di Luca Barbieri

ToniNegri.jpg[Ormai sappiamo tutti (con l’eccezione di Claudio Magris, che chissà dov’era negli ultimi trent’anni) che Toni Negri non era il capo delle Brigate Rosse, né il telefonista dei rapitori di Moro, né l’assassino di Carlo Saronio. Eppure un giudice, su basi così palesemente assurde, imbastì nel 1979 il processo simbolo del periodo dell’ “emergenza”, rimasto noto come “il caso 7 aprile”. Vi furono coinvolti prima una ventina di imputati, quasi tutti docenti e ricercatori della facoltà di Scienze Politiche di Padova, poi divenuti oltre un centinaio. Molti furono incarcerati, altri costretti all’esilio, uno (“Pedro”) perse la vita, ucciso dalle forze dell’ordine mentre era armato di un semplice ombrello. Inutile dire che gli assassini di Pedro rimasero impuniti, e che il magistrato che gestì il processo ha tranquillamente fatto carriera. L’impianto dell’inchiesta crollò solo grazie alle confessioni di Patrizio Peci, che dimostrarono come Negri, Scalzone e gli altri del 7 aprile, con le Brigate Rosse, non avessero nulla a che spartire.

Simile mostruosità giudiziaria, che vide applicate tutte le prassi inquisitorie denunciate da Italo Mereu in Storia dell’intolleranza in Europa (Bompiani), a partire dall’uso di pentiti lesti ad addossare ad altri le proprie colpe (nello specifico Carlo Fioroni, rapitore e assassino di Saronio), non sarebbe stato possibile senza il concorso della stampa, pronta a fare di Toni Negri, attraverso le sue “grandi firme” e con l’ausilio di qualche foto in cui l’intellettuale faceva smorfie, il mostro per eccellenza, il nemico di una nazione intera. Era già accaduto con Pietro Valpreda, accadrà di nuovo con Cesare Battisti.
Carmilla ha già pubblicato, tre anni fa, una nuova prefazione alla tesi di laurea di Luca Barbieri (oggi stimato giornalista) I giornali a processo: il caso 7 aprile. L’unica analisi completa, equilibrata ma agghiacciante, di come i quotidiani raccontarono ai lettori un errore giudiziario clamoroso, e influenzarono i suoi sviluppi. Ora proponiamo a puntate ampi stralci di quel testo, a partire dall’introduzione originaria. Nella speranza che qualcuno lo legga e riferisca finalmente a Claudio Magris che il telefonista delle BR non era Toni Negri, bensì Mario Moretti.] (V.E.)

INTRODUZIONE

a Guido Bianchini

(c) 2002 – Si consente la riproduzione parziale o totale dell’opera e la sua diffusione per via telematica, purché non a scopi commerciali e a condizione che questa dicitura sia riprodotta.

