati, per discuterne le strategie, per ravvederne supposti limiti, per tracciare un bilancio (fallimentare) di quanto è stato compiuto in 25 anni sul genere storico in Italia. Questo mio intervento non intende essere una recensione a Una storia romantica (a mio avviso, comunque, il più sapiente e profondo romanzo di Scurati), e non intende nemmeno essere una risposta diretta alle considerazioni di Cordelli, né tantomeno un saggio paraccademico sul romanzo storico. Intende rappresentare, invece, una serie di riflessioni da parte di uno scrittore che sta sulla linea del farsi del nostro romanzo, insieme ad altri suoi colleghi, da più di dodici anni. Intende essere una sistematizzazione di cosa sta accadendo al romanzo storico e al romanzo in genere (non di genere), per opera di chi pubblica da oltre un decennio narrativa che, pur essendo popolare e non volendosi di avanguardia per come l’avanguardia è intesa qui in Italia, sta sperimentando e lo sta facendo a mio avviso con un’autoconsapevolezza che l’area francese, tedesca e soprattutto angloamericana non è in grado di vantare.
Per esprimere quanto ho da sostenere, utilizzerò una tecnica retorica emblematica, come del resto Cordelli ha fatto: leggerò Una storia romantica di Scurati con categorie che smentiscono le conclusioni di Cordelli stesso.

Chi volesse sapere della trama e dei temi trattati nel romanzo di Scurati, può comodamente leggere qui. In questa sede intendo discutere di certi universali retorici e di certe strategie poetiche che la critica finora non mi sembra avere rilevato (a parte, con certe mancanze e idiosincrasie, il caso di Alberto Casadei e del suo tentativo di definizione del postmodernismo italiano in Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo).
Una storia romantica ambisce a essere un romanzo popolare; ambisce a esserlo mobilitando un immaginario apparentemente desueto quale è il nostro Risorgimento; ambisce a costruirsi con una lingua contemporanea che, a un livello non di semplice superficie, contrae debiti e produce omaggi alle retoriche ottecentesche, una certa allegoria in primis. Queste ambizioni, che sono fondamentalmente romantiche, sono al tempo stesso ambigue e tutto il tentativo di questo mio intervento risiede nello sforzo di fare comprendere come il romanzo storico contemporaneo, in Italia, stia montando come un’onda anomala grazie alla forza dell’allegoria, la cui natura è il dato che precisamente sfugge alla critica. Cordelli, nel suo intervento a proposito di Una storia romantica, dimentica (credo volutamente) più di dieci anni di romanzo storico contemporaneo: Q di Luther Blissett, anzitutto, e poi gli sviluppi del collettivo bolognese divenuto u Ming (Asce di guerra che ha uno scenario storico internazionale post-bellico, 54 sulla Resistenza e sulla fase post-resistenziale, l’ultimo romanzo, Manituana, che con una perizia filologica rasentante l’ossessione scopre un’ucronia nella storia da tutti conosciuta e racconta, poliedricamente, la Guerra d’Indipendenza americana come fosse un’invenzione, mentre è una cronaca quasi reale, nel suo sfondo — e si tratta soltanto del primo volume di una trilogia); e l’altro maestro del genere storico, che qualche critico ha goffamente tentato di relegare ancora in una supposta e ormai inesistente paraletteratura, che è Valerio Evangelisti, la cui saga da Medioevo fantastico deve essere interpretata esattamente come si interpreta l’opera così titolata di Baltrusaitis, cioè à la Warburg, e non come variazione pop su un manuale di storia liceale.
Per arrivare al libro di Scurati, ciò che è accaduto all’opera di Evangelisti e del collettivo Luther Blissett/Wu Ming è significativo. E’ abbacinante l’assenza di critica, di riflessione teorica su quanto questi scrittori bolognesi andavano facendo, mentre diventavano via via sempre più popolari. Si sa che ciò che rimane della letteratura prescinde totalmente dalla critica, come indica il fatto che si debba attendere il 1932 perché lo Zibaldone dei pensieri di Leopardi venga percepito da un critico come libro unitario (Fubini, per essere precisi). Se, tuttavia, si interrogano a voce i critici e i teorici, non è che non abbiano opinioni circa il lavoro di chi, finora, si è messo a lavorare alacremente sul genere storico: il critico considera tale operazione un lavoro di contaminazione di generi, una tipica operazione pop che, da Il nome della rosa in poi cade sotto la nefasta genericissima etichetta di postmoderno. Se Evangelisti, insieme al ciclo di Eymerich, devia e produce il capolavoro Metallo urlante, ciò dimostrerebbe che è pop e quindi postmoderno. Siccome i Wu Ming esorbitano dal testo e lo trasformano secondo le sue infinite vocazioni mediali, addirittura consegnandolo come codice sorgente di un programma a lettori che lo modificano come sviluppatori, ecco che sono postmoderni.
Ed è quello che capita a Scurati nel giudizio di Cordelli: basta che i nomi di due dei protagonisti rievochino Foscolo e lo stesso Leopardi, basta individuare l’evidente hugolismo che, nella Tabula gratulatoria finale è espressamente dichiarato dall’autore, ed ecco che Una storia romantica altro non è che l’ennesimo frammento nella scia cometoide del più venduto romanzo di Eco (dei Luther Blissett si arrivò perfino a dire che si trattava di uno pseudonimo dell’autore dello scellerato Pendolo di Foucault). Poichè Il nome della rosa è un romanzo che si dice essere allegorico (e invece è metaforico), tutto il romanzo storico che esce in Italia ed è palesemente allegorico diviene così postmoderno, alla maniera in cui Eco stesso accetta questa definizione. I passi da compiere sono dunque: vedere cosa sia questa allegoria che viene utilizzata ad altezza 2007; vedere cosa sia, ma direi addirittura se esista, un postmoderno in Italia.

