di Gaspare De Caro e Roberto De Caro

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[Riproponiamo su Carmilla questo saggio sulla riconversione strategica delle forze di polizia italiane ad opera dei governi di Sinistra nella legislatura 1996-2001, in obbedienza alle esigenze militari del nuovo ordine democratico mondiale, che a partire dalla prima guerra del Golfo è ancora in fase di definizione, e senza soluzione di continuità, sebbene con tragici colpi di scena. Il testo, scritto a cavallo dell’11 settembre 2001, è stato pubblicato in Guerra civile globale. Tornando a Genova, in volo da New York, Odradek, Roma 2001, pp. 163-228]

Dobbiamo avere delle forze di polizia e anche un corpo di carabinieri. La repubblica democratica italiana avrà i suoi carabinieri e li tratterà bene, meglio di quanto non li abbiano trattati i passati regimi.
(Palmiro Togliatti, Rinnovare l’Italia, Rapporto al V Congresso nazionale del PCI, Roma, 29 dicembre – 6 gennaio 1946)

Ormai è Storia. La Lunga Marcia della Sinistra è finita, il mandato di Togliatti sull’Ordine pubblico adempiuto. Gli esecutori testamentari – altri avranno a cuore gli adempimenti residui, non c’è da dubitarne – hanno ben meritato il riposo. Poiché sono nella Storia è necessità che la Cronaca li escluda. Ubi maior, minor cessat. Leggeremo dunque la Sinistra nei libri, nel capitolo che le compete: tentasse di uscirne avrebbe l’insostenibile afrore dei riti vudù.

Di per sé la laica collocazione nella Storia, alla quale intende contribuire la presente raccolta di fonti, non basta ad inibire le sopravvivenze superstiziose di un culto che già in vita della Sinistra avrebbe avuto più di un motivo di ateismo. Come sempre quando un dio muore le prefiche indugiano perdutamente nei lamenti, ben oltre la verità e l’igiene, un po’ per dovere professionale, un po’ in fiduciosa attesa di un nuovo dio di cui condividere l’obolo. Non contesteremo agli interessati la liturgia funebre e nemmeno le motivate sordità alla Storia. L’arte profana della memoria non è per tutti: richiede innocenza. Ma agli innocenti, dopo l’epifania di Napoli e Genova, l’Ordine pubblico scritto sulla carta intestata della Sinistra non lascia più margini di ingenuità: si impongono inumazioni laiche, definitive. Non è più tempo di vudù.