Questo lavoro nasce da un vuoto e dall’esigenza, tutta personale, di colmarlo. Nasce dalla percezione di una rimozione, di un tabù, di un’assenza che emerge ai confini del discorso politico e pubblico di Padova, la mia città, ma anche del resto di Italia. Un riferimento allusivo, che non si trasformava mai in spiegazione, a un fatto accaduto alla fine degli anni Settanta (sì, ma quando esattamente?) e che dava alla mia Università, quella che avrei frequentato, e quella che poi ho effettivamente iniziato a frequentare, un carattere “maledetto”. Mi sono sorpreso poi, una volta svelato il “mistero”, a ricollegare a questo “buco nero” tutti i riferimenti sentiti, e subiti, alla facoltà di Scienze politiche, gli ammonimenti a non frequentarla (non era una “facoltà seria”, dicevano). E poi altri discorsi confusi eppure unanimi: il voto politico, la violenza estremista della città che lì avrebbe trovato il suo epicentro. Infine un nome, uno solo, Toni Negri, capace di evocare allo stesso tempo scandalo, sdegno e quasi paura. Sì, ma perché? La sensazione era che molti ne parlassero senza sapere, che questo “non detto” della storia padovana fosse diventato semplicemente un luogo comune, che a me però pareva pesare come un macigno, indiscusso e indiscutibile.
Lo strappo decisivo, dalla percezione di un’assenza all’azione per colmarla, è stata la scoperta, quasi casuale, del volto degli altri attori della vicenda. Più importanti, nella loro “consistenza” ed “esistenza” di tutte le chiacchiere di questo mondo. Nomi e volti che conoscevo e che facevano parte del mio paesaggio urbano. Storie personali, percorsi culturali, emozioni (sofferenze e gioie) che hanno coinvolto centinaia di padovani. Un numero che chiedeva di essere raccontato e che invece era ancora imprigionato da un velo di silenzio. Perché?
Per questo, quello che ho scritto è in parte un lavoro sulla mia città, sui suoi silenziosi abitanti e su una storia che percepivo ma non riuscivo a leggere. E non ci riuscivo semplicemente perché non è mai stata scritta. Non esiste una “storia” del 7 aprile. Ne esistono giudizi, commenti, analisi, ricostruzioni parziali. E in maggior parte tutti lavori scritti e pubblicati nei primi anni Ottanta. Ma i processi poi, com’erano andati a finire? Alla fine di tutto, il professor Negri di cosa era stato riconosciuto colpevole? Mi sembrava una necessità così banale, ma importante, che mi meravigliavo che nessuno avesse provato a ricostruire in un libro la storia del processo 7 aprile. Dalle accuse iniziali alla sentenza. Mi sembrava, e mi sembra tuttora, il primo passo da compiere, per uno che non si intenda di diritto, per poter poi parlare di tutto il resto.

Da qui la necessità di ricorrere ai racconti personali e ai quotidiani per seguire l’evolversi della vicenda. Anche perché il ruolo della stampa nella vicenda era stato, si diceva, di gran rilievo. L’idea iniziale alla base di questo lavoro era quella di poter riuscire a confrontare due percorsi: quello della storia, e quello della storia raccontata dai quotidiani. Era un intento “ingenuo” perché i due percorsi in realtà si incrociano fino a dar forma ad un intreccio difficile da districare. Ne è uscito comunque un quadro, spero abbastanza chiaro, di quello che è stato il caso 7 aprile sulla stampa quotidiana, e cosa esso ha rappresentato per il Paese.

In questo lavoro ho tentato innanzitutto di ricostruire il contesto storico della vicenda sotto diversi aspetti: uno più generale, che ha dato vita al capitolo primo, e uno più particolare che riguarda la storia dell’operaismo, dei gruppi extraparlamentari e del terrorismo, con considerazioni ed elementi che sono stati sfruttati in diversi capitoli. Ho tentato poi, e questo forse è stato uno dei compiti più gravosi, di mettere ordine alla storia del 7 aprile (il capitolo secondo) prendendo ed incrociando informazioni da diverse fonti: i libri esistenti e le ricostruzioni giornalistiche. Informazioni abbastanza disomogenee e spesso incoerenti che hanno creato più di un grattacapo.
Ho proceduto poi all’analisi degli articoli recuperati nel corso di un anno, tra la fine del 2000 e il 2001, che ho utilizzato in due modi: tentare una ricostruzione della storia del 7 aprile come raccontata dai quotidiani (il capitolo terzo), ovvero la delineazione di una narrazione, e poi “estraendo” dagli stessi articoli il materiale che è servito ad individuare i ruoli e i personaggi che, nel racconto della carta stampata, “abitano” il 7 aprile (il capitolo quarto). Infine ho tentato di individuare nel capitolo quinto alcuni elementi strutturali, attinenti alla professione giornalistica, che hanno contribuito a creare “distorsioni” nel racconto della vicenda in esame; nel capitolo sesto, ho avanzato, anche grazie ai contributi di altri autori, qualche ipotesi sul ruolo della stampa nell’intera vicenda.

