di Giuseppe Genna

agambenamico.jpgE’ possibile, in 19 pagine, compiere una mossa che, se vista (e si può dubitare che lo sarà), avrebbe la potenza di sovvertire l’intero ordine consolidato di una disciplina? Sì: è già accaduto. Dieci pagine di Spitzer e la critica stilistica muta per sempre. Non parliamo delle arti, dove basta un gesto (qualche verso, una linea, l’accostamento di due materiali, uno spartito di poche righe) e la storia cambia per sempre. Le 19 pagine a cui mi riferisco sono quelle de frecciabr.gif L’amico di Giorgio Agamben (Nottetempo, 3 euro) e la disciplina (che tale non dovrebbe mai essere) è la filosofia. L’amico è lo scritto più decisivo, il più acuminato e rivoluzionario, che sia apparso in questi anni in Italia. E’ un sutra della filosofia occidentale: non serve una pagina di più. Chi ha occhi per vedere, osserverà un panorama mutato, la filosofia tornare a essere quanto ha da essere: la via per la penetrazione di sé in sé e, quindi, nel mondo, in coesistenza con gli altri.

agambenamico2.jpgHo da muovere alcune domande, che concernono il passo finale di questa densa e apparentemente lieve meditazione di Agamben: domande che ineriscono alla traduzione decisiva di una parolina. Di ciò, alla fine. Poiché prima bisogna parlare del libro, in cui è imprescindibile, a mia detta, la modalità con cui il filosofo italiano più apprezzato nel mondo (e, ovviamente, in Italia condannato a un esilio accademico per anni e anni) affronta il tema decisivo, direi fondamentale, della filosofia stessa, e della politica: cioè l’amicizia.
E’ talmente embricata, l’amicizia, nella filosofia, da esserne inclusa nel nome: filia e sophia ne sono le componenti, e anticamente esse coincidevano, indicando la filia una coappartenenza alla sophia. Questo avverbio, “anticamente”, sembra essere ciò intorno a cui Agamben da anni svolge la sua opera di conversione dell’apparato dialettico, simbolico e semantico dell’area in cui si muove. Il suo opus magnum sta per completarsi, dopo la pubblicazione de Il regno e la gloria, ovverosia il secondo passo di Homo Sacer, trattato che colloca Agamben ad altezze vertiginose, ma fin troppo tecniche perché io ne discuta in questa sede. Le 333 pagine edite da Neri Pozza gettano con disarmante semplicità nello strapiombo, tra gli altri molti effetti collaterali, Impero di Negri e Hardt, procedono per diversioni decisive nella decustruzione e nella messa a nudo di ciò che per l’occidente è “il potere”. E tuttavia L’amico, se messo sull’altro piatto della bilancia in cui è posato il sistema di Homo Sacer 2.2, con le sue 19 paginette, fa pendere l’ago nella propria direzione: gentilmente, senza strappi.

L’amicizia è una sorta di disagio, forse? Sì: per i filosofi. Questa sua connaturata osmosi, questa sua quintessenziale presenza a priori nella filosofia – tutto ciò dissesta alcune certezze, impedisce il buon andamento di strategie che sono fiorite nella modernità, i vani tentativi di sutura di ferite che “anticamente” erano ricomposte. Questa considerazione dell'”antico”, sia chiaro, in Agamben non assume per nulla e mai i connotati di una nostalgia. L’antico è ora: è qui e ora. L’opera di Agamben fa sorgere l’antico in questo istante – e tale è uno dei compiti della filosofia, occidentale od orientale o di qualunque parte del mondo.
Talmente disagevole è il tema, per i contemporanei, che la prima parte della meditazione agambeniana è un significativo smascheramento di quanto fa Derrida in Politique de l’amitié, peraltro mentre è proprio in presenza del suo amico italiano: ignora una citazione decisiva di Aristotele nella sua lectio corretta. Riportando infatti un passo attribuito allo Stagirita dalle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio (passo ridesunto attraverso Montaigne e Nietzsche), Derrida deliberatamente ignora che quel passo è stato emendato nel 1616 dal grande filologo Casaubon. Il passo che fa comodo a Derrida recitava: o philoi, oudeis filos, cioè “O amici, nessun amico”, mentre la particella iniziale non è un vocativo ma un dativo e la frase si trasforma in “Chi ha (molti) amici, non ha nessun amico”, in piena linea con una celebre istruzione dell’Etica Nicomachea.
E’ significativo che Agamben vada a operare sul linguaggio, come suo solito, con la strategia di decostruire la decostruzione. E’ una rampa di lancio che il filosofo italiano adotta per decollare. Il secondo passo, infatti, non è di smascheramento: considera la parola “amico” e tenta costruttivamente di collocarla, di dislocarla in una zona morta, una zona di uscita dal linguaggio. Mentre infatti verrebbe da pensare che “amico” abbia carattere performativo (prende significato nell’atto stesso che enuncia, come per esempio la parola “amore”), Agamben di colpo, con un gesto violento, si sporge ed enuncia, mostra l'”io”, colpisce con uno choc costruttivo:

Ritengo che il termine “amico” appartenga a quella classe di termini che i linguisti definiscono non-predicativi, cioè quei termini dai quali è impossibile costruire una classe in cui inscrivere enti a cui si attribuisce il predicato in questione.