1. Genova e dintorni

In un paese civilmente arretrato come l’Italia – un caso imbarazzante per l’Unione Europea sotto molteplici aspetti, non ultimo quello di un galoppante, pervasivo analfabetismo di ritorno che interessa capillarmente tutti gli strati della società con incidenza notevole sulla capacità collettiva di capire ciò che sta succedendo – prevedibilmente le giornate di Genova dovevano eccitare sentimenti scomposti e inadeguati nei confronti di un movimento di protesta nato altrove e per questo sottovalutato, secondo una prospettiva italocentrica che da noi non fa difetto a nessuno, ma della quale il resto del pianeta stenta a condividere la necessità. L’esito sicuramente più prevedibile, dato d’altra parte ciò che si sa sulla loro tenuta morale e la loro incurabile inclinazione alla disperazione isterica, è stato l’esagerata crisi di fiducia dei ceti dominanti nella capacità propria e delle proprie istituzioni di controllare e prevenire il conflitto sociale, donde l’allarme generale di quei giorni, decisamente sproporzionato alla reale minaccia di sovversione.[1]
Il dopo Genova ha confermato l’ottica provinciale per la quale si stenta a leggere il dissenso nelle sue dimensioni effettive: le giornate genovesi valutate non come l’episodio di una lotta dalle inedite strategie, che per dimensione geografica e vastità di obiettivi non sopporta semplificazioni locali ed effimeri proclami di successi o sconfitte; bensì come un evento circoscritto, che innanzitutto investe l’Italia, la politica italiana, la liturgia parlamentare, che sollecita l’inesauribile chiacchiericcio mediatico, il paranoico berciare sulla necessità di isolare violenti e facinorosi, la richiesta fanatica di abiure e autodafé. Insomma, a dominare le analisi è la paura: un panico sociale che si credeva esorcizzato per sempre e che ritorna invece prepotentemente, alimentato dall’insidia di un fenomeno in apparenza nuovo e diverso, in realtà sempre identico a se stesso, sempre minaccioso dei sacrosanti privilegi acquisiti. Un terrore che in tempi più ingenui si sarebbe detto odio di classe, dettato comunque dalla sensazione di dover di nuovo immergersi nella logorante necessità della repressione quotidiana, laddove si pensava fossero sufficienti ormai gli strumenti della persuasione di massa, della retorica democratica, della logica imbonitoria dell’«interesse generale». Come ha scritto Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, nell’estrema, allarmata sintesi di una sola parola, «rieccoli».
Una visione miope, certamente. Occorre concedere, tuttavia, che per coloro che hanno passato gli ultimi due decenni nella bambagia del proprio diritto di censo – sotto «l’ombrello protettivo» di un business globale, di una fabbrichetta, di una fabbricona, ovvero di un seggio in Parlamento o in Regione, di un assessorato qualsiasi, di una dirigenza statale o locale, di una toga, di una cattedra universitaria, di una delega sindacale, di una redazione di quotidiano e così via elencando i bastioni del blocco sociale dominante – il problema si configura esattamente nei termini descritti, vale a dire di un pericolo che, al di là della retorica di circostanza sulle tragedie dell’Africa o sulle donne afghane o sul buco dell’ozono o su quant’altro sia politicamente corretto o utile far presente alla pubblica opinione, riguarda in primo luogo il sereno trascorrere della propria esistenza. Una beatitudine nirvanica garantita in prima battuta dalla dimostrata capacità di far sognare alle masse il proprio sogno, il sogno del potere, secondo la felice indicazione di Simone Weil, e in seconda battuta, quando lo spaccio onirico non ottenga i risultati previsti, dall’intervento delle Forze dell’Ordine.
La feroce repressione della manifestazione napoletana del 17 marzo 2001 – brillante banco di prova in vista del G8 genovese, preparata e promossa con tutto lo zelo desiderabile dal governo di centrosinistra[2] – ha risposto adeguatamente alle aspettative della prima società: nessuno, al di fuori di chi ha subito il pestaggio, ha davvero protestato, nessuno ha voluto veramente mettere in discussione la legittimità dell’operato delle forze dell’ordine[3] e nessuno ha ostentato i rituali borbottii parlamentari o le prescritte facce indignate; si è esibita la stessa flemma, insomma, con la quale nel marzo 1997 fu accolta dalla Sinistra la notizia dell’affondamento nello stretto di Otranto, da parte della Marina Militare, del boat-people albanese Katër i Radës, con la morte di un centinaio tra uomini, donne e bambini. In entrambi i casi le procedure giudiziarie più tardi intraprese si trascinano stancamente.
È che quando la Sinistra governa, l’efficienza dell’apparato repressivo è assai potenziata dall’allineamento mediatico e dallo stordimento ideologico che ne segue, fondato sull’inossidabile dogma secondo il quale per chi ci crede la Sinistra è sempre un po’ meno peggio della Destra e tutto ciò che fa lo fa a fin di bene, per scongiurare mali peggiori. Un primato, questo della repressione pervasiva e sincronica di corpi e cervelli, riconosciuto con una punta di invidia alla Sinistra anche da fini intenditori: «Se al Viminale ci fosse oggi Violante il ragazzo ucciso a Genova, quel pacifista che impugnava l’estintore, sarebbe stato definito un provocatore, come diceva Amendola “oggettivamente fascista”. I manganelli nelle piazze, i manganelli contro gli operai li possono usare solo i comunisti. A un governo di destra non è permesso» (Francesco Cossiga, la Repubblica, 23 agosto 2001). Una visione assai più chiara, sincera e informata rispetto a quella espressa qualche giorno prima sul manifesto (9 agosto) da Luigi Pintor, secondo il quale «l’opinione pubblica benpensante, che si aspettava da un governo di destra ordine ed efficienza […] scopre di essere nelle mani dell’on. Magnalbò, come noi (molto meglio) nelle mani dell’on. Violante». Per chi, e sono i più, non gode né dell’una né dell’altra protezione rimane valido il giudizio di Cossiga e l’idea di finire nelle mani bolsceviche dell’on. Violante, «piccolo Vishinsky» («grande, se è più contento») si conferma di gran lunga l’ipotesi più raccapricciante. C’è però anche da dire che Pintor di questa storia, per sua stessa ammissione, non ha capito niente sin dall’inizio: «ho sbagliato per difetto scrivendo che a Genova non ci sarebbero stati incidenti gravi» (il manifesto, 25 luglio 2001).[4] Vale la pena di osservare en passant che quando non si capiscono le cose, per un po’ è meglio tacere, astenersi dal formulare graduatorie tra i repressori, rinunciare a dettare comportamenti, soprattutto quando lo si fa da trent’anni e con immancabile reiterazione di risultati: ma pause di riflessione silenziose, si sa, non fanno parte del costume nazionale e tanto meno di quello della Sinistra.
Torniamo alle giornate di Napoli e Genova per coglierne la differenza. Se i medici coprono i propri crimini con la terra e i cuochi con la panna, i governi italiani dovrebbero sempre farlo con la Sinistra. Ne è un buon esempio la riforma pensionistica impedita a Berlusconi dalle proteste di piazza della Sinistra di lotta e sostanzialmente attuata poi dalla Sinistra di governo nel quadro di devastanti politiche sociali liberiste, sia prima sia dopo l’uscita di Rifondazione dalla maggioranza. Furono anni memorabili, quelli della Sinistra al governo, anni di prosperità e di pace per il blocco sociale dominante, senza turbolenze di piazza che ne alterassero la serena opulenza o disturbassero sul mercato la provvidenziale operosità della Mano Invisibile. Neanche la guerra contro la Jugoslavia scosse l’ovina mansuetudine delle masse. Solo la manifestazione di Napoli avrebbe potuto recare qualche disagio, ma, come si è detto, le forze dell’ordine quel giorno si guadagnarono il tozzo di pane di loro spettanza.
A Genova non andò così. La Sinistra, con il suo know-how repressivo, malauguratamente non era più al governo e subito le cose si misero male. Anche perché la stampa internazionale, visto il carattere globale della protesta, si occupò per una volta di noi e fu unanime nel rilevare la brutalità della repressione.[5] Ci fu quindi un’imprevista messa in stato d’accusa delle forze dell’ordine,[6] in particolare della Polizia, che sconvolse i delicati equilibri raggiunti in oltre vent’anni di consociativismo democratico, equilibri che secondo le aspettative si sarebbero logicamente dovuti rafforzare durante il quinquennio di governo del centrosinistra. La dura reazione della Polizia alle accuse, lucidissima a saperla leggere, non era improvvisata, scomposta o casuale. Era l’espressione fortemente amareggiata e risentita di apparati che si sentivano abbandonati e traditi dopo aver condiviso obiettivi ed esigenze dei ceti dirigenti e dopo che erano stati chiamati a svolgere a difesa dello Stato democratico la richiesta, duplice funzione preventiva e repressiva contro i comuni nemici.
Mentre opinion makers di tutti i lidi e di tutte le stagioni insistevano protervamente a spaccare il capello della differenza tra Destra e Sinistra, con bizantinismi tanto più improbabili dopo l’esperienza di governo della passata legislatura, con molta maggiore onestà e lucidità intellettuale Filippo Saltamartini, segretario generale del Sap, sindacato di polizia vicino al centrodestra, confessava – a proposito della mancata unanime solidarietà nei riguardi delle forze dell’ordine dopo il G8 a Genova – il proprio inconsolabile rimpianto per «l’ultimo ministro dell’Interno degno di questo nome […] l’ultimo ad aver dimostrato sensibilità al problema di una nuova cultura di polizia» (la Repubblica, 20 agosto 2001). Si tratta, naturalmente, dell’indimenticabile Giorgio Napolitano, il ‘comunista’ che su Law and Order ha mostrato a buon diritto di avere idee più chiare di quelle di Scelba, lasciando, là dove doveva, il migliore dei ricordi di sé.