Adesso cito Hugo. La citazione, a mio parere, descrive alla perfezione l’operazione che Antonio Scurati allestisce nel suo romanzo. Quando dichiarerò da dove in Hugo io tragga questa citazione, tutto sarà spostato e ci troveremo a ragionare prescindendo dalle categorie fino a qui evocate:

“Ciò che la gente richiede all’opera drammatica è quasi esclusivamente l’azione; ciò che le donne desiderano trovarvi, è prima di tutto la passione; ciò che vi cercano in modo particolare gli intellettuali, sono dei caratteri. […] La gente è talmente innamorata dell’azione che, se necessario, può sorvolare sui caratteri e le passioni (sarebbe a dire, può sorvolare sullo stile). […] Tutti ambiscono a un piacere; la gente, al piacere degli occhi; le donne, al piacere del cuore; gli intellettuali, al piacere dello spirito. […] Così abbiamo tre generi di opere ben distinte: l’una volgare e più bassa, le altre due nobili e più alte, ma tutte e tre soddisfano un bisogno: l’opera melodrammatica per la gente; per le donne, la tragedia che scandaglia le passioni; per gli intellettuali, la commedia che ritrae l’umanità”.

Sebbene appaia come una definizione quasi contemporanea di tipologie di produzione letteraria, Hugo sta parlando del teatro, cioè di una forma d’arte totale, che si dà nella performance, che si attua nel momento stesso in cui è recitata: sta teorizzando nella prefazione al Ruy Blas. Sorprendente, perché è evitata, nella classificazione hugoliana, l’evocazione di ciò che fondamentalmente è Ruy Blas: il politico — ciò di cui Hugo parla è un’opera teatrale politica. A dispetto dei desideri del suo pubblico, Hugo rappresenta il politico senza che la gente sia privata dell’azione, le donne dello scavo cardiaco, l’intellettuale della sua scettica meditazione. Come fa? Lo capisce alla perfezione Giovanni Raboni, che ne cura l’edizione italiana e che, senza neanche sospettarlo, scrive un manifesto della nostra narrativa contemporanea:

“Ciò non toglie, beninteso, che nel rivivere e far rivivere con tanta sontuosa intimità un passato di corruzione e di sfacelo ci fosse anche, da parte di Hugo, un’intenzione critica e satirica proiettata, qui e altrove, sul presente storico: la visionarietà poetica non è mai disgiungibile, in lui, da quella politica, dai suoi disegni e sdegni di vero o presunto protagonista delle vicende pubbliche del suo paese. Ed è proprio grazie a quest’altra chiave o, per dir meglio, attraverso questa ulteriore griglia che è possibile illuminare in Ruy Blas anche l’allegoria metastorica che il testo certamente contiene: il potere come sopraffazione assoluta e quasi gratuita, come ingiustizia ontologica, come violenza mascherata cui non corrisponde alcuna realtà umana e che, proprio per questo, nello svolgersi naturalmente meccanico del dramma, finisce con lo scontrarsi in modo omicida e tuttavia, forse, solo provvisoriamente vincente con una realtà umana senza potere, ma minacciosamente forte della propria immaginazione e del proprio futuro”.

Chi abbia letto Una storia romantica di Antonio Scurati avrà riconosciuto, in queste righe di uno dei nostri massimi intellettuali novecenteschi, una recensione profonda alla vicenda, ai temi e alla struttura del romanzo pubblicato dall’autore de Il sopravvissuto. Poiché è attraverso questa strategia, cioè l’utilizzo di una “allegoria metastorica”, che Scurati dispiega un panorama umano che fa rimbalzare dovunque nella storia — non soltanto al Sessantotto, come finge di credere Cordelli (le Cinque Giornate di Milano come i Movimenti), bensì a qualsiasi periodo in cui la vicenda dello scontro tra umano e potere avvenga: cioè in qualunque momento del regno antropico su questo pianeta. Un’allegoria che è verticale, che attraversa i tempi. I critici, spesso accecati da un eccesso di continismo, credono che l’allegoria altro non sia che una metafora protratta. Ma qui (e altrove: di Q si disse che era l’allegoria del ’77: e lo era — ma non solo di quello snodo storico. Se Q fosse stato un romanzo metaforico, la tesi sarebbe anche stata corretta; ma era un romanzo allegorico. In che senso, si va qui spiegando…) non si tratta di estendere un piano orizzontale qual è il metaforico: si tratta di saltare di livello.
Antonio Scurati, laureato in filosofia, ha una salda cultura benjaminiana. Ed è a Benjamin che dobbiamo ricorrere, se vogliamo spiegare la clavis magna che ci apre un romanzo ben diverso da quanto desiderano la “gente” e le “donne” di Hugo. Come può un’allegoria permettere un movimento metastorico? Può perché tocca degli universali concreti. Può perché non è algebrica, non è conclusa. Può perché il suo rimando è indefinito e quintessenzialmente umano. E’ la potenza dell’umano concreta, non chiudibile: libera nella sua libertà estrema, prossima al nulla, laddove volontà e senso (cioè il politico) emergono come freni ultimativi al disseccarsi del mondo:

“L’epos è effettivamente la forma classica di una storia della natura significante, come l’allegoria ne è la forma barocca. Parente com’era delle due correnti spirituali, il Romanticismo doveva avvicinare epos e allegoria. Così, Schelling poté formulare il programma dell’esegesi allegorica dell’epica nel famoso detto secondo cui l’Odissea era la storia dello spirito umano, l’Iliade la storia della natura”

annota Benjamin ne Il dramma barocco tedesco. Sotto questa lente, Una storia romantica di Scurati diventa così non soltanto una storia di romanticismo, ma — il che è qui fondamentale — una storia di Romanticismo. E si tratta di un Romanticismo che dura fino a noi, che è stato dimenticato per predilezioni antimetafische e alienanti, ma che la narrativa contemporanea (penso anzitutto a Lo spazio sfinito di Tommaso Pincio) ha dissepolto come ascia di guerra — non solo l’ha dissepolta, ma l’ha usata per menare fendenti. La malattia romantica è, per la generazione a cui Scurati appartiene, una patologia che viene avvertita come identica alla classificazione nosologica di “postmoderno”. L’ascia, sia chiaro, è un’ascia allegorica ed è lo strumento principe con cui i migliori scrittori, dal ’95 a oggi, hanno tentato di spaccare le gabbie di genere e di riportare il romanzo a ciò che è primariamente: narrazione infinita, passibile di non numerabili variazioni, universo espandibile che può esplodere in bolle di universi altri. E’ un’allegoria laica, un’allegoria che prevede l’autoseppellimento dell’umano calcolabile, prendibile, catturabile nel meccanismo dell’alienazione e del potere — è lo strumento che riporta saldamente il capo dell’uomo nell’infinito senza centro dell’immaginario:

“Nel campo dell’intuizione allegorica l’immagine è frammento […]. La sua bellezza simbolica si vanifica […]. La falsa apparenza della totalità si spegne. Perché l’eidos si oscura, la similitudine vien meno, e il cosmo, in ciò, si inaridisce. Nelle aride rebus che ancora rimangono è depositata una conoscenza che resta accessibile a colui che, confuso, medita”

e questa è la prima fase di avvicinamento all’allegorico (che, nel romanzo di Antonio Scurati, è emblematizzata dal girovagare di Jacopo prima di compiere il gesto luminoso che muterà il corso della sua vita). Usare l’allegorico predispone a un superamento del nulla, dell’inaridimento del mondo. Una fase melanconica che viene sbaragliata da un rovesciamento, che ha come primo sintomo il sospetto di una confusa presenza del senso (e il sospetto, la cospirazione, la paranoia sono stati i protocolli di partenza del rinnovamento italiano sulla via del romanzo storico). Poi si giunge alla potenza immaginifica e veritativa, all’affondo: all’esplosione dell’immaginario:

“Ambiguità, molteplicità di significato è il tratto fondamentale dell’allegoria”

scrive Hermann Cohen, citato da Benjamin. E ancora, citando Horst:

“l’allegoria dà sempre a riconoscere una ‘violazione dei confini dell’altro genere’, uno sconfinamento delle arti figurative nell’ambito di rappresentazione delle arti ‘discorsive’ e pone quelle più vicine alla musica”.

Così va a catafascio tutta la percezione del simbolico e dello spirituale desunti da una cattiva interpretazione dell’Ottocento e del Romanticismo extratedesco, che, per reazione, nel Novecento aveva dato frutti marci da subito: l’ironia difensiva delle avanguardie storiche e la loro berciante e assolutistica pretesa della totalità del gioco linguistico; di contro, le poetiche surrealiste che accoglievano una ricezione del simbolo male interpretata. L’allegoria per come Benjamin la intende sopravvive soltanto nei grandissimi capolavori, che annullano la patologia novecentesca — la quale ha un’eziologia Romantica, certo, ma non quella desunta da chi vi ha reagito: è allegorico Melville come è allegorico Kafka, o Eliot o Celan. Le storie e le saghe, bollate come paraletteratura, sono allegoriche del tutto spontaneamente. E di cosa si tratta, una volta di più? Si tratta della

“sintesi che nella scrittura allegorica deriva dalla lotta tra l’intenzione teologica e quella artistica, non tanto nel senso di una pace quanto di una tregua dei tra le due posizioni contrastanti”,

come precisa Benjamin. E’ questa l’ambiguità dell’umano: il materiale e lo spirituale in ambiguità, in sospensione di lotta, confusi, aperti — unificati nell’impatto politico che fa la comunità e ne traccia il ring sacro in tempi in cui le strategie antiallegoriche desacralizzano.

