di Giuseppe Genna

frecciabr.gifSPECIALE: SULL’11 SETTEMBRE
L’intervento di Valerio Evangelisti

9110.gifPoche sere fa, con calma posata intrisa di politically correct, Enrico Mentana rivendicava per la sua trasmissione, andata in onda per tutta l’estate, il fatto di non avere speculato sulla tragedia di Garlasco, trasformatasi in ben peggio che un circo mediatico: poiché il circo è divertente o tristissimo, i suoi artisti sono professionisti nomadi. Garlasco è invece una tragedia e lo è per una carica spettacolare che, ormai, di spettacolare, non ha più nulla. Il giornalista Mediaset dava poi corso alla puntata: mezz’ora a disposizione per un rappresentante delle teorie alternative alla verità ufficiale spacciata sui fatti dell’11 settembre, e pari tempo a un debunker dei debunker, a conferma di quella verità ufficiale. Tutto ciò, non prima di avere trasmesso un frammento del nuovo video di Osama Bin Laden, che, con consueta puntualità a vantaggio dell’allarme americano, celebra quella che dovrebbe essere la sua impresa, con barba rinnovata, attaccatura nasale fisiognomicamente distante dall’originale e posture corporali inedite. Potrebbe dirsi, tutto ciò, una carnacialata, e invece non lo si può dire, a fronte di 2.500 morti americani nell’attacco dell’11 settembre e a quelli, americani ma soprattutto iraqeni e afghani, che ne sono seguiti. Meglio: che sembrano esserne seguiti.

