gazzotti5.jpgdi Carlo Gazzotti

5. La scena bugiarda (1992—93)

Anche la scelta del lavoro successivo, Il Bugiardo di Carlo Goldoni, venne concordata con i funzionari dell’ente teatrale regionale, questa volta all’interno dell’iniziativa denominata ‘Fantafrottole’ dedicata per quell’anno al tema della ‘bugia’. La continuazione più che ovvia della rassegna realizzata l’anno precedente intorno a Pinocchio.

Il Bugiardo andò regolarmente in scena nel principale teatro di prosa della città il 7 e 8 Maggio 1996 con doppia rappresentazione, alle ore 10 ed alle ore 21 nonostante il cambio di direzione al vertice dell’ente e una serie di ristrutturazioni del personale del medesimo avessero rischiato di vanificare l’intero lavoro di un anno, a cominciare dalla diatriba sulla natura gratuita dello spettacolo. Dopo una lunga trattativa accettai alfine che il prezzo del biglietto fosse di 25.000 lire (10.000 per i ridotti).
L’allestimento, unica produzione scolastica realizzata quell’anno per l’iniziativa alla quale s’è fatto prima riferimento, raccolse più di mille spettatori e il plauso unanime di critica e di pubblico finendo replicato tre altre volte ancora tra il Maggio e il Dicembre dello stesso anno. Le scene e le musiche impreziosirono ulteriormente una produzione già di per sè caratterizzata da un’ostentata ricchezza dei costumi e delle suppellettili. Leziosità e lustrini oltremodo necessari volendo il lavoro fare il verso a certo ‘yuppismo’ nostrano in odore di tangentopoli, portaborse, stilisti milanesi e interessate sfilate di moda, quasi si fosse voluto brechtianamente sottolineare che noi non ci si riferiva ad un bugiardo astratto, astorico, letterario, ma ai mille bugiardi di casa nostra, per dar vita, come scrivevo nelle note di regia, “(…) ad un tormentone radio-televisivo, con le ‘blobberie’ di regime, il nuovo balcone di Piazza Venezia, di Piazza Italia, il nuovo olio di ricino reclamizzato, un tormentone con il quale fosse possibile e oltremodo lecito purgare tutto e tutti, purgarsi, mondarsi, riformarsi.”
Il rischio che cercai disperatamente di combattere fu di cadere in un facile moralismo di gusto e di stampo giustizialista. Per questo imposi al gruppo di riflettere ancor più di quanto si fosse fatto in Pinocchio sulla natura profonda e sul significato drammaturgico della bugia.
Che poi Il Bugiardo di Goldoni non potesse essere più di tanto identificato con i ladroni ed i ladrocini di regime fu chiaro a tutti subito Tanto lo stesso testo si ritrovava proprio dalla parte di Lelio, il mentitore, e delle sue “spiritose invenzioni”.
Comica, capace cioè di generare la battuta e l’evento teatrale, la bugia perdeva con un simile personaggio quel carattere di ripugnanza moralistica sotteso ad una troppo facile lettura, divenendo consapevolezza dei meccanismi favolistici dell’invenzione e del vaniloquio fantastici. Gli stessi verso i quali i ragazzi poterono facilmente constatare andava tutta l’ovvia, immediata, spontanea loro stessa simpatia.
Senza di lui, gli altri personaggi sembrarono da subito come recitare un ruolo svogliato, stando a fatica nei loro panni. Al punto che la stessa balorda comicità di Arlecchino sembrava lì inserita al solo scopo di sottolineare, per contrasto, la leggiadria di Lelio, la sua audacia elegante, la sua spensieratezza di puro visionario: in una parola, la sua poesia idiota.
Più e meglio di quanto fosse accaduto in Nipocchio, fu proprio questo interrogarci sulla bugia in teatro, ovvero sulla bugia del teatro, a consentire al gruppo di fare riferimento quasi esclusivo a meccanismi di pura e semplice teatralità ed in questi risolvere, inscrivendovelo, ogni altro aspetto dell’opera.
La bugia, capimmo, dimorava tutta quanta nello stesso fare teatro, prima e meglio di quanto potessero mai significare un testo, una lingua, una parlata. Modello del perfetto bugiardo poteva essere preso proprio l’attore, l’interprete chiamato ogni sera a reggere l’urto della cruda verità della scena dando vita all’impianto delle sue “spiritose invenzioni”, delle sue ‘idiozie’.