Cito dal romanzo di Scurati, per mostrare come l’allegoria, con questa sua natura antitetica, faccia compiere all’oggetto di rappresentazione il salto epico, che è ciò che viene cercato come gesto del sacro (su questo aggettivo che potrebbe puzzare di nostalgismo, saranno dati chiarimenti più sotto):

“[…] alle loro spalle, all’incrocio tra la strada di Porta Nuova e lo stradone di Santa Teresa, il popolo stava edificando un’ultima, mostruosa barricata.
Si avviava a essere alta due piani e larga cento piedi. Sbarrava da un lato all’altro la strada che dal Lazzaretto fuori le mura conduceva al centro di Milano; corrosa, dilaniata, dentellata, tagliuzzata, merlata da un’immensa lacerazione, puntellata da cumuli che erano altrettanti bastioni, con punte che sporgevano ovunque, potentemente addossata alle due linee di palazzi ai lati della strada, si ergeva come un’alzata ciclopica a ultima difesa della città insorta. Soltanto a vederla, si avvertiva l’immensa sofferenza della città agonizzante giunta al momento estremo, il momento in cui l’angoscia vuole diventare catastrofe. Quella barricata aveva lo stesso aspetto triste di tutte le costruzioni dell’odio e della rovina. Guardandola ci si poteva chiedere: ‘Chi ha costruito tutto questo?’. Ma ci si poteva anche domandare: ‘Chi ha distrutto tutto questo?’”.

Questa immagine della storia come rovina attiva ricorre nei romanzi storici (o affini) e serve come rimbalzo. Le vestigia di ciò che fu e fu in maniera inquietante, irradiante e operativa sono una piattaforma di lancio che determina la mutazione o il dissolvimento di ogni protocollo di genere — l’opera esplicita che i creatori di cicli, saghe e narrazioni apparentemente storici hanno iniziato a praticare sotto l’ombrello della fascinazione emanata dal rifondatore del genere cosiddetto fantastico, cioè Valerio Evangelisti. La considerazione di una natura attiva in tempi remoti è una porta che spalanca piani temporali diversi, e lo è in quanto, nuovamente, è un elemento attivo dell’allegoria:

“L’allegoria si pone al di là della bellezza. Le allegorie sono, nel regno del pensiero, quello che sono le rovine nel regno delle cose”.

Queste rovine non costituiscono, come accade per i barocchi che Benjamin fenomenologizza, un culto: esse sono il segno e lo strumento di possibilità che si oppongono esattamente alla religione della natura intesa come decadimento e dal recupero iniziatico alchemico degli artisti del Barocco. Si intende che queste rovine, presenza del regno umano che c’è ancora e potrebbe non esserci più, sono il segnale di una polivalenza che viene còlta nella strumentazione romantica del genere storico: la fantasia, il fantastico e l’immaginario. Per dirla in breve: ciò che sta accadendo è che il genere storico è per l’attuale generazione editoriale italiana un genere aperto a ogni possibilità — è il fantastico per eccellenza. Lo è esplicitamente in Evangelisti, laddove la tecnica allegorica e la minuziosa ricostruzione storica dell’epoca dell’Inquisizione è indifferente rispetto alle modalità di salto di tempo in avanti, verso una fantascienza che è retroattiva e significa molto rispetto al passato e al presente. In Q i medesimi effetti sono sortiti dalla fantasia (in dispegamento cospirazionista, ma secondo i canoni del romanzo popolare alla Sue, alla Poe, alla Dumas) applicata all’acribia della ricerca storica. In Una storia romantica di Scurati, l’intenzione è generale e applicata ab ovo: si tratta di utilizzare la ricostruzione storica come ucronia. E’ proprio l’ucronia il riferimento retorico (una retorica che si rinnova: non si presenta come semplice stilema, ma torna a riempirsi del suo contenuto psichico originario, cioè arcaico — vale a dire, la capacità di persuasione attraverso l’immaginazione). Gli apparati che Scurati aggiunge al suo testo sono le rovine allegoriche di quel testo: un segnale che un universo è stato creato, non semplicemente ricostruito.
Ciò corrisponde a uno stile che utilizza la lingua di superficie in una maniera assai libera e disinibita, perché (ancora citando Benjamin) “la struttura come il particolare sono sempre carichi di storicità”. Non è la lingua di superficie (che esiste ed è praticata e sarebbe stupido invocare come assente per propria cecità) l’obbiettivo primario del lavoro politico che si attua in questi romanzi: è invece la ricerca della storicità, il suo appalesamento indefinito. Viene cioè messa in ambiguità l’essenza stessa della storia: relativa rispetto al mondo, è assoluta rispetto al regno umano sul mondo. Una tale, profonda incursione alle radici stesse delle zone in cui accade ciò che accade e non ci si ricorda più che è accaduto, richiede la costruzione dei caratteri — ciò che per Hugo era appunto lo stile per eccellenza.
In Manituana di Wu Ming, la ricostruzione storica è identica all’ucronia: il collettivo era partito dall’idea di un romanzo ucronico, poi è passato allo studio e alla scoperta che, della Guerra d’Indipendenza americana, qui (ma si suppone perfino in USA) non si sa praticamente nulla e ci si imbatte in residui sorprendenti, che sono la scaturigine stessa e la precisa etimologia dell’invenzione. E’ attraverso la costruzione di caratteri, dislocati a determinate distanze reciproche, che le prospettive sul medesimo oggetto mutano, mentre l’oggetto rimane identico: strategia polifonica che rende Manituana un coro (ci stiamo avvicinando a latitudini tragiche, per inciso, evocando ciò che è corale).
In Scurati, ciò avviene attraverso la ricerca costante dell’epifania — l’ultima, inerme e potentissima forma del tragico in epoca di narrazione contemporanea. Si pensi all’incipit:

“C’è un uomo sulle barricate.
In cima a una catasta di carrozze, omnibus, carri, confessionali…”

Ecco non l’onnipotente, bensì l’onnipotenziale. Lo sguardo è fatto tremulo: sembra di scorgere una sagoma distante nel deserto: inqualificata, essa può significare l’arrivo di chiunque. Aspettiamoci chiunque. Questa onnipotenzialità reca in sé una traccia di lotta necessaria. Credo che il migliore riassunto della tragicità implicita in queste apparizioni (ciò valga anche per il Carafa di WM e, ex converso, per la finitezza della psicologia e lo spalancamento dell’ambiguità di Eymerich o di Pantera in Evangelisti) la mostri Giorgio Agamben — ancora una volta un filosofo e non un critico letterario (sebbene possiamo definire Agamben anche come filosofo della letteratura). Scrive in Che cos’è un dispositivo?:

“Il capitalismo e le figure moderne del potere sembrano generalizzare e spingere all’estremo i processi separativi che definiscono la religione. Se consideriamo la genealogia teologica dei dispositivi che abbiamo appena disegnato, che li connette al paradigma cristiano dell’oikonomia, cioè del governo divino del mondo, vediamo che i dispositivi moderni presentano, però, una differenza rispetto a quelli tradizionali, che rende particolarmente problematica la loro profanazione. Ogni dispositivo implica infatti un processo di soggettivizzazione, senza il quale il dispositivo non può funzionare come dispositivo di governo, ma si riduce a un mero esercizio di violenza. […] Il dispositivo è, cioè, innanzitutto una macchina che produce soggettivizzazioni, e solo in quanto tale è anche una macchina di governo”.

Con questo passo, Agamben disegna l’obbiettivo polemico e il funzionamento rivoluzionario dell’intera operazione di scrittura del genere storico in questi anni in Italia: al dispositivo ordinatore viene opposto un principio di comunità, un irriducibile nucleo politico interno alla narrazione che si dichiara tentare l’epico, che è l’avversario esplicito del dispositivo di separazione. La costruzione dei caratteri e delle storie è la terapia politica che viene tentata con questa operazione.
E questa operazione esprime una legittima, implicita pretesa: si autocostituisce come l’erede della tragedia. Essa manifesta il nucleo del tragico. La narrazione storica si scaglia contro l’idea di un destino preordinato, sotto un cielo che non fa più calare dall’alto la sacralizzazione di alcuna nemesi. La storia romantica è un travestimento: si tratta di una storia tragica. Ciò che è sacro, cioè la presenza dell’umano aperto a ogni possibilità (“C’è un uomo sulle barricate”), è opposto a una ideologia del sacro che viene identificata con una tradizione soffocante, che risale indietro alle sue origini combuste: certamente il Novecento, ma in vista del Romanticismo stesso. Il romanzo storico dissolve ogni strategia romantica, ogni risacralizzazione esterna alla storia che pretende di essere rappresentante di un sentire comune, popolare. Lo scrittore è l’antenna avanzata di questa intercettazione: l’intercettazione dello slittamento del tragico.
Che Una storia romantica sia il tentativo del recupero del tragico è comprensibile a partire dall’utilizzo della lingua. A differenza di quanto rilevato da Cordelli, l’utilizzo della retorica hugoliana (la sovrabbondanza di similitudini che non sono tali, l’ampio uso dell’antitesi, la sovraggettivizzazione) non è un calco ironico e non corrisponde a una ripresa in stile postmoderno di qualcosa di antico, riammodernato e ironicamente esibito. E’ invece fondamentale, per giungere al nucleo tragico, intraprendere la costruzione di caratteri che corrispondano allo stile: e lo stile che Scurati sceglie è quello dell’opera melodrammatica, che è vera, non parodiata — e soltanto in quanto vera può essere sfondata. Si intenda qui l’abolizione di un processo di mimesi: accade un’identificazione che non è dubitosa rispetto al processo di identificazione stessa. La lingua adottata da Scurati è ottocentesca (ovviamente, un’idea di Ottocento che sia leggibile a oggi). Senza quella lingua, gli intrighi, le passioni, i complotti, le reviviscenze, le tecniche più antiche della tradizione romanzesca (per tutte valga l’espediente del manoscritto ritrovato o del morto che è appare rivivere, che ha il suo culmine romantico nel teatro dei Tieck) — senza tutto questo corredo effettivo, salterebbe l’impianto che conduce al termine dell’operazione, cioè al disvelamento reale di quanto accade nel romanzo: è dissolto il melodramma poiché esso era già l’erede fallimentare del tragico, mentre lo scrittore cerca disperatamente la reviviscenza del tragico.
Qui va aperta una parentesi su un apparato che spesso viene richiamato a proposito di Scurati, cioè il saggio La letteratura dell’inesperienza, che è stato interpretato come una sorta di Fukuyama della letteratura e del disvalore dell’erlebnis in epoca contemporanea, quando l’intenzione filosofica era quella opposta: richiamare alla responsabilità il narratore, affinché rispondesse all’unica vocazione a cui la letteratura espone, che è quella dell’intercettazione del tragico e dell’epico. In questo senso la strategia testuale di Una storia romantica, passo per passo, diviene quella di una costruzione di un sistema virtuale e virtuoso: la ricostruzione di un sistema sociale e psichico di virtù, di uno psicologismo che era già finzionale alle sue origini e aveva un profondo valore politico. Si richiama qui la tesi per cui il romanzo ottocentesco e quello di formazione primonovecentesco costruisce l’interiorità borghese — questa funzione politica che, nuovamente, si schiera come un dispositivo contro cui gli scrittori contemporanei italiani hanno tutta l’intenzione di lanciare un’opera di decostruzione. Lo psicologismo è finto ab origine e tanto più sarebbe finto se trasportato sul piano di rappresentazione del presente. E’ soltanto mettendosi sulle spalle l’opera di ricostruzione precisa e metodica di un universo umano e storico in cui lo psicologismo svolgeva la sua funzione politica e formativa che si può smascherare questa finzione: e, dietro la maschera, c’è il tragico. Si consideri per esempio questo passo di Una storia romantica:

“Ora le regioni liriche delle adultere e delle fedifraghe di ogni tempo avevano preso a cantare nella sua testa con voci dal fondo gelato dei loro inferni, colmandola d’angoscia”

e lo si misuri con quanto di seguito:

“Con chi deve ospitarvi, scambiate un saluto pietoso, dolente, di chi manca di tutto. Pensate che è giusto così, che voi siete fuggiasche. Squilli nel vostro discorso la nota dell’esilio non sporco di sangue”.

Il secondo passo è tratto dalle Supplici di Eschilo. Chiarisce con quale intento Scurati rivitalizzi un sistema etico e psicologico che a certi critici può sembrare di riporto (e, quindi, postmoderno), mentre all’autore è essenziale per fare risaltare quanto ha di mira: il momento tragico. Questa assunzione di modalità che, agli occhi di certuni che non comprendono il significato dei dati di vendita della letteratura d’intrattenimento rosa, appare come pretestuosa, è, da un lato, il popolare, mentre dall’altro è la strategia di svelamento del tragico. Svelare il tragico nel presente è un atto assai complesso, poiché il tragico è metastorico, è un universale, di cui la contemporaneità cerca l’antivirus, o alimenta un sistema immunitario che Scurati chiama “inesperienza”. Hugo non scriveva romanzi contemporanei, infatti. Per riattivare il dispositivo anarchico e comunitario del tragico, la scelta è quella di dislocare nell’epoca di nascita della fiction l’ambientazione e la costruzione. E di andare fino in fondo. Tuttavia, con determinate cautele. Non è accusabile di postmodernismo chi adotta delle cautele rispetto alla materia che radicalmente tenta di sfondare. Prendiamo, per esempio, un tratto psichico fondamentale del romanzo storico di Scurati: l’onore. Converrà leggerne le cautele con una specola privilegiata — cioè contemporanea all’ambientazione scelta per Una storia romantica:

“Oggi la gara di onore è più fra coloro che compongono una stessa armata che fra le armate nemiche; anticamente per lo contrario: oggi per conseguenza il soldato invidia e quindi odia il suo compagno più che il nemico; anticamente per lo contrario: oggi egli si duol più di un vantaggio riportato da un suo emulo sopra il nemico, che de’ vantaggi del nemico; anticamente per lo contrario: oggi insomma anche nelle armate dove regna quella utilissima e grande illusione che si chiama punto di onore, tutto è egoismo individuale; anticamente tutto era egoismo nazionale. Signori filosofi, giacchè non si può fare a meno dell’uno o dell’altro, quale vi sembra il migliore? Anticamente erano emule le nazioni, oggi gl’individui, e più quelli di una stessa che di diverse nazioni; e così quando anche si cerca la gloria, cosa ben rara, e quando ella si cerca operando per la nazione e contro i di lei nemici, ella non è cercata e non ha per fine che l’individuo in luogo della nazione a cui esso appartiene”.

E’ il conflitto stesso che matura ed esplode nel libro di Scurati, embricato con il triangolo di amore che se ne sviluppa — e tuttavia è un disvelamento della finzione che pratica Giacomo Leopardi nello Zibaldone (1842/43). Questo disvelamento della finzione, che per Leopardi è il suo presente storico, non ha nulla a che vedere con pratiche astrattamente ermeneutiche: è un’opera di per sé tragica (lo Zibaldone, a conti fatti, è l’unico romanzo italiano storico e tragico del sé e, si badi, non dell’io, il cui erede diretto è Petrolio di Pasolini).
E’ la ricerca del contro la ricerca dell’io: il è la sostanza del comunitario che, sostenendo e prescindendo dalle singole psicologie, fonda la comunità. Ogni apertura al fantastico, nel romanzo storico contemporaneo italiano, è comunque uno spalancamento verso il sé. E chi può dire cosa sia il ? Esso è vuoto, appare per stralci vuoti. E’ una precisa concezione del tragico, epifanico, momentaneo, non transfunzionalizzabile, che lo scrittore vede e rappresenta, sapendo perfettamente che il dire l’immagine del sé porta a priori uno scacco.
Quale è dunque il tragico che si realizza? La risposta sta in Szondi, nel Saggio che dedica proprio al tragico:

“Al culmine dello sguardo all’interno della struttura del tragico, il pensiero ricade esausto su se stesso”

