muratorilavitaincomune.jpgdi Giuseppe Genna

frecciabr.gif LETIZIA MURATORI- LA VITA IN COMUNE – EINAUDI STILE LIBERO BIG – € 15.50

Mi conforta quanto, sull’ultimo numero di Nandropausa, Wu Ming 1 ha scritto di questo libro perturbante: “Ne scriverò ancora, di questo romanzo. Mi ha colto di sorpresa. […] Sono uscito dal romanzo lievemente febbricitante, felice di aver fatto quest’esperienza. […] Davvero non mi aspettavo un libro così, sono spiazzato. Lo lascerò decantare e, in qualche modo, ci ritornerò sopra”. Poiché è quanto accaduto a me, alla prima lettura de La vita in comune di Letizia Muratori: una prima lettura, mesi fa, che mi diede il vibratile capogiro, la convinzione di trovarmi di fronte a un’opera fuori dell’ordinario e per questo importante, nell’impossibilità di individuare quale elemento straordinario ne determinasse il carattere vertiginoso; infine la seconda lettura, che ho voluto praticare analiticamente, cercando di trarre quanto si può trarre da una miniera senza fondo di oro da scoprire, senza avere la minima idea di come si faccia il minatore. Ecco la prima conclusione: La vita in comune è leggibile da chiunque, con molteplici prospettive, però, e una unificante – non si tratta di un romanzo italiano. Questo, qui e ora, è per me un elevatissimo pregio.

Prima pensavo a un’opera di nascondimento. C’è nel libro un piano sociologico, addirittura politico, un’aggressione all’oggi portata con una levità che, in quanto tale, è più velenosa di qualunque atto esplicito. C’è una galassia di personaggi che vanno dall’infanzia alla maturità, dall’Eritrea a Roma a due cittadine tedesche, rapporti esotici come le piante tanto amate (davvero amate?) dal padre ex militare della protagonista Tina, una comunità di transfughi in leggerezza, rapporti che si fanno e si disfano con disarmante e allarmante facilità, l’ecologismo radicale (a sorpresa, direi, non soltanto coagulato nella manifestazione tedesca contro il passaggio di un treno che trasporta scorte radioattive, ma anche a un incredibile richiamo al terrorismo islamico in terra d’America che si confonde con l’evocazione di Ted Kaczynski, ovvero Unabomber), la messa alla berlina del cognitariato precario (l’infinita gavetta che la mia generazione ha dovuto sorbirsi e si sorbisce tuttora), il discioglimento di un modello di famiglia borghese che non regge più al presente e ciò senza configurare un paradigma familiare allargato ugualmente borghese alla Nancy Brilli. Questo, il piano di superficie. Basterebbe per almeno due libri. Poi c’è il piano che ritenevo sotteranneo: quello misterioso, sensibile, avvertibile, eppure così difficilmente conchiudibile in una formula. Mi chiedevo se Letizia Muratori – autrice del già celebrato Tu non c’entri, di cui scrissi sui Miserabili – avesse utilizzato un doppio fondo, e cosa avesse nascosto in quel doppio fondo, poiché tutti gli elementi della trama, tutta la configurazione (peraltro perfetta) dei personaggi, qualunque stacco o spostamento di sguardo – tutto ciò non spiegava la sensazione febbricitante citata da Wu Ming 1, che aveva contagiato anche me e che, col passare delle settimane, aumentava in sospetto e desiderio. C’era un piano sottotestuale? C’era una sapienza di nascondimento così occulto da lasciarmi inebetito? Ho dovuto rileggere La vita in comune, così come dovetti tornare a vedere Eyes Wide Shut, poiché le immagini di quel film non mi abbandonavano e precisamente avvertivo un’eccedenza di senso che mi risultava inspiegabile.

