babsicoverrcs.jpgdi Babsi Jones

[E’ in libreria frecciabr.gif Sappiano le mie parole di sangue (Rizzoli 24/7, 16.50 euro), il quasiromanzo di Babsi Jones. Ne pubblichiamo uno stralcio: torneremo a scrivere, di questo sconcertante reportage dall’umano, libro di guerra esteriore e interiore, compendio dell’alienazione brutale e brutale confessione di chi ha il coraggio di mettersi a nudo, chiedendo una risposta al suo assalto in forma di visione aperta e quasi insostenibile. Per il momento, oltre al brano che riproduciamo di seguito, vi invitiamo a visitare il sito del libro, che è una zona Web labirintica quanto l’Amazzonia, un’esperienza artistica di Rete in cui il testo deborda per immagini, scrapbook, booktrailer, mp3, citazioni, documenti, analisi – si entra e si fatica a uscirne. gg]

Terzo piano.
Entro a caso in un appartamento.
Muri su muri su muri su muri.
Li tocco.
Dovrebbero raccontare qualcosa di me, Direttore: perciò li ho ritratti con la
Nikon che mi hai regalato. A questo sono ridotta: a far parlare in mia vece
fenditure, fessure, cemento, crepe, calce e calcina, e mattoni spolpati. Qualche
particella di ferro già divorata dalla ruggine.


Quattro muri: sempre gli stessi, e sempre diversi; come distinguere un muro
in caduta da un altro, come classificare macerie e spoglie edili, come schedare
questi toni di grigio; come scindere la mia solitudine in isolamento, assenza,
rifiuto, torpore, inquietudine, autismo, frustrazione, paura, panico. I mille gradi
di un assedio, le mille stanze di questo condominio: sono una specialista,
oramai, a declinare queste sottigliezze calcinate, questi fremiti sassosi, queste
pignatte imbrattate in lavelli abbandonati, questi mobili stritolati. La mia è
un’esegesi dell’infimo: il mestiere che ho scelto è tenere aggiornato un archivio
di finali, di rovine, di disfatte e tracolli.
Il reporter di guerra, che segua intrepidamente l’azione militare o si inventi
imponenti panzane da trincea seduto a sorseggiare una birra nella hall di un
albergo predisposto ad accogliere la stampa a centinaia di chilometri dal fronte,
dalla sua ha un vantaggio: dita sciolte e un minimo di cognizione geopolitica, se
compare una notizia che regge, la dà in pasto all’opinione pubblica: sa
perfettamente che il primo lancio di agenzia è quello che conta. Il suo pezzo ti
arriva in tempo reale: merce pronta al consumo che presenta e illustra i feriti e
i salvati, gli innocenti e gli infami. A grandissime linee.
Il percorso dello scrittore è diverso: nello stato di assedio, nel conflitto
insoluto, nell’intramontabile pogrom, nella guerra civile che ha più nomi di
quanti si possano enumerare o distinguere, lo scrittore si adagia; le sue frasi
affiorano lentamente, come cisti, come ascessi maligni; il tempo per ripensarle,
nelle stanze scelte a caso, di notte, è un tempo rischioso e nigrescente; parola
per parola per parola per parola: una monotona emorragia semantica mi
consuma. Si sospendono di colpo, in certe ore, in certe stanze più ripugnanti
delle altre; poi il flusso riprende: parola per parola per parola, la piaga verbale
infettata spurga e mi spossa.
Privata dell’azione, non ho immagini a cui far riferimento che non siano i
mattoni scheggiati e le carogne dei cani. Non descrivo, scrivendo: non so
quando verrò letta, non so se mai verrò letta, e il tempo che mi avanza per trovare una risposta – cosa faccio io qui? – mi curva le ossa in forme inusuali,
anarcoidi e rigide.
Non mi importa di quello che pensi, Direttore: non mi credi, e non mi darai
credito. Le parole si stendono sulla carta contro ogni evidenza, e procedo: non
è il genio né il talento a condurmi. É l’accanimento fermo che è proprio di un
muro.
In questo sovrumano budello, migliaia di cunicoli in cui larve e dannati
entrano in collisione sottoterra, questi tunnel e questi corridoi diroccati da cui
sporgono a casaccio mani sporche e fiammelle fioche, io ci abito e scrivo.
Procedo per tentativi, tutti incoerenti; mi aggrappo a ogni illusione ottica, a
ogni nientitudine: polvere, scaglie, lembi, fessure e spaccature.
Muri su muri su muri su muri: ci appoggio le mani. La loro fragilità umiliante
mi inquieta; la loro robustezza rugosa mi riempie e mi rincuora.
Mi è rimasta una lingua dura come la pietra; faccio appello alla mia ultima
risorsa: la resistenza, la sclerosi. Il migliore dei muri possibili: ecco cosa sono
venuta a cercare, qui.
Questa stanza non aveva una porta; un tappeto sfinito dal fuoco copre a
stento il parquet smantellato, sotto le cui liste si organizzano strani cavi ferrosi;
il divano, trascinato nel mezzo del locale per svitare le lampadine e rubarle, è
intatto. Una bambola, capelli di nylon dorati e una veste ottocentesca, sta
seduta composta; un bulbo oculare di vetroresina ciondola fuori dall’orbita:
dentro è cava; un guscio umanoide. La finestra è rivestita da strati di carta da
pacco; una lametta ci ha inciso: SI SAREBBERO SALVATI SOLI.