Sembrerebbe una notazione di linguistica e, di fatto, lo è. Tuttavia porre l’amicizia in una simile prospettiva muta l’assetto e cancella ogni disagio filosofico: l’amicizia è

come i termini filosofici che non hanno una denotazione oggettiva, e, come quei termini che i logici medievali definivano “trascendenti”, significano semplicemente l’essere.

Siamo a pagina 11 e già qua potrebbe concludersi un piccolo saggio straordinario. L’amicizia non è in rapporto con un oggetto: essa denota una coappartenenza all’essere. Questa, che pare un’idea astratta, non lo è per chi abbia compreso cosa sia la metafisica: cioè, una prassi. Agamben sta dicendo: provate a mettervi in amicizia, ciò che vi è amico è l’essere, il fatto concreto di essere, vale a dire l’essere presente a se stessi, sapere che si è, entrambi si è, e voi e l’amico. Non si tratta di un’idea: l’essere va sentito, ci accorgiamo tutti di essere, non è che non siamo, solo lo si dà per scontato, non poniamo attenzione sul fatto che essere è proprio un fatto, ma un tale fatto che accade sempre e ovunque.
Per esplicare e preparare al grande passo che compirà, Agamben illustra il concetto, à la Warburg, analizzando la tela di Giovanni Serodine, Incontro di san Pietro e san Paolo sulla via del martirio. Le teste dei santi sono ravvicinatissime, la fronte aderisce alla fronte altrui, e, mentre attorno si scatena l’inferno della condanna imminente e deflagra il macello con foschi baluginii, i due santi appaiono ineffabilmente calmi, si muovono immobili: si guardano senza riconoscersi, poiché, amici, essi coincidono in quella totalità trascendente che è l’amicizia. Guardare senza riconoscere l’altro: è come se non vi fosse separatezza tra Pietro e Paolo. Essere amico non è riconoscere qualcosa: è il sentire l’unità nell’essere, essere consapevoli di una simile unità.
Questa intercettazione di Agamben prepara al passo finale della sua meditazione. Essa viene infatti esercitata (l’esercizio, in greco, è àskesis: da cui il termine “ascesi”) su un lungo passo dell’Etica Nicomachea di Aristotele, che conviene qui riportare per intero:

Colui che vede sente (aisthanetai) di vedere, colui che ascolta sente di ascoltare, colui che cammina sente di camminare e così per tutte le altre attività vi è qualcosa che sente che stiamo esercitandole, in modo che, se sentiamo, ci sentiamo sentire, e, se pensiamo, ci sentiamo pensare, e questo è la stessa cosa che sentirsi esistere: esistere (tò èinai) significa infatti sentire e pensare.
Sentire che viviamo è di per sé dolce, poichè la vita è per natura un bene ed è dolce sentire che un tale bene ci appartiene.
Vivere è desiderabile, soprattutto per i buoni, poiché per essi esistere è un bene e una cosa dolce.
Con-sentendo provano dolcezza per il bene in sé, e ciò che l’uomo buono prova rispetto a sé, lo prova anche rispetto all’amico: l’amico è infatti un altro se stesso (heteros autos). E come, per ciascuno, il fatto stesso di esistere (to auton einai) è desiderabile, così – o quasi – è per l’amico.
L’esistenza è desiderabile perchè si sente che essa è una cosa buona e questa sensazione (aisthesis) è in sé dolce. Anche per l’amico si dovrà allora con-sentire che egli esiste e questo avviene nel convivere e nell’avere in comune (koinonein) azioni e pensieri. In questo senso si dice che gli uomini convivono e non, come per il bestiame, che condividono il pascolo. […] L’amicizia è, infatti, una comunità e, come avviene rispetto a se stessi, così anche per l’amico: e come, rispetto a se stessi, la sensazione di esistere (aisthesis oti estin) è desiderabile, così sarà anche per l’amico”.

Questo è un passo abissale. Conviene riportare le fondamentali conclusioni a cui giunge Agamben e poi, concisamente, osservare lo spostamento che pratico intorno a queste conclusioni, che pure, a un certo livello, condivido pienamente.
Agamben ricava alcuni punti essenziali, che in Aristotele non si presentano e non si presenteranno mai in una forma tanto esplicita. Anzitutto la questione centrale: osserva Agamben che “vi è una sensazione dell’essere puro, una aisthesis dell’esistenza”. Agamben sottolinea come qui Aristotele si riferisca non all’essenza, ma all’esistenza: l’oti einai è il quod est, non l’essenza, il quid est. Tale sensazione di esistere è quintessenzialmente dolce. Agamben rileva che, per Aristotele, tra vivere ed essere c’è un’equivalenza e scorge in ciò un’anticipazione del nietzschiano “Essere: noi non ne abbiamo altra esperienza che vivere”.
Detto ciò, l’amicizia: essa è il con-sentire, modalità che insiste nella sensazione dell’essere puro – cioè si sente assieme di essere, io e l’amico. Osserva Agamben:

L’amicizia è l’istanza di questo con-sentimento dell’esistenza dell’amico nel sentimento dell’esistenza propria.