 

2. Democrazia in armi

Ma le avvisaglie del malessere erano già in nuce prima di Genova e anche prima di Napoli, perché il tradimento della forma Stato sposata da Polizia e magistratura durante la legislazione di emergenza, avviato durante il governo Prodi, era già stato consumato dai governi D’Alema e Amato. Se non si vuole ripetere con segno rovesciato la banalizzante lettura dei portavoce del regime, nel giudizio sul comportamento peculiarmente esagitato delle forze dell’ordine a Napoli e a Genova occorre riconoscere criticamente, al di là della giustificata protesta contro la brutalità, l’espressione di un nuovo orientamento politico nella gestione dell’ordine pubblico, a sua volta iscritto in una revisione generale della strategia di governo.
C’è infatti una coerenza profonda, che bisogna riuscire a leggere, nella politica reazionaria della legislatura 1996/2001, una comune logica che lega interventi apparentemente disparati in un quadro omogeneo, in riferimento al quale trovano spiegazione anche le modalità peculiarmente repressive di Napoli e Genova. Se infatti la distruzione delle residuali resistenze in tema di condizioni di lavoro può essere ragionevolmente ricondotta alla tradizione, come congruo complemento del saccheggio sindacale dei salari negli anni precedenti, altre rilevanti iniziative della Sinistra di governo appaiono indiscutibilmente innovative, accreditandole la capacità di interpretare con la necessaria spregiudicatezza e in virtù di una sua specifica affidabilità politica le esigenze nuove di un mondo in rapida evoluzione. Tale l’apertura della libera caccia al clandestino, secondo le più avanzate tesi liberiste circa l’ineludibile necessità del protezionismo doganale sui flussi di carne umana, una merce notoriamente riottosa.[7] Tale, nello stesso ambito, la sadica creatività espressa dal legislatore con l’istituzione dei centri di espulsione per extracomunitari, piccoli ma funzionali campi di concentramento, come quello paradigmatico di via Corelli a Milano. E rientra ovviamente in questo quadro di disinibita modernità l’intervento umanitario in Kosovo deciso dal governo D’Alema (ma Romano Prodi rivendicò un po’ offeso la paternità dell’idea), capace di sradicare – con l’indispensabile e sempre puntuale concorso dell’intellighenzia e al modico prezzo di migliaia di vittime – l’ultima malapianta allignante nel primitivo popolo della Sinistra, «il tabù della guerra». La concessione ope legis dell’autonomia all’Arma dei Carabinieri – la Madre di tutte le riforme, elusa per cinquant’anni dai democristiani e anche da Craxi –, tra i più incisivi interventi del governo di centrosinistra, obbedisce alla medesima logica e merita maggiore attenzione critica di quanta le sia stata riservata al di fuori degli ambiti istituzionali direttamente interessati.

La documentazione che presentiamo di seguito conferma l’omogeneità del quadro testimoniando, relativamente alla gestione dell’ordine pubblico, il processo di adozione della soluzione militare cui il governo di centrosinistra ha aderito per quanto concerne anche le politiche migratorie e la risoluzione delle controversie internazionali. Essa mostra inoltre che a questo processo, legislativamente compiuto alla data delle manifestazioni di Napoli e di Genova, non sono mancate critiche e forti resistenze. Se da una parte gli interessi immediatamente investiti dagli effetti della riforma, rappresentati dai diversi sindacati di polizia e dallo stesso associazionismo di base dei Carabinieri, hanno reagito energicamente in un tentativo a tratti estremo, sul filo disperato della tollerabilità istituzionale, dall’altra molteplici e autorevoli, anche se assai minoritarie, si sono levate le voci di coloro che in seno al Parlamento e sporadicamente sulla stampa[8] hanno avvertito la drammaticità degli eventi, sottolineando il carattere radicalmente innovativo dell’azione legislativa: a riprova di quanto riduttive, criticamente asfittiche, siano le letture prevalenti degli avvenimenti, liquidatoriamente rinvianti ad un mero contrasto di interessi corporativi. In gioco c’era ben altro. C’era la rimozione definitiva della concezione dell’ordine pubblico e della repressione sociale e politica come concertazione tra poteri, specchio dell’indispensabile equilibrio da raggiungere di volta in volta tra istanze militari e civili, ma con la prospettiva di una sempre più accentuata preminenza delle forze di polizia a ordinamento civile, così come indicato dalla legge 121 del 1981. Tale legge è stata la barricata giuridica opposta dall’ostinata ma inefficace resistenza di coloro che ne rivendicavano la paternità o ne sposavano l’indicazione implicita di una riorganizzazione dello Stato: una legge la cui applicazione storicamente disattesa, in virtù proprio dell’inesauribile potenza dissuasiva dell’Arma, ha enormemente agevolato il compito dei suoi affossatori. Infine ogni opposizione è stata bruscamente interrotta: in prima battuta dall’accelerazione dell’iter parlamentare con l’approvazione della legge delega e in seconda dalla promulgazione dei decreti di attuazione. Le forze che si erano così strenuamente opposte rientrano prontamente nei ranghi e provvedono in fretta ad adeguarsi alla nuova disciplina dell’ordine pubblico. La repressione poliziesca manu militari delle manifestazioni di Napoli e di Genova e la successiva pretesa di immunità dalle censure del potere giudiziario e dell’opinione pubblica – un’immunità inerente appunto alla disciplina di guerra –, si conformano ostentatamente al nuovo ambito giuridico.