Questo esaurimento del pensiero è l’esaurimento di ogni figurazione. Bisognerebbe inforcare gli occhiali di una critica ormai incapace di tollerare un simile indentramento per cogliere la verità di un romanzo come Mater Terribilis di Evangelisti, che direttamente affronta, e non si sogna di giocare con, l’ineffabilità dello “sguardo semplice” (per dirla con Hadot) di Plotino. Quando Scurati scrive: “Noi non partiamo alla ricerca di una vita possibile”, il nucleo del tragico è disvelato. Esso non risiede nella rifondazione narrativa di una “religione dell’amore” — anzi, è fondamentalmente un atto antireligioso, poiché la religione si arroga la gestione politica del sacro, che è la potenza di tutte le potenze, cioè la possibilità infinita della manifestazione delle storie. E’ una pratica diretta di percezione del sé, laddove Scurati esprime i suoi momenti più veritativi, che sono del tutto naturalmente tremuli, naturalmente lirici, ma soltanto nel senso in cui la lirica è un movimento previsto da epos e tragedia, resosi successivamente autonomo:

“Per tutta la vita, mentre ci battevamo, ci adoperavamo, nuotavamo dentro la corrente della storia, e senza che noi ce ne accorgessimo, la marea che ci stava trasportando si stava muovendo, allo stesso tempo, verso questo — il suo grandioso Niagara! Ma che fortuna è stato non saperlo. Mi pare che si stia disfacendo tutto… tutto ciò che era nostro, nel modo più orribile e retroattivo”,

laddove non si coglie il disincanto che la modernità ha feticizzato — si coglie invece il tremolio di una luce indefinibile, testimoniale, di una rovina che non esime dall’osservare con uno sguardo più ampio della catastrofe — questo esaurimento verso cui slitta il pensiero per non pensare più, per fuoriuscire dalla tirannide del linguaggio, che sappiamo benissimo che non può dire tutto: e nonostante questo noi diciamo, noi scriviamo…
La guida che, consapevolmente o meno, indica la strada ed è seguita, sta alle origini della prosa italiana: è ancora Leopardi, è ancora lo Zibaldone:

“La ragione senza notizia del sistema del bello, delle illusioni, entusiasmo ec. e di ciò che spetta all’immaginazione e al cuore, è essa medesima un’illusione, e un’artefice di mitologia, come lo sono le dette cose. Bensì di una bruttissima, e acerbissima mitologia. La stessa essenziale inimicizia della ragione colla natura, la pone in necessità di perfettamente conoscerla, il che non si può senza sentirla. Come può ella combattere un nemico che non conosca punto? Ora la natura in quanto natura è tutta quanta essenzialmente poetica. Da che natura e ragione sono nemiche per essenza, l’una dipende o è legata essenzialmente coll’altra, come lo sono tutti i contrari; e non si può considerar l’una isolatamente dall’altra. O piuttosto non si può considerar la ragione staccatamente dalla natura (bensì al contrario) perchè la ragione sebbene nemica, è posteriore alla natura, e da lei dipendente, ed ha in lei sola il fondamento e il soggetto della sua esistenza, e del suo modo di essere”.

E’ proprio questo lo sforzo dei romanzieri storici contemporanei, da noi: non costruire una mitologia “bruttissima” e “acerbissima”. Ed è solamente sentendo appropriatamente il fondamento e il soggetto della nostra esistenza che si può procedere a una esplorazione e a uno sfondamento dell’immaginario.
Ora, che un atteggiamento di identificazione e dissoluzione della storia, senza paturnie religiose di nessun tipo e senza teleologie estranee all’umano, in lotta piuttosto con l’antiumano che si manifesta qui e ora, venga tacciata di postmoderno è addirittura paradossale. L’operazione di Umberto Eco è postmoderna all’italiana: questa credenza che esista un postmoderno italiano. Il postmodernism, in Italia, è una stagione che è saltata: sfido qualunque critico a dimostrarmi il contrario. Si è installata, al suo posto, una stagione di sfida tra l’avanguardia storica e la produzione per contaminazione di generi o per controllo petrarchesco, che si riassume tutta nell’affermazione epistolare di Calvino, recentemente riportata sulle pagine del Corsera: “Ora sono capace di fare tutto. Il problema è: cosa voglio fare?”. Un mentalismo che ha la sua sintesi migliore nell’artefazione del multilivello superfinzionale de Il nome della rosa. Mentre, però, Eco usa la storia come maschera, ne sorride creando una distanza, i romanzieri contemporanei che ho citato non fanno un simile uso della e non pongono distanza con la storia. Se sembra che contaminino, vorrei che si allargasse la definizione di postmoderno all’invenzione del romanzo epistolare, alla costruzione di un romanzo del sé di 2500 pagine, ai Promessi sposi che includono grida o al Caproni del Conte di Kevenhüller o allo Zanzotto di Fosfeni, per venire ai tempi nostri (sono due opere poetiche narrative allo stato puro…). La contaminazione e l’uso ironico dei materiali, il livello linguistico come piano ultimativo della narrazione furono già denunciati come categorie risibili dal Fortini di Verifica dei poteri. Che a oggi si continui a perpetuare questa leggenda del postmoderno in Italia (quando il postmodernism è Eliot, anzitutto: e va interpretato come ricerca del tragico – la Waste Land, con la sua prechiusa “Shall I at least set my lands in order?”, corrisponde perfettamente al movimento di marea nell’ultimo passo citato da Scurati) è ridicolo e imbarazzante — aveva ragione Fortini, che peraltro non poteva cogliere, se non con malcelato sdegno, la definitiva separazione del dispositivo metafisico da quello religioso, del sé dall’io — che è l’opera tutta che accade nel romanzo storico contemporaneo alle nostre latitudini, esattamente come accadeva ai tempi di Zola (che faceva mitologia e viene tuttora scambiato per una specie di chirurgo positivista à la Durkheim), del quale Deleuze scriveva in Logica del senso:

“L’incontro tra l’istinto e l’oggetto forma un’idea fissa, non un sentimento. Se Zola romanziere interviene nei suoi romanzi, è innanzi tutto per dire ai lettori: attenzione, non crediate che si tratti di sentimenti. […] Se in Zola l’incontro tra l’istinto e il suo oggetto non riesce a formare un sentimento, ciò avviene sempre perché esso si forma sempre al di sopra dell’incrinatura, da un bordo all’altro. L’esistenza dell’incrinatura è causa del grande Vuoto interiore. Tutto il naturalismo acquista allora una nuova dimensione”.

Ecco lo sguardo critico che viene invocato. Senza questo sguardo non è possibile penetrare fino alle fondamenta la costruzione dell’empietà apsicologica di Eymerich, l’epifania de Le Grand Diable in Manituana, il percorso iniziatico (di fuga dai molti verso il due e poi il solo sé) di Jacopo in Una storia romantica. Ed è il medesimo sguardo che deve osservare l’intento più fondante dei grandi lavori di faction che stanno emergendo in questi anni italiani: dalla madre di questa progenie, che è la Janeczeck di Cibo (nella sua appendice sconvolgente sulla sindrome da mucca pazza) al Saviano di Gomorra a quell’autentico dissesto politico e individuale che è Sappiano le mie parole di sangue di Babsi Jones.
Se non si parte da questo sforzo di costruzione di una mitologia tragica che coincide con il reale, non si comprende nulla di quanto sta accadendo alla narrazione contemporanea. Fino a questo momento è toccato agli scrittori vestirsi della marsina del critico: quanto qui scritto, in fine, coincide con le tesi anticipate da Alessandro Zaccuri nel suo illuminante saggio Il futuro a vapore — L’Ottocento in cui viviamo (laddove si legge, peraltro, la più penetrante interpretazione del fantasy-western, ma in realtà romanzo storico, Antracite, di Valerio Evangelisti). Non è un caso che il romanzo che Zaccuri ha fatto seguire a quel saggio, Il signor figlio, assuma su di sé le medesime strategie di Una storia romantica di Scurati, facendo rivivere in ucronia Giacomo Leopardi, pur di arrivare ad abissi che prima sono personali e poi sono talmente personali da risultare universali: il rapporto Padre-Figlio raggiunge intensità tragiche.
E’ sotto questo segno che l’immagineria storica letteraria sta ribaltando, che sia intercettata dai critici o meno non importa, la nostra narrativa. Il segno preciso che graffia la storia, il compito stesso della letteratura. Per dirla ancora con Leopardi, per dirla in traduzione ottocentesca in omaggio a quanto compiuto da Scurati: “Ma ben veggi’or sì come al popol tutto | Favola fui gran tempo”. Questo detto equivoco spalanca il futuro. La favola è una favola falsa che si smaschera (l’etimologia dichiarata da Leopardi è: “favella”, “chiacchiera”). Tuttavia ciò che importa è il popolo tutto e la favola che l’io fu, ma ciò che si racconta continuerà a essere.

PS. Da due lettori mi arriva un appunto e, scoraggiato, rispondo. Nel periodo di chiusura di questo intervento, che non è un saggio accademico, cito un commento etimologico leopardiano dallo Zibaldone, su versi del celeberrimo primo sonetto del Canzoniere petrarchesco: “Ma ben veggi’or sì come al popol tutto | Favola fui gran tempo”. I versi sono di Francesco Petrarca, ovviamente, immaginiamo se li confondo con versi leopardiani. Ma in Zibaldone/1917, Leopardi commenta circa un’evoluzione della lingua e della struttura che si attaglia alla perfezione su quanto sto affermando circa la critica che non vede il discorso che ho tentato di evidenziare nel pezzo. Ecco infatti come commenta, testualmente, l’autore dello Zibaldone:

E pur questa frase potè ben essere molto, se non altro usitata, anche nel parlar latino, dove sappiamo che fabulare, e fabula si adopravano comunemente per parlare chiacchierare, giacchè n’è derivato il nostro favellare e favella, e lo spagnuolo fablar, oggi hablar. Ma favola in nostra lingua oggi non vuol dir propriamente altro che novella falsa; ond’è che presa questa voce nel detto senso riesce elegantissima e di più riceve presso noi un’intelligenza quanto significativa, tanto diversa da quella che le davano i latini nella frase simile, dove usurpavano fabula, per favella o ciancia.

Ciò che definitivamente è rivolto ai critici non è il sospetto che si assumono di un mio svarione, bensì un accorato appello a meditare profondamente cosa intenda Leopardi con il suo excursus etimologico, in particolare al punto finale: “ond’è che presa questa voce nel detto senso riesce elegantissima e di più riceve presso noi un’intelligenza quanto significativa”: il che dovrebbe costringere suddetti critici ad asserire rigorosamente che Leopardi approva e imprime uno slancio a una supposta poetica del postmoderno – il che, va da sé, è ridicolo.