bremarmo.jpgdi Giuseppe Genna

frecciabr.gif SILVIA BRE – MARMO – EINAUDI – € 10

E’, questa, una recensione per me particolarmente importante e atipica, poiché mi costringe a entrare personalmente, con dati esistenziali ed emotivi, il che oggidì sembra essere rifiutato dalla critica ufficiale. Poiché però si tratta di discutere un libro di poesia, ci sarebbe da chiedersi quale critica ufficiale si occupa oggi seriamente di poesia.
Semplicemente potrei dire che Marmo di Silvia Bre è uno dei libri in versi più importanti degli ultimi vent’anni della nostra letteratura poetica. Tuttavia non è così semplice dirlo, e non perché io debba argomentare il sintetico giudizio con chissà quali supporti teorici o metrici, ma perché vengono in questo libro impegnate tutte le potenze che lirica ed epica, al giorno d’oggi, sono possibili, e vengono esse rivitalizzate in connessione con la potenza veritativa che la letteratura ha sempre esercitato, in ogni tempo e in ogni dove.

bre3.jpgConosco dal ’91 la scrittura di Silvia Bre, mentre di persona l’ho incontrata, in diciassette anni, credo, non più di due volte. E’ da più di un quindicennio, dunque, che sono incantato dal movimento di lingua e di pensiero, dai ripiegamenti che sembrano tautologie e sono spirali abissali, linde e cristalline, che si spalancano nei suoi libri. Marmo lascerebbe intendere un avanzamento di questa sua cifra, pulitissima e quasi oracolare e, se oracolare, oracolare con discrezione. Le barricate misteriose, quanto a un simile processo di musica perfetta, di versificazione alla Bach, di matematica sillabale che stende pace nella mente e nel cuore, di tecnica e pratica dell’umano – Le barricate misteriose, dicevo, edito da Einaudi sei anni fa, mi è sembrato il libro apicale di una poetessa che si collocava in prima fila tra gli eredi del futuro dopo-Zanzotto. Questa capacità di un algore caldo, di una vetrificazione mobile e dinamica e dolce è per il sottoscritto uno dei segni più inconfondibili del classico in epoca contemporanea. E quanto sbagliavo…
Quanto ho sbagliato nel classificare Marmo a partire dal suo titolo: pensando alla conferma dello scavo nel classico, attraverso l’esibizione del materiale più proprio al classico, il marmo bianco (la poesia di Bre è da sempre per me una’irradiazione di bianco), il materiale della perfezione scultorea, fino alle epifanie neoclassiche. Pensavo a Canova, non pensavo a Bernini. Pensavo a una rinnovata levigazione della lingua, a una nuova scomposizione del dolore (una costante della poesia di Silvia Bre) e ricongiunzione grazie a una fiducia smodata ma trattenuta della lingua poetica. Ed era uno sbaglio. Dopotutto, anche Eschilo è marmoreo.
L’errore di lettura è durato l’attimo in cui, constatato il titolo, ho creduto di trovare conferma a quanto ho sempre considerato il pregio stellare e il limite intrinseco della poesia di Bre: come se questa poetessa non avrebbe mai compiuto evasione da una voce, da uno stile che per lei veniva costituendosi come norma. Ma quale norma? Quanto si può sbagliare, pur rimanendo incantati da una scrittura, a valutarla e a sentirla per anni e anni? Mi sono reso conto della scivolata aprendo a caso, come spesso faccio con i libri di poesia: una perforazione casuale e artesiana, prima di una lettura pagina per pagina, a ricercare la prosodia sotto la lingua di superficie, a constatare la struttura, le sue divaricazioni, il suo ritmo largo e interno. E’ stato uno choc. Di colpo mi si appalesa una reincarnazione femminile di Wallace Stevens, rivitalizzata la scrittura “platonica” (nel senso iniziatico e non filosofico secondo accezione contemporanea) del grande americano in una lingua che supera se stessa, in un poetare italiano che trascende la perfezione oraziana delle origini. Dal nitore, sono precipitato in un abisso.