 

3. Cronache di un amore

Nonostante le accorate proteste di molti rappresentanti della Polizia di Stato e dell’Esercito,[9] dopo oltre due anni di dibattito parlamentare, il 30 marzo 2000 venne approvata in via definitiva al Senato la Legge n. 78 – Delega al Governo in materia di riordino dell’Arma dei carabinieri, del Corpo forestale dello Stato, del Corpo della Guardia di Finanza e della Polizia di Stato. Norme in materia di coordinamento delle Forze di Polizia. La maggioranza fu impressionante: 181 voti a favore, 12 contrari (Lega Nord, PDCI, PRC), 4 astenuti. La legge impegnava il Governo a emanare entro sei mesi dalla sua entrata in vigore «uno o più decreti legislativi, per adeguare […] l’ordinamento ed i compiti militari dell’Arma dei carabinieri, ivi comprese le attribuzioni funzionali del Comandante generale, in conformità con i contenuti della legge 18 febbraio 1997, n. 25» (Art. 1).[10] Il 19 luglio, dopo tre mesi di inutile passione da parte dei sindacati di polizia e dei Cocer dell’Esercito e l’intervento allarmato, ma beatamente fiducioso di qualche politico,[11] il Consiglio dei ministri «nel tempo record di un’ora scarsa»[12] e «sotto il vigile controllo del presidente della Repubblica Ciampi»[13] diede il via libera al decreto di rinnovo della struttura dell’Arma dei Carabinieri e a quello di riordino delle carriere della Polizia, chiudendo in tal modo «un nuovo capitolo della riforma della Benemerita che potrà così rendersi del tutto autonoma dall’Esercito e diventare la quarta forza armata del Paese».[14] Il decreto fu rinviato per un parere alle commissioni parlamentari competenti e il 2 ottobre successivo il consiglio dei Ministri mise la parola fine su qualunque ulteriore ipotesi di discussione, approvando il riordino delle forze di polizia con tre decreti legislativi.[15] Il ministro della Difesa Sergio Mattarella dichiarò per l’occasione, regalandoci un brivido lungo la schiena, che a seguito delle decisioni del Governo l’Arma assumeva «un assetto più moderno, e tale da garantirle un’efficienza ancora maggiore e adeguata ai tempi».[16] Il mandato di Togliatti si era adempiuto.

Certo che a volerli interpretare i segnali di un orientamento autoritario della Sinistra in materia di ordine pubblico erano stati numerosi e inequivocabili, anche a prescindere dall’antico impegno programmatico riportato in esergo. In un noto saggio di Luciano Violante del 1995 – dal titolo fortemente espressivo dell’itinerario ideologico della Sinistra, Apologia dell’ordine pubblico[17] –, considerato «la prima bozza della nuova concezione della politica di sicurezza»,[18] oltre a «trovare alcune delle teorizzazioni poi riprese nelle stesse relazioni annuali del Ministero dell’Interno al Parlamento dal 1997 in poi»[19] è possibile individuare anche il nucleo teorico sul quale poggerà il riassetto del settore sicurezza da parte del governo D’Alema. In primo luogo l’onorevole Violante mostra di non essere affatto preoccupato dalla questione centrale che investe l’Arma dei Carabinieri, cioè quella di un corpo militare con compiti di polizia civile all’interno di un ordinamento democratico. Al contrario, il problema semmai è quello di assegnare alla Benemerita funzioni e mezzi crescenti in materia di controllo capillare delle nostre vite:

L’Arma dei carabinieri impiega giornalmente dai 2.500 ai 3.000 militari per le traduzioni dei detenuti. Un decreto legge del 1° settembre 1995 (n. 369) stabilisce che a partire dal 1° aprile 1996 il servizio di traduzione passerà progressivamente alla polizia penitenziaria. Il passaggio dovrà avvenire con rapidità, utilizzando il tempo disponibile sino all’aprile 1996 per addestrare il nuovo personale. Nel più breve tempo possibile l’Arma dei carabinieri dovrà essere alleggerita da un compito ormai estraneo alle funzioni di istituto così da potere impiegare in compiti di controllo del territorio il personale ora addetto alle traduzioni.[20]

Poi, dopo aver sentenziato salomonicamente che «una repubblica ben ordinata difende l’equilibrio tra poteri e responsabilità» e aver constatato che «a un eccesso di “autonomia” dei carabinieri corrisponde un’anomala concentrazione di poteri nella polizia di Stato», Violante ci offre uno spaccato europeo delle soluzioni adottate «di fronte a problemi analoghi»:

La Spagna […] ha posto la polizia militare alle dipendenze del ministero dell’Interno, con buoni risultati. Il Belgio ha addirittura smilitarizzato la polizia militare.
In Italia sarebbe un grave errore smilitarizzare l’Arma. Si dovrebbe invece studiare la praticabilità della collocazione dei carabinieri, fermo restando il loro carattere militare, alle dipendenze gerarchiche del ministro dell’Interno proprio perché la massima parte del loro lavoro si svolge nell’ambito delle competenze istituzionali e della responsabilità politica di questo ministro.[21]