Come capita a Lelio/Il bugiardo, ogni bugiardo che agisca consapevolmente in una situazione di rappresentazione deve necessariamente occultare la propria verità particolare, personale, profonda, dando vita alla costruzione di un racconto falso, fantastico, visionario nel quale far sì che la prima istanza, remota e nascosta, venga necessariamente solo resa implicita.
Le sue parole, oneste o menzognere che possano essere, devono apparire in ogni caso vere o capaci di non contraddirsi. Menzogne simili al vero ed enunciate proprio da chi, viaggiatore senza testimoni, sa occultare la verità. Autoreferenziale, causa ed effetto di un sistema autosufficiente, l’attore, necessariamente bugiardo, mostra d’essere svincolato dalla realtà e retto da un rigoroso isomorfismo rispetto ad essa. Unico nemico giurato di entrambi, del bugiardo propriamente inteso e dell’attore, la bugia gratuita. Quell’abisso insondabile nel quale permane qualcosa di ambiguo e di evasivo, come in un delitto senza movente, compiuto per il solo piacere di compierlo, o per follia, o da assassini di professione. L’incredibile, l’acrobatismo funambolico fine a se stesso, appaiono infatti un lusso che nessun bugiardo, che nessun attore, sembrano potersi concedere mai. Tra coloro i quali bene incarnano questa gratuità della bugia non attoriale, dell’acrobatismo fine a se stesso, il barone di Munchhausen e tutti coloro i quali apprezzano le storie per le storie, le storie gratuite e di queste sole si compiacciono passandoci il tempo. Se da una parte stavano quindi i funambolismi astratti e velleitari del barone di Munchhausen, da tutt’altra parte andava invece collocata la bugia attoriale del Lelio goldoniano, del mentitore di Corneille (dal quale il lavoro del Goldoni era pur sempre a sua volta ricavato). La sola alla quale sarebbe stato necessario attribuire un carattere umbratile, notturno, salottiero, lo stesso dal quale fare discendere la scelta di una Venezia nebbiosa, lunare, metafisica.
Notturna, onirica, fantastica, la bugia di Lelio si presentò da subito con un proprio armamentario di oggetti misteriosi ed appetibili, oggetti che passavano di mano in mano sino alla loro neutralizzazione finale. Dalle missive di e per il bugiardo, alle sue fedi di stato libero, ovvero ancora ai regali che Florindo (amante riservato e bugiardo per reticenza) suol riservare alla bella Rosaura e dei quali s’impossessa alfine ogni volta lo stesso Lelio. Come, la serenata, le venti braccia di pizzo, il sonetto d’amore. Non a caso sono proprio questi stessi oggetti a tradire Lelio consentendo si scoprano i suoi mille artifici una volta che detti oggetti avessero finito per ritornare tra le mani di Brighella e di Florindo (che nel nostro caso decisero di esporli, dal terrazzino di casa Bisognosi) quali probanti documenti d’accusa contro il mentitore ridotto ormai alle strette. Florindo e Brighella sino a quel punto a loro volta oggetto incognito e solamente presupposto per Lelio (e finanche per Arlecchino).
Lelio del resto, come ogni bugiardo che si rispetti, è un fabbricatore di mondi, un geniere di universi. Universi e mondi, al contempo fittizi e verosimili. Per far questo, come ogni attore ben conosce, gli è necessario cancellare parecchi dati di partenza del mondo reale che lo circonda, (o non curarsene più di tanto) facendoli semmai convergere verso il proprio unico intento.
Pieno di verità ha invece da essere il corpo del bugiardo/attore, che come sovente capita alla parola, ha da sembrare concesso, elargito necessariamente con quelle fattezze e con quelle solamente, perchè l’uomo possa nascondere in esse (e per esse) il suo pensiero. A ciò andava aggiunto che, sia in Corneille che in Goldoni, la bugia teatrale è rappresentata quale grande ragnatela. Una ragnatela costruita come sofisticata memoria, presenza di spirito, cura, improntitudine, le cui sorti, a partire da un determinato momento, si rovesciano, e allora è il ragno a divenire progressivamente preda stessa della ragnatela che ha edificato. Del resto, chi sia il bugiardo è dato da intendere con ‘segni’, oltre che frequenti e ripetuti, di immediata e non ambigua leggibilità.
Il pubblico, messo sin dalle prime battute nella condizione di testimone, avrebbe potuto e dovuto conoscere quello che, via via, il bugiardo o gli altri personaggi finiscono per ignorare, potendo ridere tanto della bugia quanto della credulità.