Qui devo dire che a Marmo di Bre andrebbe dedicato un saggio, non una recensione – e sbaglierei ancora. Perché questa poesia, come accade con la grande poesia, annulla la critica. Non nel senso che non se ne possa ragionare, ma per il semplice fatto che qualunque ragionamento, qualunque applicazione di moduli interpretativi o teorici, qualunque rilevazione stilistica o fenomenologica sono del tutto inadeguati rispetto ai testi puri e semplici. Così, il saggio su Marmo dovrebbe essere la lettura, la pura esposizione dei semplici testi di questo libro, del quale evidenzierò, con pudore e gratitudine, qualche carattere, in via sommaria, invitando tutti i lettori a comprarsi e leggersi il libro, perché è davvero raro assistere a un simile salto nel buio, a una riuscita che giunga tanto in profondità, a un fendente di katana che, mentre apre la ferita, la sutura e la mantiene aperta: il lavorìo della perfezione letteraria è dopotutto questa compresenza di contraddizioni, questo movimento di cervello e muscolo cardiaco e organo epatico che si autosupera. Tale è l’assalto ai confini estremi del linguaggio che lascia intatta la comprensibilità, la leggibilità e al posto della consolazione spalanca i buchi neri della pietà, dell’amore e della misteriosa conca di risonanza in cui il linguaggio si esaurisce e da cui, per rifrazione altrettanto misteriosa, esce rinnovato, a volte polito a volte sbagliato, proprio nel momento in cui nulla è più giusto o sbagliato. Poiché a questo stadio è giunta la ricerca di Silvia Bre: superamento dei paradigmi duali (male/bene, brutto/bello, sbagliato/giusto), il che dà una valenza di percorso personale, intimo e sapienziale a tutta la sua precedente posizione.
Non sbagliavo a intercettare Wallace Stevens, se me lo ritrovo, alla seconda lettura, citato a bella posta in esergo a un testo, che peraltro vengo a sapere da una nota finale appartenere a una produzione pregressa (1973). Segnale di un’autoconsapevolezza di percorso che è regina e che io ho subìto in questi anni, avvertendo una familiarità e una confidenza, insolite per quanto mi riguarda, nei confronti di questa poetessa di cui a conti fatti non posso considerarmi storicamente intimo, e di cui, evidentemente, sono un intimo su un altro piano. Quale piano? Quello dello sguardo. Ragiono sul fatto che ormai, fatte salve pochissime eccezioni, i miei interlocutori sono scrittrici in gran numero – e tra queste, la più silente e colei che avverto più vicina al discorso che tento scrivendo in prima persona è lei, è Silvia Bre. Oserei dire che il suo sguardo è tra i tre o quattro che mi fanno sentire esistere in quanto scrittore – e ciò sia affermato al di là di ogni emotività appiccicosa. Marmo mi impressiona perché io sento di coincidere con il movimento interno e il destino di apertura silenziosa che ha in questo libro di poesia, molto più che in qualunque lavoro in prosa, una sua testimonianza di arrivo transitorio, di stasi dinamica nell’aperto, nel non nominabile (per carità: senza tirare fuori le poetiche post-rimbaldine dell’innominabile, con tutto il Novecento che ha inseguito Mallarmé: non di ciò qui si tratta…). Poiché il percorso di cui dico è quello che, dalla percezione che illusoriamente forza l'”io” a identificarsi con il mondo, parte a mettere in dubbio la realtà permanente del percepito, staziona nella mente e ne interroga lo statuto immaginale, trascende anche questo stadio e si espone alla misteriosa trasparenza di uno “sguardo semplice”, da dove l'”io” stesso è visto, e da lì, tenendo costantemente presente l’effettività del continuum di quello sguardo, torna nel mondo e ne ravvisa la fragilità, i nomadismi immaginali, si dispera se solo cerca di linguificare quello sguardo aperto, tenta di stabilire almeno un simbolo (qui è l’aquila) che svolga la funzione analogica e anagogica rispetto a quella cosa che è qui ed eccede il mondo nel qui e ora, fino ad avvertire una colpa, un dispiacere, che è duplice: si vorrebbe che chi si ama comprendesse e coincidesse con quello sguardo che è niente (ma il niente non può essere: quello sguardo è, solo non è qualcosa di determinato – è e basta, ed è in questo sguardo che emergono le forme del mondo, gli altri, gli amati – si pensi a versi come i seguenti. “amiche, miei amici, anime amate | che vagate dentro il mio pensiero | vorrei salvarvi con un gesto solo | con il suono che tiene unito l’universo – | non lo conosco ancora però è perso | dentro di me…”); d’altro canto, si vorrebbe stabilizzare se stessi in quello sguardo, e questa è opera tanto difficile, tanto penosa proprio nei confronti di se stessi…
Alcuni esempi varranno a fare comprendere quanto sapienziale sia il testo che ci consegna Bre. Vado a casaccio – come osservavo prima il caso opportuno sarebbe di mettere in fila, nude e semplici, le poesie, tutte:

Non c’è cosa ch’io dico che non dica
ch’io vivo un’altra vita che è più viva
di questa stessa mia che vivo e dico.
[…] E io lì me ne resto muta: aspetto,
continuo ad aspettare, aspetto ancora,
non mi fermano il sole né la luna,
fino a che arrivi il verde e copra tutto
fino al mio cuore aperto alla gran vista.

