di Giuseppe Genna

carlogiuliani.jpgNoi inadatti a stare dentro di te
Tu più adatto, il più adatto a vedere in noi le faglie
di abominio che ci condannano
e hanno condannato te

Ero oggi dentro il bar e su di te quanto
a distanza di spazio e tempo stavano parlando
gli otri di carne rutilante
senza sentire quanto senti tu ora ovunque come te ovunque

il corpo che si rompe, la cinghia di trasmissione,
l’erompere degli arti, la fuga dal miocardio,
tu divenuto immagine subito fattasi immagine
mentre sei carne e lo sei a oggi e io della carne parlo

del cingolato e dei gas e del torace parlo
e delle superstizioni che conducono ai poteri
all’abbrivio sotto i completi in cotone blu
e al disinteresse che commercia i suoi sempiterni

trenta denari di cioccolato
avariato e carta stagnola dorata
la si crepa con l’unghia sporca dell’indice
si entra nel tuo cuore con l’unghia sporca dell’indice

l’amico confuso telefonò: “Sembra notte”
ed era notte di glicini andati a male, di fiori sozzati
dalla lordura delle plastiche riciclate
e la miriade di sguardi guardava te

e quanto dopo avvenuto come un lampo di fosfene
le cattive parole di una lingua in rune
cattiva che formula amuleti in sillabe di carne
roteandola finché non sia informe spruzzando il sangue tutto alle pareti in schizzo

fino all’osso, fino alla preghiera, fino all’anestesia,
ruotando e ruotando per la vertigine dei nostri sensi lontani
la rete crollata permette all’amico di sillabare:
“C’è un morto, mi rifugio colla bicicletta”

“Dove? Dove vai?” “Alla scuola”
dove fino all’anestesia delle preghiere io imploro che la scheggia
del mio cranio la vostra sostituisca
ah, l’impotenza,

la svergognata propaggine di me sul tuo copo chino
reclinato tra la tua canotta intrisa e il granulato dell’asfalto,
i carriaggi, gli svincoli, le smagliature del cielo
che la pupilla nirvanica osserva distesa impotente e serena

fammi dare pane, fammi estinguere la sete,
fammi chiedere perdono, veicola la mia richiesta
ovunque sia come ovunque stato
quanto abbiamo visto di lontano socchiudendo palpebre

colpevoli esse stesse all’erompere del fosfene misterioso
che deflagra
tu deflagri, corpo di gloria disteso
io con la pietà cosa ho da rimborsare?, cosa

mi si spezza dentro?, in anni e anni
di incivile orgoglio per una morte sacra
come sacre sono tutte le morti
e sacro è il lutto che persiste quanto

è stato pronunciato nell’ode di Calamandrei
letta di sillaba in sillaba nella sezione del Pci io piccolino
ripetendola per generare inutile la poesia
la poesia non ripara la crepa

questa è incivile propagazione della crepa (tu perdona),
di un male che non abbiamo saputo assorbire
poiché lo hai assorbito tu, caricatolo sulle spalle nude tue
anchilosate e puberali

e lo sguardo, e i cingolati e la speculazione
del mare che tiene a galla i container dei quali
si vantano i corpi cerei della nostra corruzione,
e la specie che ne viene strappata

o tu lacerazione che porti il nome italiano di Marx
o tu foro di proiettile della coscienza nostra oggi ancora
e cresce e che si allarga, tu
incunabolo dove riporre i sensi e le colpe e gli oggetti

della memoria, tu memoria che mi intridi
e che non hai pace mai ché sono armi rumorose le parole
e le medesime che spingono il proiettile
lungo la traiettoria precisa tra me e te

assommo su di me il male
assommo su di noi il male

noi creiamo qui e ora e sempre il cerchio in sassi
dentro la tua carne è intatta

il tuo sorriso spento è calma
di una estraneità che ci riguarda

impartisci la lezione
somministraci la terapia
risvegliaci dal sonno ottuso
crea la veglia urbana

con cui noi camminiamo nei giorni di afa nella città collosa ricordandoti per chiederti il perdono, per chiedere di comminarlo, per asserire il tuo sorriso che si inarca lieve, ovunque sotto i nostri passi incivili, noi che siamo restati a richiamarti, finché la vita non si separi, figlio dolce assolutissimo della calva terra

del mare che hai veduto luminare di lontano in un brillìo di mondo:
io mi piego a te, su di te mi piego
entra in ogni parola
desantifica le nostre immagini

illùminati