Lungi da essere un’affermazione solamente ontologica, va qui rintracciato il nucleo fondante del politico. Agamben è durissimo con la modernità, proprio in questo punto imprescindibile:

La sensazione dell’essere è già sempre divisa e con-divisa e l’amicizia nomina questa condivisione. Non vi è qui alcuna intersoggettività – questa chimera dei moderni -, alcuna relazione tra soggetti: piuttosto, l’essere stesso è diviso, è non-identico a sé…

L’amico, sottolinea Agamben è un heteros autos: non un altro io, ma una alterità immanente nella mia stessità, un divenir altro dello stesso me medesimo. La definizione a cui giunge il grande filosofo italiano: “L’amicizia è questa desoggettivizzazione nel cuore stesso della sensazione più intima di sé”. E’ altrettanto chiaro che questo fondamento essenziale diviene il fondamento mobile e tetragono del politico: gli amici non condividono qualcosa, sono condivisi dall’amicizia, e quindi l’uomo è un animale politico nella misura in cui è iscritto a questa “sinestesia politica originaria”, data già nell’essere.
Lo si può osservare: sono conclusioni succinte ma decisive. Come la filosofia contemporanea possa fare a meno di affrontarle rimane per me un mistero. Meno misterioso, però, è il fatto che lo stesso Agamben cada in questa impossibilità, almeno in parte. Poiché un passo, in ciò che ribadisco essere una posizione idiosincratica, manca ancora alla meditazione de L’amico. Si tratta di un passo che Agamben non può compiere, per la diversione, che egli desume da Aristotele, tra esistenza ed essenza. Se è pur vero che solo vivere è la nostra esperienza di essere, verrebbe da domandare, sul piano pratico, cioè della “sensazione interiore”, che differenza si ponga tra il sentire di esistere e il sentire di essere. Questo è lo snodo fondamentale per la modernità: non sentendo, cioè non facendo prassi intima ed esperienziale della sensazione interna di essere, desume l’idea di esistere e di puro essere attraverso ciò che è categoriale o transcategoriale. Non è un caso se Agamben utilizzi “essere puro” in luogo di “esistere”, ma poi si affretti a spiegare che in Aristotele, in quel punto, l'”essere puro” è l'”esistere”. Che differenza c’è, dal punto di vista interno? Il procedere dello Stagirita, nel passo indicato, ricorda molti brani della tradizione Sufi, del Canone Pali, delle Upanishad. Basti ricordare il coattributo dell’ineffabile che gli induisti nominano ananda: dolcezza. Per il non-dualismo, cioè per la metafisica, sentire interiormente in maniera stabile che si è coincide con dolcezza pura. E chi sono i “buoni” aristotelici che avvertono questa dolcezza, l’esistenza come un bene in sé? Poiché chi ha stabilizzato tale sensazione è in un percorso metafisico che dimostra e manifesta automaticamente la potenza del politico (nessun santo lo è di per sé, ma lo è per la comunità, che lo percepisce come separato – e “separato” è il significato della radice ebraica della parola “santo”), Agamben non rischierebbe di perdere il quod est se provasse a enunciare la differenza tra la aisthesis dell’essere puro e quella dell’esistere. Ammettiamo che vivere sia l’unica esperienza che facciamo di esistere: quale altra esperienza abbiamo fatto? Abbiamo fatto, secondo la sensazione interna, l’esperienza di non esistere? Come può l’essere risultare connaturatamente sempre diviso? Da cosa? L’esistere è differenziato (è i molti), ma cosa può dividere l’essere? Come può sparire l’essere? La sensazione di esistere, di vivere, può sparire? Ricordiamo con certezza di non essere esistiti prima di manifestarci nell’esistenza? E l’amico, che con-sente insieme a noi, è non riconoscibile perché? Questa prossimità interna non è una confusione dell’unicità della sensazione interna di essere? Cosa potrebbe vedere l’essere di altro da sé? Dentro l’essere c’è qualcosa?
Fino a quando non accadrà che l’esistere e l’essere non siano sentiti internamente come la medesima “esperienza” (un’esperienza fuori dell’esperienza), i tentativi di Agamben rimarranno i più avanzati nel ripristino del dispositivo filosofico centrale, antichissimo e nuovissimo sempre, e che, come sempre, è stato pratico, materiale, radicale, politico – ma anzitutto intimo.