[…]

Mai fissare l’aquila allo specchio –
vede solo lontano, abissalmente,
ogni suo sguardo ti scaglia da te stesso
nel paesaggio al posto tuo:
i deserti dei quali si fa parte
da cui si torna solo col pensiero.

[…]

[…] e con il vuoto che vaga intorno al mondo,
centro di me che dentro non resiste,
che nascondo nei nomi che conosco
eccomi ancora qui, la testa china
come una che non riesce e si vergogna […]

[…]

Se c’è una posa
da cogliere di scatto,
una sorpresa
è quella di chi è
teso tra i fili del pensiero
nell’atto di tenerli uniti insieme […]

[…]

Il nome è troppo
bisogna farne senza –
alzarsi con il vento che s’alza
e fare perfetto il vuoto della danza.

[…]

[…] realtà spiovute dall’immaginazione.

[…]

Tutto l’essere qui
non viene detto –
resta da solo in noi
già benedetto
se solo lo si lascia respirare […]

[…]

Scocca l’istante scocca
e il tuo destino è piccolo
ti sta nelle mani
ti tocca.

[…]

[…] scommetto
di tramutare un sasso nel sasso di sempre
sotto gli occhi degli altri,
che ogni cosa sia la stessa se la guardo.
Sento che è poco,
voglio che sia meno. […]

[…] Ma c’è persa nell’aria della vita
un’altra fede, un dovere diverso
che non sopporta d’esser nominato
e tocca solamente a chi lo prova.
E’ questo. E’ rimanere
qui a sentire come adesso […]

Potrei, dicevo, andare avanti per tutta l’ampiezza del libro. Che, finalmente, si può dire essere classico nel suo scavo verso una verità che sostanzia i nomi ma li eccede, che è un io-io vuoto, aperto alla magnitudine delle possibilità che “spiovono” in forma nel mondo. In questo senso possiamo richiamare, al posto di Orazio e Petrarca, l’autentico padre del discorso che si tenta (e non riesce: non si può…) di fare in Marmo – il padre è Dante, poiché qui si disegna un’iniziazione che coincide con l’iniziazione letteraria nel Dante della Commedia e della Vita nova. Potremmo appiccicare qualunque etichetta a questa poesia superna di Silvia Bre: non-dualista, orfica, socratica, misteriosofica, plotiniana, ficiniana, bruniana, metafisica pratica, alchemica addirittura (si osservi attentamente la simbolica del primo lacerto di testo che ho citato: il riferimento alle polarità di Sole e Luna, corrispondenti alla sintassi alchemica delle potenze di maschile e femminile, e l’insorgere del Verde che connota alchemicamente la fase in cui il centro del Cuore si spalanca alla Vista). Eppure questo esercizio ermeneutico, che tra l’altro sarebbe rigettato come critica di impostazione mistica (nulla di più sbagliato) o addirittura new age (sarebbe probabile, conoscendo lo stato della critica odierna), questo esercizio non avrebbe senso, rovinerebbe quanto irradia in purezza la poesia di Bre: attenzione, consapevolezza, sentire il mondo alla luce dell’attenzione e della consapevolezza. Questa consapevolezza attenta è indicibile: può soltanto riflettersi nel movimento del pensiero, nei suoi ritmi e nelle sue figure di canto, che manifestano una caduta dalla semplicità dell’attenzione stessa, che è coessenziale a un nucleo vuoto, autentico centro di sé: “e qui dove io sono io non sono | che la pace profonda di me stessa || e non so più chi sono || e nemmeno un pensiero che mi venga”. L’evocazione della Pax Profunda è dunque la traccia del classico, compreso fino ai suoi fondamenti ed esperito, ripetuto con parole di scacco, poiché ogni parola è inadeguata: “transumanar significar per verba | non si porìa”, dopotutto. Il qui e ora, che Silvia Bre esercita poeticamente in opposizione ai nomi, che sono stati amici, sono diventati ostacoli, sono stati trascesi, sono stati compresi nella loro sorgenza e sono tornati a essere amati nella fragilità della loro impermanenza e nell’incapacità di dire la cosa – il qui e ora è il perno vuoto del libro.
Questo è un libro sapienzale, il che significa: chi ha occhi per vedere veda; chi ha orecchi per sentire senta.