Perché «in Italia sarebbe un grave errore smilitarizzare l’Arma» l’onorevole Violante non ce lo dice da nessuna parte, fidando evidentemente nella nostra intuizione.[22] L’esigenza di soddisfare le richieste dei vertici della Benemerita[23] trionfa anche sul rischio di apparire decisamente ostile nei confronti dei vertici della Polizia, una scelta che si conferma ben ponderata e partita da lontano:

le funzioni di direttore generale della Pubblica sicurezza dovrebbero essere scisse da quella di capo della polizia. Polizia e carabinieri entrerebbero insieme nel dipartimento della Pubblica sicurezza, la cui direzione potrebbe essere tenuta a rotazione da un funzionario proveniente dai ruoli del ministero dell’Interno e da un funzionario proveniente dall’Arma dei carabinieri.
Il ministro dell’Interno avrebbe tutti i mezzi per poter svolgere responsabilmente le sue funzioni costituzionali. La sicurezza dei cittadini sarebbe meglio garantita. Si eviterebbe un eccesso di poteri nella polizia. Si risponderebbe ad un’antica aspirazione dell’Arma, perché il comando generale potrebbe essere attribuito ad un ufficiale proveniente dallo stesso corpo e non, come oggi accade, dall’esercito. Carabinieri e poliziotti avrebbero finalmente un’effettiva parità di trattamento.[24]

[1. continua. Le altre puntate qui]


[1] La Sinistra si associa volentieri a questi ricorrenti sussulti d’ansia per l’ordine pubblico; però è anche della sua natura far valere negli intervalli una più rassicurante, orwelliana visione delle cose: «Insomma l’Italia, anche quando gli italiani sono in preda a una folle paura, resta uno dei paesi più sicuri d’Europa e del mondo, grazie anche alla tendenza di una gran parte della popolazione a denunciare e a collaborare con le forze di polizia e alla presenza di un tasso per abitante di operatori della sicurezza, che non ha eguali in nessun paese democratico» (Livia Turco, I nuovi italiani. L’immigrazione, i pregiudizi, la convivenza, Mondadori, Milano 2005, p. 18). Ed ecco come un inedito tentativo di linciaggio (cfr. i titoli di Repubblica, 12 marzo 2006: Guerriglia urbana a Milano. Autonomi scatenati, la folla tenta di linciarli; E in strada caccia ai violenti: «La gente li voleva linciare») viene sublimato da una notoria ninfa egeria della Sinistra: «Il dato nuovo, sul quale vale la pena di riflettere, è dato infatti dalla immediata spontanea condanna che è stata espressa, prima ancora che dalle forze politiche, da quei milanesi che, sul luogo degli scontri, lungi dal solidarizzare con i manifestanti, hanno incitato le forze di polizia a isolarli, bloccarli, fermarli, metterli in condizione di non nuocere» (Miriam Mafai, Ritorno al passato, ivi).

[2] La «Rete No Global – Network campano per i diritti globali» ha pubblicato un importante volume dedicato agli avvenimenti: Zona Rossa. Le «quattro giornate di Napoli» contro il Global forum, DeriveApprodi, Roma 2001.

[3] Un’inchiesta preannunciata dall’allora ministro degli Interni Enzo Bianco – criticato da qualche collega perché durante gli scontri, alla salute di manifestanti e poliziotti, si dedicò alle delizie della cucina e del panorama partenopei in un ristorante di Posillipo e nonostante le sanguinose notizie in arrivo non si mosse di lì fino al sacrosanto dessert, riparando poi prudentemente a Roma – si è dissolta nel nulla, senza ulteriori clamori e Amnesty International ha continuato inutilmente a chiederne ragione.

[4] Con molta maggiore consapevolezza e conoscenza della natura e delle funzioni delle istituzioni democratiche, Vittorio Agnoletto si mostrò al contrario assai preoccupato: «“La Polizia a Genova non abbia armi da fuoco”. Alla vigilia dell’incontro con il governo – che si terrà giovedì – il movimento dei contestatori del G8 chiede garanzie. Gli incidenti potrebbero degenerare e se gli agenti dovessero essere armati ci potrebbe anche scappare il morto, temono i rappresentanti del Genoa Social Forum. “Chiediamo che il governo si fermi a riflettere sui fatti di Göteborg, non vogliamo che qualcuno rischi la vita”, spiega Vittorio Agnoletto» (G8, appello dei contestatori: «Polizia senza armi da fuoco», in la Repubblica, 26 giugno 2001). Le forze dell’ordine ovviamente erano del tutto consapevoli delle condizioni in cui si sarebbero svolte le manifestazioni. Il commissario capo Filippo Saltamartini, Segretario generale del Sindacato autonomo di Polizia, ricorda: «nei nostri ambienti si diceva che a Genova ci sarebbero stati dei morti, che il morto ci sarebbe scappato. E io ho ricevuto fior di telefonate, anche dalle mamme, per evitare a questo o a quello l’invio in servizio a Genova» (Nando dalla Chiesa – Filippo Saltamartini, La legalità arrangiata, in MicroMega, 4/2001, p. 82).

[5] Tra le numerose, indignate proteste internazionali va segnalato l’«attacco durissimo» del «presidente del sindacato europeo di Polizia, il tedesco Hermann Lutz. “Sono profondamente colpito dal modo di procedere dei colleghi italiani – ha detto alla tv ZDF – di fronte a quelle immagini, ho pensato che si trattasse di fatti avvenuti in una dittatura, nell’Europa dell’Est o a Cuba, non da noi, nel centro dell’Europa”. Lutz in particolare ha detto di essere rimasto scioccato vedendo i reparti che marciavano compatti battendo con i manganelli sugli scudi: “Rituali del genere – ha osservato – non appartengono a una polizia democratica”» (Stefania Di Lellis, Cortei a Londra e Berlino. «Inchiesta sui pestaggi», in la Repubblica, 29 luglio 2001). Occorre notare che per un tale giudizio sulle forze dell’ordine Lutz non ha alcuna necessità di attendere i successivi pestaggi indiscriminati, le sparatorie e le sevizie: gli è più che sufficiente constatare la natura paramilitare dell’addestramento ricevuto dalla truppa.