Infine, tra il novembre e il dicembre del 2001, ho ritenuto opportuno intervistare alcuni dei protagonisti di questa vicenda. Questo per due motivi: saperne di più, direttamente dai protagonisti, del rapporto stampa-magistratura, e avere in secondo luogo una “lettura” da parte di chi la vicenda 7 aprile l’ha vissuta abbastanza da vicino. Ho così contattato tre giornalisti (Corriere della Sera, Gazzettino, lUnità) e due magistrati (Giovanni Palombarini e Pietro Calogero). Purtroppo il Procuratore capo della Repubblica di Padova Pietro Calogero, pubblico ministero al processo 7 aprile, non ha accettato la mia richiesta. I testi completi delle quattro interviste effettuate costituiscono l’appendice.

Nota metodologica

Gli articoli alla base di questa analisi sono stati recuperati in gran parte nell’archivio del Corriere della Sera a Milano nella storica sede di via Solferino, e in parte attraverso la consultazione dei microfilm disponibili nella biblioteca di Scienze politiche dell’Università di Padova.

Degli articoli presenti nell’archivio del Corriere (diverse migliaia e di diverse testate), tutti archiviati sotto la voce Autonomia, ne sono stati selezionati e analizzati solamente alcuni in corrispondenza dei passaggi più significativi dell’inchiesta e del processo. Dai microfilm si sono invece recuperati principalmente i quotidiani del 1979 (Repubblica, Unità, Manifesto e lo stesso Corriere): in modo sistematico per quanto riguarda i mesi di aprile e maggio e poi in corrispondenza delle altre date significative dell’inchiesta.

Fin dal principio avevo scelto di soffermarmi più sugli articoli di cronaca che su quelli che solitamente fanno “opinione” (editoriali ed interventi). Questo per due ragioni: la prima è che questi sono già stati esaminati con più attenzione da altri autori, e la seconda è che essi rientrano difficilmente in una analisi del lavoro giornalistico. Seguono cioè un’altra logica, e sono meno utili per una ricostruzione di come la categoria dei giornalisti ha vissuto la vicenda.

Alla fine l’analisi sul testo intero dell’articolo è stata condotta su un corpus di 544 articoli. Di questi 256, circa la metà, riguardano l’annata 1979; 68 sono del 1980, 34 del 1981, 28 del 1982, 32 del 1983, 50 del 1984, e 46 degli anni dal 1985 al 1989. Una trentina di articoli riguardano gli anni Novanta. Per quanto riguarda le testate: 181 sono articoli dell’Unità, 127 del Corriere della Sera, 94 di Repubblica, 74 del Manifesto, i restanti di altre testate (Gazzettino, La Stampa, Il Giorno, Paese Sera, Corriere d’Informazione, Il Giornale, Gazzetta del Popolo, Lotta Continua, Avanti). Questi sono gli articoli di cui è stato utilizzato tutto il testo. Alcune considerazioni, in particolare sulla titolazione, sono state però condotte su testi consultati esclusivamente a video, attraverso i microfilm, ma non riprodotti. L’analisi di Unità e Repubblica è anche stata arricchita dal contributo di Pasquino Crupi, che ha condotto un esame abbastanza sistematico di queste due testate per l’anno 1979 nel suo libro Processo a mezzo stampa.

Cosa manca?

Avevo supposto all’inizio di riuscire ad offrire una disamina accurata anche di quanto raccontato sulla vicenda dai giornali locali (Gazzettino e Mattino di Padova). Non vi sono invece riuscito in modo sistematico per diverse difficoltà, non ultime una sterminata mole di materiale in più, e la sensazione che avrebbero in qualche modo modificato la prospettiva di un lavoro che si stava indirizzando maggiormente sulla stampa nazionale. In effetti l’atteggiamento della stampa locale, significativo e influenzato anche da dinamiche profondamente differenti rispetto alla stampa nazionale, meriterebbe un lavoro a parte.

(1-CONTINUA)