Alla seconda lettura, l’impressione è stata devastante. Qui ci troviamo di fronte a un libro decisivo nel mutamento di quell’oggetto paradossale che è il romanzo. Quando asserisco che non si tratta di un romanzo italiano, va allegata l’affermazione, che facilmente sarebbe desunta dal moltiplicarsi di location pluricontinentali, di un romanzo globish: non è così. La verità è che Letizia Muratori ha imposto nel suo libro modalità innovative di narrazione, un antipsicologismo che ingloba l’atto psichico ed emotivo eppure lo lascia sospeso in una ferma icasticità miracolosa (mi viene in mente una poesia di Valerio Magrelli, in Nature e venature, in cui gli sguardi restano presenti e sospesi, lineari, come bacchette di uno Shangai, dopo che gli osservatori hanno abbandonato il luogo). Muratori, insomma, applica una retorica nuova (cioè antichissima, ma vividdio rivivificata) a praticamente qualunque genere del romanzo occidentale: picaresco, certo, borghese anche, e di formazione, e pure di suspence. Gli elementi che utilizza sono di una molteplicità inarginabile, sotto soglia, praticati attraverso un minimo strabismo – e il mondo è rinnovato. E’ lo stesso mondo che viviamo, ma non è più quel mondo. Situazione contraddittoria, fantastica e tragica insieme, che rappresenta al di là di ogni mimesi il presente che ci troviamo a vivere.
Cominciamo proprio dalla mimesi. A un occhio superficiale, La vita in comune potrebbe apparire un romanzo realista o, più latamente, mimetico. Sarebbe un errore di prospettiva considerarlo tale. Non c’è alcuna mimesi. Sembra che ci sia, ma basta una domanda intorno a ogni dialogo, a ogni “pensiero” formulato dai personaggi, a ogni stacco tra un capitolo e l’altro, ed ecco che la mimesi svanisce. La domanda è particolare, non è la domanda che normalmente segnala un’evasione dall’imitazione del reale. Non ci si deve chiedere: “Ma è realistico che i personaggi facciano così? Pensino così? Appaiano e scompaiano in questo modo?”. La risposta sarebbe: sì, potrebbe accadere. La mimesi salta, invece, chiedendosi: “Ma cosa realmente sta accadendo? Cosa dicono? Cosa stanno agendo?” – e ogni protocollo di rassicurazione mimetica deflagra, e si spalanca un underworld, le cui caratteristiche vorrei tentare di mappare.
Accade infatti che le vicende di Tina l’adottata, di Isayas che ha lasciato l’Eritrea ed è divenuto chirurgo in Germania, del figlio di lui Joseph e dell’incredibile corollario umano che si muove dentro e intorno alle loro storie, siano di fatto indistinguibili l’uno dall’altra. Questa è la chiave per aprire un mondo pericoloso, un mondo dell’inframmezzo fantastico, del possibile – e qui risiede un amoralismo di Muratori che ha una potenza a mia detta sconcertante. La conferma la si ottiene anallizzando i dialoghi: questi flussi ossessivi, che ossessivamente si intrudono e fanno la storia, dove ogni personaggio risponde all’altro non manifestando caratteristiche psicoemotive di differenziazione decisiva – questi flussi che sono tuttavia icastici, che sono stoppati nell’aria come dizioni rivelatrici orfiche, sono la chiave di un dialogo possibile che ricorda da vicino certe conclusioni dell’Agamben de L’uomo senza contenuto o de La comunità che viene. Sia chiaro: quest’ultima è una mia sovrapposizione personale, poiché nulla di cerebrale avviene nella scrittura di Muratori. Semmai sono da osservarsi i mezzi, naturali o meno, con cui l’autrice romana ottiene questo effetto icastico. E basta un a capo, per ottenerlo. Solo che gli a capo martellano secondo una compulsione che ha un destino stilistico, a cui accenno più sotto. Ecco un passo esemplificativo:

– E’ stato un mastino, non un cane da guardia del Pci, appunto.
Aggiunse e finalmente si presentò.
[…] – Cos’è l’Ape?
Chiesi.
– Agenzia progetti editoriali. Siamo un service, scriviamo per gli altri.
[…] – Questo, tanto per cominciare, è il tuo posto, credo. Paola, stava seduto qui cosetto, vero?
Disse, arrivati in prossimità di un computer spento.