[6] Anche da settori importanti della Chiesa si levarono voci indignate: «“I vescovi lamentano che in cinquant’anni di episcopato non hanno mai veduto simili efferatezze, dalla fine dell’ultima guerra”. Sul G8 e le repressioni delle forze dell’ordine intervengono con un documento alcuni vescovi, i teologi di Milano, esponenti di Pax Christi, parroci, religiosi e religiose, laici di Associazioni ecclesiali. Giuseppe Casale, Luigi Bettazzi e Antonio Riboldi, vescovi emeriti di Foggia, Ivrea e Acerra, insieme agli altri esponenti cattolici si interrogano allarmati. “Di fronte alle immagini di brutale e selvaggia violenza di molti tra polizia e carabinieri, ci domandiamo da cosa sia generata questa deriva pericolosa”. A Genova, prosegue il documento, “molti agenti picchiavano la gente comune – famiglie con bambini, giovani e studenti appartenenti ad associazioni di volontariato sociale – come se stessero punendo l’espressione di idee non gradite a qualcuno”. Un atteggiamento contrario al compito delle forze dell’ordine che non è “certamente quello di operare pestaggi indiscriminati, vendette private o ritorsioni […], ci giungono notizie di violenze ai danni persino di ragazzi down, di anziani, di persone religiose» (Lo sgomento dei vescovi. «Violenze mai viste dal ’45», ivi, 30 luglio 2001). È interessante notare la convinta insistenza dei vescovi a definire «molti» gli appartenenti alle forze dell’ordine che hanno partecipato alle «efferatezze». Una forte presa di posizione contro i diffusi e infine riusciti tentativi di minimizzare l’accaduto e sollevare gli apparati di polizia dalle loro oggettive responsabilità (cfr. n. 22).

[7] «L’affondamento del barcone Kater I Rades […] può essere considerato l’atto più grave della nuova politica migratoria italiana. La responsabilità politica di questa strage è palese e secondo alcuni appare evidente che, in quanto a prassi di occultamento delle responsabilità, nulla è cambiato rispetto ai periodi delle stragi e dei complotti. Da quel momento, la prima preoccupazione del governo è sempre stata quella di vantare l’efficacia della repressione dell’immigrazione clandestina in termini di numero di respingimenti alle frontiere, espulsioni, internamenti nei centri espellendi e arresti. Gli stessi dati statistici sull’evoluzione del numero di immigrati in Italia mostrano in modo esplicito quanto il contrasto dell’immigrazione sia stato efficace: anche se si somma ai permessi di soggiorno validi la stima più accreditata degli irregolari, si constata che la presenza straniera viene mantenuta entro dimensioni piuttosto irrisorie: circa 1.300.000 persone, ossia il 2,3% della popolazione residente. Solo lo 0,7% dei permessi validi a fine 1998 è stato concesso per motivi di asilo a extra comunitari (in totale 6240)» (Salvatore Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, Feltrinelli, Milano 2000, p. 223).

[8] Cfr. in particolare Giorgio Bocca, Un paese anormale, in la Repubblica, 23 febbraio 2000; Id., Quelle paure dei politici, ivi, 2 aprile 2000; Eugenio Scalfari, L’inquietante barzelletta della nuova Forza armata, ivi, 1 aprile 2000; Giuseppe D’Avanzo, Quella stelletta in più, in Corriere della Sera, 23 febbraio 2000.

[9] L’Associazione Nazionale Funzionari di Polizia (ANFP) reagisce con violenza nell’autunno del 1997 a un primo «tentativo (non riuscito), di far passare, quasi in sordina, attraverso un emendamento alla legge finanziaria, un progetto di riordino delle forze di polizia che amplifica smisuratamente i poteri dell’Arma dei Carabinieri, elevandola al rango di forza armata» (Legge 78/2000: Riordino delle Forze di polizia. Si tratta di un lungo e dettagliato documento riepilogativo delle iniziative intraprese dall’ANFP, che è possibile leggere, insieme a un’ingente e qualificata mole di materiale inerente alla vicenda, sul sito Internet dell’Associazione: www.uni.net/anfp). È l’inizio di una lunga, veemente battaglia condotta dalla Polizia di Stato, e soprattutto dall’ANFP, contro Governo, Parlamento e Arma dei Carabinieri per impedire l’attuazione di un piano subito giudicato mirante allo «smantellamento della legge 121/81 e per regalarci lo “Stato forte”», come recita il comunicato ANFP del 3 novembre 1997, firmato dal segretario nazionale Giovanni Aliquò (Cile, Cile, Argentina! Ovvero l’Italia come l’America latina). Nel documento, che riguarda l’Atto Senato 2793 – A, art. 18, si legge anche: «“Un Paese normale” era il programma dell’Ulivo prima delle elezioni. Con il sostegno di tutte le Forze politiche, in Senato è passata una norma grazie alla quale ci normalizzeranno, ma alla Pinochet». L’Associazione dei Funzionari di Polizia arrivò ad acquistare a più riprese spazi pubblicitari su alcuni dei maggiori quotidiani italiani (la Repubblica, la Stampa, l’Unità, il manifesto: una scelta significativa), per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla gravità di quanto stava avvenendo, senza peraltro commuovere minimamente i duri cuori dell’intellighenzia di Sinistra e tanto meno quelli della classe politica (al governo o all’opposizione che fosse), che glissarono omertosamente sulla questione, nonostante il rituale dibattito ritualmente innocuo scatenatosi sulla stampa nei tre giorni successivi al varo della legge, dibattito che rimase appunto senza seguito e non incise in alcun modo sull’iter legislativo. In un’analisi dettagliata dell’Atto Senato 2793Ter-bis – svolta pochi giorni prima della sua approvazione e pubblicata in Internet, dove ancora si può leggere (www.uni.net/anfp/commento%202793ter1.htm) –, i Funzionari di Polizia ravvisavano un disegno per cancellare «le conquiste democratiche sancite dalla legge 121/81» (cfr. Allegato B). Ma anche l’Esercito si fa sentire: «Nel marzo ’99, in un documento di sette cartelle redatto dal “Reparto Personale dello Stato Maggiore della Difesa”, si legge: “Se passa la legge di riforma si prefigura il pericolo di rapporti di convivenza non pacifica tra lo Stato Maggiore e l’Arma”. Siracusa [comandante generale dell’Arma] viene considerato l’“ispiratore del progetto di riforma e reo di averlo concordato con i vertici politici, scavalcando quelli militari… Ove si accetti il percorso ora adottato, si traccia un pericoloso precedente che autorizzerà in futuro l’Arma, nei possibili momenti di contrasto con lo Stato Maggiore della Difesa, ad adire con colloquio riservato l’interlocutore politico”. Il generale Mario Arpino, capo di Stato Maggiore della Difesa, non sottoscrive il documento. Ma resta agli atti» (Massimo Giannini, Il compleanno del generale. I misteri del dossier Cocer denunciato nelle caserme, in la Repubblica, 2 aprile 2000). Il documento venne alla luce grazie a uno scoop di Panorama.