Insomma, a fronte della celebrazione del “giorno che ha cambiato la storia”, come titola un documentario della BBC con la solita tronfia enfasi del nostro presente quando guarda a se stesso, al sottoscritto viene da considerare l’anniversario per quello che è: nulla. E’ un punto zero riguardabile da molte, differenti prospettive. Da quella fattuale, per esempio. Qui non ho il minimo rispetto per le conclusioni della Commissione governativa prima data in mano a Kissinger e, dopo le pubbliche proteste mondiali, ridotta a un manipolo di congressman confusi e privi di tempo e fondi. Si potrebbe sostenere che gli americani hanno praticato hijacking, sabotaggio e attentati spettacolari, in un disegno comunicativo che sul piano mediatico appare senza precedenti (e invece lo è, se si pensa alla pervasività propagandistica nazista, da cui quella americana ha tratto e dilatato il know-how). E, una volta sostenuta questa tesi, che cosa cambia? Non è nemmeno coerente indurre ipotesi azzardate, perché, per fare quanto gli americani hanno compiuto in Ucraina e nelle regioni della cosiddetta “corona cinese”, facendo affluire fiumi di dollari a sostegno di micromovimenti che hanno travolto regimi con rivoluzioni morbide e colorate e suppostamente “pacifiche”, non hanno certo avuto necessità di consenso da parte della pubblica opinione, così come non l’avrebbero avuta rispetto a ciò che hanno intrapreso a Kabul e Baghdad. La bufala della armi di distruzione di massa in mano a Saddam, come si è visto, bastava e avanzava. La coalizione occidentale, poi, si è spezzata: Francia e Germania, 11 settembre o meno, non avrebbero aderito per motivi ben meno nobili di quelli sbandierati da Chirac e Schroeder. Quando si è trattato di operare in Vietnam, su ordine del Presidente Kennedy, nessun 11 settembre è stato realizzato. E, dopo sei anni, l’opinione pubblica non vola sulle ali dell’entusiasmo da vendetta che il lutto provocato dalla violabilità spettacolarizzata avrebbe dovuto garantire — e nonostante ciò le truppe USA continuano nella loro guerra indefinita, in Afghanistan e in Iraq. Il presidente se ne fotte della pubblica opinione.
L’11 settembre, questo giorno che doveva mutare il corso della storia, non lo ha mutato affatto. I protocolli della cosiddetta guerra asimmetrica giravano per sedi Cia all’estero, a partire da quella di Pechino, da almeno cinque anni. L’inefficienza di un sistema che conta 56 agenzie di servizi segreti, foss’anche vera l’ipotesi di un complotto interno, è messa in luce e sbandierata ai quattro venti, con gravissimo danno per lo Stato federale. Non è avvenuta distrazione rispetto alle tre bolle speculative che rischiavano e rischiano di ammorbare l’inesistente ripresa statunitense, per nulla garantita dalle guerre in corso. Se l’11 settembre doveva giustificare un attacco in Medioriente e in Asia, ha comunque permesso che gli USA non mantessero il controllo in quello che consideravano il cortile di casa propria, cioè il Sudamerica. Si sono mossi per il petrolio? E quanto perdono dopo le nazionalizzazioni di Chávez? L’11 settembre avrebbe garantito un compattamento della nazione intorno al Presidente? E allora perché Bush&Rove hanno dovuto compiere l’impresa di trascinare al voto milioni di elettori disabituati alla cabina elettorale, per battere i democratici e garantire al rampollo della dinastia texana il secondo mandato? Di fronte all’11 settembre lo Stato deve farsi sentire, e si fa sentire per sei anni, fino all’incredibile sconfessione del suo credo liberista, quando la Federal Reserve inizia a pompare dollari in un mercato dove esplode la bolla edilizia e dei mutui: un’operazione sovietica.
La geopolitica, insomma, cammina sulle proprie gambe — anzi: corre. Corre su binari che da ormai un decennio sappiamo a dove portano: a una probabile seconda Guerra Fredda, con la Cina in asse insieme all’India, un conflitto a bassa intensità di cui ravvediamo gli usuali corollari, arricchiti dal progresso tecnologico avvenuto dall’89 a oggi: sfida spaziale, ritorno al sistema di human intelligence, furti di segreti industriali militari, attacchi incrociati da parte di hacker “governativi” ai sistemi informatici statali, dipartimentali, ministeriali. Tutto ciò, in un contesto di mutamento climatico in cui il petrolio, che ha già superato ampiamente il “peak point”, è destinato a una irreversibile caduta. E mentre, per la prima volta nella storia moderna, inizia a strutturarsi un’asse geopolitica orizzontale, quella tra Sudamerica e Africa, territorio quest’ultimo recentemente campo di invasione di capitali cinesi, ma pronto a esprimere un potenziale che rompe con le dottrine geopolitiche acclarate da quando, imprudentemente, il papà dell’attuale Presidente americano enunciò che il mondo si approntava a un assetto sintetizzato con la formula più cara ai teorici della cospirazione: il Nuovo Ordine Mondiale. E dopo 16 anni, è tutto sabbia al vento, nel deserto intorno a Bassora. Lo sarebbe stato comunque. C’era dunque bisogno di un 11 settembre per agire come si sarebbe agito, da parte degli USA?
Un’altra prospettiva, che allo scrivente strema fino all’esaurimento, è l’analisi mediatica di quanto accaduto nel giorno degli attentati su suolo americano. Di fronte a chi sostiene la tesi della vaporizzazione dell’esperienza, del pubblico globale, della spettacolarizzazione estrema (richiamando in campo, illegittimamente, analisi debordiane, contro Debord stesso), verrebbe da rispondere che andrebbero studiati gli ultimi cinquant’anni di controllo mentale, di inoculazione di quote alienative, di boom psicofarmacologico, di tecniche comportamentiste esondate nella realtà di tutti i giorni in occidente (e per occidente si intenda il contagio occidentale: qui l’Inghilterra vale la Corea del Sud…). Quel processo, che movimenti e rivoluzioni hanno tentato di invertire, riuscendo in parte e in parte accelerando i processi degenerativi in atto, non aveva bisogno di alcun picco di audience, poiché l’immaginario occidentale, al 10 settembre 2001, era già bell’e che fottuto — non si necessitava di iniezione ulteriore di immagini che avrebbero mosso emozioni finzionali.
C’è il fatto, poi, che, se un paradigma sociale raggiunge dimensioni gigantesche, è probabile che si stia per assistere a un cambio di paradigma. La paranoia come collante emotivo comunitario ha avuto proprio con l’11 settembre il suo canto del cigno. Come si dice che in Italia chiunque è allenatore della nazionale, così possiamo dire che in occidente chiunque è un membro della Commissione sul 9/11. E’ la fine, non l’inizio intensivo di quanto serve allo status quo che garantisce la possibilità di attaccare giustificatamente nazioni considerate nemiche — esercizio peraltro che rientra nell’alveo della storia umana da sempre. Non si vuole qui negare che ciò che è accaduto quell’infausto giorno a New York e Washington non abbia sortito effetti o realizzato alcuni dei desiderata della compagine di think tank neoconservatori. E’ chiaro che la riduzione dell’ONU a spettatore delle azioni americane stava a cuore a questa Amministrazione — ma accadeva già in precedenza, con le centinaia di risoluzioni non rispettate. E’ chiaro che il compattamento emotivo a breve durata della compagine nazionale era utile all’introduzione dell’equivalente americano delle Leggi Cossiga — in una nazione dove il sistema giuridico sembra predisposto ad accogliere una simile legislazione. E’ altrettanto chiaro, tuttavia, che a prescindere dall’11 settembre tali processi storici avrebbero preso realtà.
E’ quindi difficile pensare all’impatto, all’importanza, al supposto discrimine decisivo imposto dal crollo delle Torri e dall’esplosione al Pentagono. Che valore in sé ha, quel giorno? Che valore storico attribuirgli? Quanto alienante risulta legare atti di guerra e mosse sullo scacchiere geopolitico a un evento che più passa il tempo e più assume valore di fatto tra i fatti? Si tratta di una tragedia nazionale: punto. Gli americani non sono abituati a simili eventi: il ciclone Kathrina lo ha dimostrato (oltre ad avere dimostrato che se una piccola città va sott’acqua, il sistema interno di soccorso si inceppa e in tre giorni vengono intaccate le scorte di petrolio). Abbiamo davanti un gigante, che rimane un gigante (tecnologico, quindi militare, ma un po’ meno di prima; economico no, poiché è il Paese più indebitato del mondo e nessuno si sogna di riscuotere per via della supremazia militare che esprime; ma ora che la esprime un po’ meno?).
9/11 è una frazione: della storia, certo. Però resta una frazione. Il suo risultato è poco più dello zero: è una nullità, rispetto a processi effettivi più ampi, che si giocano a prescindere da quella frazione. Credere che l’11 settembre abbia permesso di scatenarli fa funzionare, per una volta ancora, uno specchietto per allodole in un tempo in cui le allodole si stanno estinguendo. Distrae, più che motivare. La risposta da concedere alla superfetazione della memoria è l’indifferenza: la virtù più eroica, poiché sembra la meno eroica. Occupiamoci dei processi, non dei fatti apparentemente topici. Piazzale Loreto può essere un ambiguo fatto topico che entra nell’immaginario collettivo, ma ciò su cui dobbiamo concentrare i nostri sforzi di osservatori partecipi e militanti sono Fascismo e Resistenza. Altrimenti lo zero prende tutto — e questo sì può essere un ladrocinio di democrazia, un ulteriore esercizio di condizionamento mentale, una riprova di potenza alienativa del racconto che il presente occidentale compie su se stesso e la propria vergognosa vicenda.