Viaggiatore odisseo, Lelio mi apparve da subito spendibile anche come campione di dongiovannismo (con quel suo disdicevole peregrinare tra amori romani, napoletani, veneziani) artefice e vittima di un ‘tour de force’ erotomane abilmente condotto attraverso il panorama caleidoscopico delle città stato italiane del settecento e delle loro lingue (le stesse in procinto di essere separate di nuovo dai furori leghisti in quei giorni assai di moda e sulle quali si lavorò come ad un pasticcio della glossa).
Potente mezzo magico, la bugia avrebbe così messo nelle mani dell’attore celebrante il più divertente e prolifico dei sortilegi, che una bugia, si sa, suol produrne più di cento; essendo sufficientemente palese un po’ a tutti che proprio nel campo dei miracoli della scena l’albero della bugia è cresciuto e si è sviluppato invadendo tutto lo spazio della commedia e del mondo. Per sedurre il pubblico i ragazzi avrebbero dovuto allora allenarsi “(…) a muoversi, a guardare, ad ascoltare, a respirare dentro una bugia (…)” e ad impratichirsi nella scrittura corporea entro la quale (e non a prescindere dalla quale) la parola aveva da essere esercitata, chè, andava da sè, le bugie del mentitore non potevano essere né invisibili, né mute.
Da Pina Bausch e da certo teatro/danza si prese in prestito una presenza scenica maggiormente coreografica e di stampo mimico-espressivo. Da questo stesso punto di vista, minuziosa e insistita fu la preparazione delle tre bautte veneziane che accompagnano tutta quanta l’azione, dall’apertura del sipario ai giochi e ai nascondimenti i più vari intorno, addosso, sopra, sotto, di tergo, tutt’intorno i vari personaggi.
Protagonista indiscusso del lavoro Mauro/Lelio. Fu lui ad imporsi definitivamente, all’interno e all’esterno del gruppo quale suo vero e proprio portabandiera, vuoi per capacità attoriali e recitative vuoi, più in generale, per serietà, impegno, estrema diligenza, carisma e fascino personali. Servo di Caio Livio in Specchi, ‘naso’ nel Nipocchio, Mauro/Lelio finì per raccogliere il testimone passatogli dal ‘vecchio’ Christian/Brighella a sua volta, allampanato e flemmatico Demetrio nel Sogno shakesperiano, orfico Caio Livio in Specchi, Volpe in Nipocchio.
Quello delle individualità che necessariamente emergono anche in gruppi come questo, pur fortemente incentrati sul lavoro collettivo e d’insieme, è aspetto spesso taciuto e/o sottovalutato dalla letteratura sull’argomento (maggiormente propensa a veder privilegiate questioni riguardanti l’impostazione pedagogico-didattica di fondo dei vari progetti educativi o, nella migliore delle ipotesi, la ricostruzione ragionata e le modalità di svolgimento, le animazioni, le drammatizzazioni, i percorsi simbolici dei medesimi). Mai un nome, una singola personalità, un protagonismo individualizzato e se casualmente qualcosa del genere finisce per fare capolino qua e là si tratta esclusivamente di figure utilizzate a mo’ d’esempio in quanto tendenti a sottolineare presupposti elementi propedeutico-terapeutici del fare teatro a scuola o casi di recuperi scolastici portentosi, clinici ‘borderlines’ con i più svariati handicaps psicofisici che stupiscono come altrettanti funamboli mirabolanti.
Eppure, fotografato nella sua concreta prassi quotidiana, ogni gruppo teatrale scolastico sa di dover vivere soprattutto, se non quasi esclusivamente di individualità, di competenze, di abilità uniche, irripetibili, insostituibili.
Più di quanto capiti ad animatori e insegnanti sono gli stessi ragazzi a ricordare quanto siano preziose proprio le singole, individuali, personalità. Penso alla fatica che ho sempre fatto nelle repliche, anno dopo anno, a sostituire chi se n’era andato in quanto uscito dalla scuola, tanto i ragazzi identificavano il personaggio con colui che aveva finito per ricoprire quel ruolo.
Una grande lezione mi veniva anche questa volta dal teatro orientale, ed in particolar modo dal trattato di Zeami, che non si nasconde affatto la potenza del ‘fiore naturale’ del bambino e dell’adolescente, fiore impareggiabile e più bello di quello altrimenti prodotto da qualsivoglia altra stagione della vita attoriale e fisiologica dell’uomo, al punto che “(…) qualsiasi cosa egli interpreti avrà della grazia”.