Vanno rilevati i due elementi fondamentali. Da un lato la finta lingua bassa, di uso (“scriviamo per gli altri”, “cosetto“), che dovrebbe pertenere un flusso inarrestabile dialogico; d’altro canto, con un apparente vezzo stilistico (che tutto è tranne che un vezzo) i dialoghi sono arrestati, le battute interpuntate di a capo imprevisti, poiché il “disse”, l'”aggiunse” dovrebbe tipograficamente seguire la battuta – e invece non segue, va a capo, crea una sospensione dura, l’equivalente dell’enjambement poetico, lo spalancamento di un vuoto abissale laddove esiste la normalità del fluire dell’interazione. Dicevo che non si tratta di un vezzo stilistico: questo è proprio un emblema della voce di Muratori. L’avvicendarsi dei capitoli procede per strappi apparenti, apparentemente violenti, per spostamenti geografici e antropici. Eppure, che ci si trovi a un pc di Yucca Mountain, a Roma o a Erlangen ecco che il flusso riprende, a partire dall’imprescindibilità di quello stacco. Che, dunque, non è uno stacco: esattamente come accade in poesia. Muratori poteva organizzare per “metope” la narrazione: invece, di quello stacco, fa un continuum. Un continuum di che cosa? Un continuum di sguardo.
Tutto è guardato. Nulla è giudicato. Ci pensano i personaggi a giudicare, e sempre instabilmente, transitoriamente, la miriade di situazioni vitali in cui si trovano immersi. Ma la narrazione procede in maniera continua grazie a questa sorta di “indentramento estroflesso” dello sguardo, grazie alla denegazione di una lingua che avrebbe una tersità assoluta, se Muratori non la piegasse a un finto uso comune (si notino le sapienti assonanze e il ritmo di un incipit di scena come: “Sfilare per ore a ruspa all’aria mi aveva spezzato le ossa”, che viene subito seguito dall’abbassamento di: “Il vecchio era soddisfatto”). Questo ornato sfugge. L’intrisione nella lingua poetica, che è una delle componenti formative più decisive per la scrittura di Letizia Muratori, viene dissestata da una seconda lingua, che sussume la poeticità testuale in un’apparente sequenza di comunicazioni informative, quasi di servizio, anche laddove esse sembrino profonde comunicazioni psicoemotive. Poiché i personaggi, ci si rende conto, non sono qualificati psicologicamente, nonostante lo sembrino, e così non sono connotati linguisticamente. Tina si esprime come la madre adottiva Flavia che si esprime come la nuova matrigna Marisa che si esprime come Isayas (con un minimo di paratassi e gnomicità in più – un lieve spostamento, del tutto non essenziale) e così via. Questa storia intessuta di vissuti, di ulteriori sottostorie, così dense di peso esperienziale e di spesa umana, come può non caratterizzarsi psicologicamente? Può, e solo in questo modo la vita è in comune: solo essendo la vita intera. Attraverso la depsicologizzazione, che però sembra una psicologizzazione effettiva, Muratori raggiunge l’impressionante, l’altissimo letterario: il memorabile, in poche parole. Per esempio: ecco una scena in cui agisce in Eritrea il piccolo Isayas, che aiuta la zia a praticare l’infibulazione, e che deve occuparsi di un’operazione che bene non è andata, anche a causa dell’endemica carenza d’acqua:

L’aria intorno a Yodit bruciava, tanto era alta la sua febbre, le medicine per abbassarla non avevano fatto effetto. Respirava in modo strano, non avevo mai sentito quel respiro, dentro un uomo. La gomma del carro con cui Zeudi trascinava i sacchi di tef faceva così quando si bucava, un fischio.
– Stai meglio? Non rispondere, stringimi il polso per dire sì.
Le dissi, e lei non strinse nulla. Continuava a respirare, a poco a poco sparì il fischio per lasciare spazio a soffi rapidi come se Yodit volese far uscire tutta l’aria che aveva in corpo e non prenderne altra in cambio.
– Che hai? Stringi il polso se vuoi che chiamo Zeudi.
I soffi rallentarono il ritmo, ogni tanto ne veniva fuori uno più forte e lungo di un altro.
– Piano, respira bene, così ti stanchi.
Le uscì dalla bocca una palla nera e densa come un pezzo di zighinì. Mentre la pulivo mi afferrò il polso, inarcò la schiena guardando in alto e ricadde giù, immobile. Guardai anche io in alto per capire cosa avesse visto. A parte le crepe non c’era nulla sul soffitto.
– Yodit? Che fai? Lassù non c’è niente.
Ferma, muta, senza respiro, la febbre su di lei non poteva più niente. Il sudore tra le pieghe delle garze divenne divenne subito freddo.
– Lo vedi che ora dorme! Io bevo.
Mi disse sottovoce Kidane, afferrò il catino e scappò saltellando contento. Era entrato di nascosto e la morte non lo aveva visto.

Già solo questa scena meriterebbe pagine di analisi, per il tessuto linguistico, per come lo sguardo viene guidato, per gli asindeti che non riescono a incrinare l’immobilità naturale del tutto, per la perfidia amorale della natura stessa (il piccolo Kidane che entra di nascosto ed è felice di rubare l’acqua, mentre di solito è la morte che entra di nascosto), per la demolizione della soggettività che il momento alto della prima morte di cui si fa esperienza richiederebbe. Ora, potrebbe fermarsi a questo risultato alto, Muratori. E invece no: poiché è tutto un continuum, non ci sorprenderemo di osservare Isayas adulto davanti a un piccolo paziente operato, che sta male e rischia, mentre la reazione del chirurgo è naturale al punto da apparire fredda, e poi viene, in un secondo momento, psicologizzata.
Questa idea di natura basale è in effetti l’oggettività dello sguardo che fa da flusso: solo che non ha una sede precisa – è la scrittrice stessa. Si tratta di una natura non naturante né naturata: una natura osservante, precisamente. Sta al di là del maschile e del femminile. I suoi effetti sono esplosivi. Il denaro, per esempio, che è un elemento fondamentale, data la base di partenza di Isayas, diviene così un elemento secondario, ma funzionalmente tale: è la povertà, la nudità assoluta dell’umano e dei rapporti tra umano e umano su cui si appunta la panoplia di questa osservazione naturale, e il denaro va sullo sfondo, in quanto dato simbolico, culturale, sovrastrutturale. Non si fosse intitolato La vita in comune, questo romanzo, così sperimentale e così fuori da ogni sperimentalismo, doveva intitolarsi La vita naturale. Oppure La vita intera. Tutto avviene dove avviene la vita (la domanda è: cosa abbiamo noi tutti in comune?) e lo scambio simbolico, così come lo scambio concreto, il culturale così come l’emotivo – tutto, insomma, emerge in questa luce parificante che non ha sviluppo ma vede svilupparsi le vicende. La trama non si disfa affatto, ma l’autrice si permette a tre quarti di libro di informarci che la protagonista ha avuto una gravissima malattia alla tiroide, eppure noi ne abbiamo seguito la formazione e non l’abbiamo saputo. Chi le è stato vicino, in quei tragici momenti, è il fidanzato odioso, che lei ha nel frattempo mollato, essendo il rapporto scaduto in un groviglio di astio e disinteresse e invidie: un rovesciamento à la Bresson de L’argent. E’ tutto repentino e en soupplesse, eppure, grazie alla tecnica icastica di Muratori, è tutto memorabile. Il passo finale enuncia dichiaratamente gli impossibili contorni di questa luminosità paradossale in cui tutte le storie hanno avuto il loro sviluppo, al di là dei dualismi bene/male e, soprattutto, speranza/nichilismo:

Anche allora, tra centinaia e forse perfino migliaia di anni, c’era la luce ferma delle quattro di un pomeriggio d’estate. Faceva il suo solito lavoro, precipitava a cascata fra i tronchi, atterriva, zittiva gli animali e riempiva di speranza gli uomini. C’erano anche loro, quelli della mia specie. Calpestavano tranquilli il pericolo, perché niente poteva più avvertirli.

che è uno dei finali più belli dell’intera letteratura contemporanea italiana. In precedenza e qui – devo l’istruzione all’autrice – è giocata proprio La vita intera, cioè l’unico riferimento letterario voluto con coriacea intercettazione: è il titolo di una poesia di Celan, e chiude il cerchio di questo libro paradossale, così pregno di futuro. In particolare mi sembra questo il verso decisivo: “I soli della morte sono bianchi come i capelli del nostro fanciullo” – ma va detto che la poesia di Celan è un ennoio della colorazione, sempre più indefinita, dei vari soli: azzurri, sempre più azzurri, poi pallidi; e si finisce con i versi che hanno per soggetto “il nostro fanciullo”:

I soli della morte sono bianchi come i capelli del nostro fanciullo:
egli si alzò dai flutti quando tu sulla duna drizzasti una tenda.
Con occhi spenti tenne su di noi levata la lama della felicità

il che ribadisce la paradossalità e la totalità contraddittoria dell’umano nel suo stato basilare, nudo, povero, specifico.
Ecco, infine, la verità che ho tratto da questo che è sì un romanzo, ma che non riesco a non qualificare come più-che-romanzo, cioè come libro: oggetto esso stesso paradossale, che contiene la molteplicità e il divenire attraverso un’unità ineffabilmente luminosa. Un diorama tragico (c’è anche la retorica della tragedia: andrebbe escavata criticamente l’esasperazione del flusso dialogico rispetto al flusso dei coreuti, quando non si fermano nella ripetizione inesausta dello stato presente delle cose e dell’evocazione che, dal presente, promana in forma di aspettativa del futuro) e un caleidoscopio di comicità assoluta, che va dal riso pieno alla meccanicità desiderante del riso kafkiano (in La vita in comune qualunque personaggio è kafkiano: esso manifesta una eccedenza rispetto alla propria rappresentazione, oppure una discesa sotto la soglia della significazione – entrambe strategie kafkiane. Ma si tratta di punti che andrebbero approfonditi in sede adeguata). Un libro che apre al futuro della scrittura, che spalanca divaricazioni tra polarità valoriali e quasi genetiche (l’annullamento, al pari dell’esaltazione, del gioco tra polarità maschile e femminile, per esempio) – e ci consegna l’elemento unificante di una radiazione luminosa, né fredda né calda, calma ma di una calma che non coincide perfettamente con il lavorìo della macchina umana, proprio come accade (ed è un paragone sorprendente, anche sul piano stilistico) con l’ultimo Houellebecq, a cui questo libro è prossimo, nonostante la sostituzione del cinismo con la comicità, della stasi con il movimento apparentemente convulso. Siamo, comunque, per me, a quel livello. Letizia Muratori sta scalando velocemente un passo di alta montagna letteraria: è il panorama che va ad aprirsi al suo sguardo che interesserà tutti noi, poiché sarà, come La vita in comune, qualcosa di nuovo, profondo, talmente sorprendente da rendere febbricitanti a una prima lettura.