Ciò detto, e davvero forse ho detto troppo, possiamo tentare, per rispetto alla poetessa Silvia Bre e ai lettori, quella che io considero ormai una pratica inutilissima e perniciosa, poiché illusoria e produttiva di attaccamento: cioè la collocazione critica all’interno di un orizzonte letterario. Nonostante le mie perplessità intorno a questo esercizio, che appartiene ormai a una critica che personalmente giudico morta e sepolta, lo svolgo a favore del lettore di poesia disinteressato a vertici di metafisica e più interessato a coordinate testuali e autoriali in cui sistemare l’attività poetica di Bre.
Mi pare che la poesia di Silvia Bre, e Marmo in particolare, vada a definire un quadrilatero della poesia italiana contemporanea, in cui, oltre a Bre stessa, si pongono Valerio Magrelli, Milo De Angelis e Mario Benedetti. Valerio Magrelli non è un poeta metafisico (non ancora), però è un poeta della percezione e della trasparenza, del giro di pensiero che vede la percezione. La sua uscita dal moderno e dal postmoderno avviene attraverso una cerebralità che può essere più o meno acuta a seconda dei testi, ma che in ogni caso ha come orizzonte una epoché di husserliana derivazione, ammesso che Husserl intendesse proprio quell’epoché che la tradizione filosofica contemporanea ci consegna (e, personalmente, non lo penso: sarebbe da ridiscutere non la nozione, bensì l’esercizio stesso dell’epoché), tenendo presente l’importantissimo filtro di Valéry che Magrelli utilizza come schermo fondamentale. Milo De Angelis è un poeta chiaramente metafisico. Compie il balzo, fulmineo, a strappi, verso immagini folgoranti tese ad attivare uno sguardo che, tuttavia, non si stabilizza, così come non si stabilizza la lingua, ora oracolare e completamente disinteressa alla tradizione stilistica lirica di derivazione petrarchesca, ora più dolce e morbida e carnale, comunque tesa a un non-dualismo che è prossimo al discorso effettuato sopra sulla poesia di Silvia Bre. Mario Benedetti non è un poeta metafisico, ma si dispone, credo meno consapevolmente di quanto emerge nei testi, a compiere il medesimo balzo, che per il momento, nel suo Umana gloria, si configura come attraversamento dell’umano, sempre nella direzione del non sapere, attraverso una lingua innovativissima rispetto alla tradizione tanto amata, che è comunque di matrice leopardiana e post-petrarchesca, con variazioni metriche desunte da Carducci e Pascoli, oltre che dall’apparente prosastico di Pavese. Silvia Bre è una poetessa pienamente metafisica che ha superato i termini della lingua di tradizione, in questo senso: non c’è parola o gesto poetico che non derivi dalla tradizione, da quanto ne è intrisa la poetessa, ma proprio per questo, in Marmo, si abbandona il nitore assoluto e si creano scarti linguistici e metrici interni (“Vedevo uno che ha smesso di sapere”; “d’essere vicini”; “verso non lo sai dove”; “fanno del bene”).
In pratica. individuo un quadrilatero di poeti che, più o meno, appartengono alla medesima generazione, che condividono elementi comuni, date comunque distanze di poetica e di lingua, tesi tuttavia a scrutare esplicitamente l’oggetto principe della poesia grande: il mistero umano e l’impossibile nominazione. Questo scrutare è per me il canone: a diversi gradi di intensità di sguardo, essi si avvicinano o meno, ma comunque sono tesi ad avvicinarsi, all’esperire quello sguardo, e non linguisticamente.
Tra questi poeti, Silvia Bre con Marmo mostra una impressionante progressione. Chi volesse meditare sulla sostanza strutturale che fa il poemetto finale del libro su San Sebastiano (già edito da Nottetempo), avrebbe l’occasione di comprendere come e perché la poesia e la narrazione stanno avvicinandosi in maniera decisiva in questo tempo di contagi rapidi e transitori: tale avvicinamento è invece un geomorfismo che, a mia detta, va a comporre qualcosa di stabile per un lungo tempo, almeno nella letteratura italiana.