[10] «La riforma dei carabinieri è vecchia di tre anni. Nasce col governo Prodi. Prima come emendamento collegato alla Finanziaria del ’97: un tentativo un po’ “forte”. Giorgio Napolitano, allora agli Interni, lo blocca. Ma all’inizio del ’98 rispunta, sotto forma di disegno di legge al Senato: atto numero 2793-ter. Lo firma l’intero governo, da Prodi a Ciampi a Bassanini a Visco e a Napolitano. Lo prendono a cuore i popolari, lo stesso Mattarella, Beniamino Andreatta, ma anche i diessini, soprattutto attraverso Massimo Brutti, esperto di sicurezza di Botteghe Oscure. Da allora, parte una manovra di lobby discreta, da parte dell’Arma, sul governo e il Parlamento. Il terreno è fertile, il Paese è distratto: c’è la missione Euro, e non si pensa quasi ad altro. Ma al Quirinale c’è ancora Oscar Luigi Scalfaro. Si dice oggi che quella riforma non gli sia mai piaciuta: troppa autonomia ai carabinieri, poco coordinamento tra le forze di sicurezza. La legge ristagna, nella palude delle commissioni parlamentari. Il generale Siracusa, prima di passare a Viale Romania, era capo del Sismi, dove nel ’95 cominciavano a filtrare i primi “file” dell’affare Mitrokhin. Nel novembre del ’96 diventa comandante generale dei Carabinieri. Fa un gran lavoro, e lo fa bene, per rimettere a posto l’immagine e l’organizzazione dell’Arma. Aspetta la riforma, senza esporsi troppo. Le cose cambiano quando l’Euro è archiviato, e a Palazzo Chigi arriva D’Alema, con l’appoggio di Francesco Cossiga. La sinistra ha bisogno di aprirsi a un mondo, quello delle polizie e dei militari, che è da sempre appannaggio elettorale della destra. Il nuovo premier è pronto a dialogare, la Benemerita a farsi sentire. Forse troppo» (ibid.).

[11] «Fuori dal palazzo, i sindacati, i Cocer dell’Esercito, ma anche le forze politiche continuano a scontrarsi. Il capo dell’ANFP Giovanni Aliquò è convinto che si stia andando verso un “enorme servizio segreto”. Siulp e Sap protestano perché non si è discusso prima della riforma con il rischio adesso di dover inseguire i carabinieri. E il Silp-Cgil avverte: “È il modello civile, non quello militare che deve prevalere”. Dal Polo, da Rifondazione comunista, ma anche dal Pdci giungono invece dichiarazioni preoccupate: se la riforma non risultasse adeguata, sarà il Parlamento a fermarla» (Liana Milella, Il presidente della Repubblica Ciampi media tra Interni e Difesa, in www.repubblica.it, 19 luglio 2000). Il Parlamento, il va sans dire, non fermò proprio nulla.

[12] In piena armonia, se ne deduce, a parte «qualche tensione […] durante l’esecutivo, soprattutto perché il ministro dell’Interno ha portato solo all’ultimo momento gli oltre 70 articoli che ridisegnano le carriere della polizia» (ibid.).

[13] Ibid. Nella ricerca di piccole ragioni dei grandi eventi – come il naso di Cleopatra –, qualcuno insinua che in tanta autorevole solerzia avesse il suo peso il problema della pensione o della «prorogatio» del generale Siracusa, comandante dell’Arma: «a questo punto entra in gioco il compleanno di Siracusa. La legge precedente prevede che il generale debba andare in pensione al compimento del 63esimo anno. Cioè il primo aprile 2000. Il tempo stringe. Il generale è preoccupato. Il 25 febbraio riceve un primo conforto: il governo vara un decreto per prorogare di un anno il suo incarico. […] Nella legge di riforma c’è la soluzione definitiva del problema. L’articolo 1, comma 2, recita: “Si dispone… l’elevazione a 65 anni del limite di età pensionabile per i generali di corpo d’armata e di divisione, equiparando correlativamente anche quelle del comandante in carica…”. Il comma 3 aggiunge: “L’elevazione a 65 anni ha effetto a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge”. È una corsa contro il calendario. A buon fine per il generale. Il 30 marzo il Senato approva in blocco il testo […]. Il 31 Ciampi firma la legge. Ieri, primo aprile, è promulgata, in Gazzetta Ufficiale. Il generale Siracusa è a posto. Può restare fino al 2002» (Giannini, op. cit.). In realtà che fosse in atto una sospetta corsa contro il tempo era già stato denunciato alla Camera dall’onorevole Tassone nella seduta del 26 novembre 1999 dedicata all’A.C. 6249: «c’è stata un’accelerazione del procedimento legislativo che però – è bene che la Camera lo sappia – non è stata determinata da questo ramo del Parlamento nella sua autonomia, ma da forze esterne e, soprattutto, dal comandante generale dei Carabinieri, il quale ha anche mandato in giro suoi ufficiali per condizionare i lavori parlamentari. Se questi sono i presupposti su cui nasce la legge, sono preoccupato, sono sinceramente preoccupato. I tempi li ha scadenzati l’Arma dei carabinieri perché Siracusa non vuole andare in pensione, non li ha scadenzati il Parlamento. Ebbene, se questi – come dicevo – sono i presupposti, siccome si parla di forze di Polizia e di Carabinieri, avendo ben presente la storia dell’Arma, sono sinceramente preoccupato! Se poi il Presidente della Camera ed il Governo non sono preoccupati, io lo sono. Ecco perché, per quanto mi riguarda, mi opporrò ferocemente a questo provvedimento. Un Governo non si può sottrarre alle proprie responsabilità né può subordinarsi ad un comandante generale dei Carabinieri». Come commenteranno i funzionari di Polizia, «le parole sono, a dir poco, esplosive; ma, incredibilmente, non si registra nessuna reazione» (Legge 78/2000: Riordino delle Forze di polizia, cfr. n. 9).

[14] Milella, Il presidente della Repubblica Ciampi media…, cit.

[15] A testimonianza dell’inazione parlamentare, il 26 settembre il senatore Antonio Di Pietro presentò a Roma un documento in cui interveniva assai criticamente «sui decreti attuativi relativi al riordino delle Forze di Polizia». Il testo completo si poteva leggere in http://antoniodipietro.org/comunicati/com59_001003.htm. Nell’Allegato C si riportano alcuni passi significativi.

Diverso il giudizio ufficiale dei DS. L’onorevole Marcella Lucidi, responsabile nazionale sicurezza DS, in un comunicato stampa del 3 ottobre 2000 distribuisce a piene mani agli scontenti cloroformio e giulebbe: «La nostra valutazione dei decreti di riordino è positiva. Pure se resta un ‘debito normativo’ verso la polizia di Stato. Ci siamo preoccupati in questi mesi di assicurare a polizia e carabinieri una riforma che tenesse insieme i principi della legge 121/81 e l’esigenza di ammodernamento degli apparati di sicurezza. A questa finalità si è ispirato il nostro disegno riformatore che, con l’uscita dell’arma dei carabinieri dall’esercito italiano, disegna una nuova convergenza tra le forze di polizia. Siamo convinti che non ci siano figli e figliastri della riforma. I decreti sull’arma dei carabinieri sono un buon risultato. Quanto alla polizia di Stato c’è una legittima insoddisfazione che va ascoltata e che contiene elementi di verità. Le indicazioni utili che erano state offerte tenendo conto delle legittime esigenze del personale della polizia di Stato devono rimanere nella agenda politica dei prossimi mesi, a partire dalla stesura e dall’approvazione delle norme sull’inquadramento del personale e sulle carriere non direttive» (www.democraticisinistradeputati.it/Stampa/Comunicati/ottobre00/01.htm).

[16] Il Consiglio dei ministri sgancia i carabinieri dall’esercito, in www.repubblica.it, 2 ottobre 2000.

[17] Luciano Violante, Apologia dell’ordine pubblico, in MicroMega, 4/95, pp. 124-140.

[18] Palidda, op. cit., p. 86 n. 12.

[19] Ivi, p. 60.

[20] Violante, op. cit., p. 130.

[21] Ivi, pp. 131 s.

[22] L’onorevole Violante deve avere anche qualche problema con l’aritmetica elementare e un po’ anche con la fisica dei corpi: «Lei ha detto che a Genova ci sono stati eccessi sporadici e isolati. Non sembra che siano stati così sporadici e isolati. “Ho detto casi singoli. Gravissimi, ma singoli. Risulta che su ventimila appartenenti alle forze di polizia che erano lì, si sono comportati in modo incivile non più di trecento, quattrocento persone”» (Gianluca Luzi, Il Polo ci porti più rispetto e noi daremo il nostro aiuto, intervista a Luciano Violante, in la Repubblica, 10 agosto 2001).

[23] Inclusa la richiesta di assegnare il comando generale dell’Arma a un ufficiale dei Carabinieri invece che a un generale di corpo d’armata proveniente dall’Esercito, che non sarà accolta, anche se nel suo complesso la legge votata «dal Parlamento su proposta del governo nel febbraio 2000 corrisponde quasi del tutto al progetto elaborato dai cc e presentato dal comandante, gen. Federici nell’intervista concessa all’ex collega L. Caligaris (per un periodo eurodeputato Fi) su “Epoca”, del 27/4/93, pp. 121-125» (Palidda, op. cit., p. 86 n. 14). Pare che l’ormai ex comandante generale dell’Arma Luigi Federici non apprezzasse affatto la pur lieve licenza che Governo e Parlamento si erano concessi e proprio in quel febbraio espresse il suo disappunto: «Questo governo deve spiegare l’aberrazione che un generale di corpo d’armata [dei Carabinieri] non possa concorrere con quelli dell’Esercito al comando dell’Arma» (Liana Milella, Quella lobby ostile alla riforma, in la Repubblica, 3 aprile 2000). L’«aberrazione» venne sanata nella legislatura successiva.

[24] Violante, op. cit., p. 132.