Io, nel mio piccolo, nelle mia personalissima trama dell’idiozia, non ha mai cercato di nascondermi questa verità ritenendo che il passaggio di consegne tra ‘vecchi’ e ‘nuovi’ fosse prima di tutto un passaggio di testimone del ‘corpus’ di abilità e di pratiche cresciuti con lo stesso crescere del gruppo, col suo pensarsi costitutivamente come una ‘tradizione’.
Una ‘tradizione’ in miniatura fin che si vuole, lontana certo dalle ben più severe e rigorose pratiche dei teatri asiatici, ma sempre elitariamente sentita in termini di partecipazione ad una vicenda capace di trascendere individualità, caratteri, tipi, figure, persone realmente succedutesi in carne ed ossa e insieme di fissarle ‘ab aeterno’ nel loro concreto e riconoscibilissimo esistere individuale, di ‘vecchi’ presi ad esempio e imitati in quanto tali: saggi, eroici, artefici di tante battaglie.
La stessa trasmissione delle competenze attoriali, del ‘training’ con il quale affrontare testi, personaggi, situazioni, finì sovente per avvenire da uno allievo all’altro, come un incontro/scontro di personalità. Così fu, ad esempio, che il melanconico Roberto generasse, per contrasto, il surreale Christian e che questi guidasse, passo per passo, il vanitoso e narcisistico Gabriele.
Della cosa rimane traccia tangibile nello stesso spettacolo goldoniano, quando ad esempio, sin dalla prima scena, Christian/Brighella consiglia, invita, sollecita, il proprio giovane padrone Gabriele/Florindo a mostrarsi, comportarsi, dire, fare come si conviene ad un innamorato, dichiarandosi al contempo pronto esclusivamente a servire e ad eseguire quanto egli decida mai richiedergli. Così fu durante i lunghi mesi trascorsi insieme nel vecchio e ormai dismesso edificio che il comune e l’ente teatrale regionale ci avevano messo a disposizione, laddove Christian e Gabriele trascorsero molte delle sedute di prove a lavorare isolati dal gruppo, in una delle varie sale che il luogo consentiva di utilizzare, finendo col ‘montare’ insieme, azione dopo azione, sequenza dopo sequenza, l’intera loro parte. Sovente capitò che Christian ritornasse su alcuni spunti di suoi precedenti lavori per chiarire al più giovane amico ragioni, modalità, ritmi, trovate, intuizioni, cadenze particolari, quiproquo linguistici, e che lo stesso finisse per capitare, l’anno successivo, anche a Gabriele, questa volta nei confronti di Matteo (impegnati nei panni rispettivamente del conte Dracula e del giovane Jonathan Harker).
Un altro aspetto importante riguardò il fatto che Il bugiardo venne chiamato a fare i conti con l’universo della maschera (soprattutto nei lunghi mesi di lavoro laboratoriale più di quanto concretamente fosse possibile evincere dallo spettacolo). Il lavoro con la maschera sarebbe divenuto da qui in poi pratica costante delle successive esercitazioni del gruppo, com’è possibile evincere dall’eserciziario di cui s’è dato, altrove, ampio risalto. Col tempo passai poi dalla semplice loro utilizzazione ad un’attività di vera e propria progettazione e realizzazione artigianale, al punto che oggi, la cosa, costituisce la mia prima attività.
Terminato il lungo laboratorio scandito da sedute di prove di tre ore ciascuna due volte la settimana, con i soliti ‘tour de force’ in occasione delle vacanze di Natale e di Pasqua, il 15 Aprile 1993 veniva ufficialmente richiesto all’ufficio di Presidenza di organizzare la partecipazione allo spettacolo delle classi e degli studenti che avevano avanzato tale richiesta; a cominciare, s’intende dai ragazzi direttamente impegnati nella rappresentazione. Di questi ultimi, sette erano miei studenti e sette facevano parte di classi nelle quali io non insegnavo, segno tangibile che ormai il gruppo teatrale che avevo continuato a far vivere era una realtà presente nell’intero Istituto difficilmente circoscrivibile ad una sezione o peggio ancora ad un solo insegnante. Ciò non impedì alla presidenza ed al grosso del collegi docenti d’irridere il lavoro effettuato continuando il rifiuto ad attivare i pur previsti fondi d’incentivazione (proprio in quei giorni elargiti a piene mani al personale di segreteria e ai collaboratori del preside). A nulla era servito che il grosso dell’Istituto avesse partecipato in massa agli spettacoli, preside compreso.
A margine dell’allestimento goldoniano sul quale ci siamo sino ad ora soffermati durante l’inverno del 1992 lavorai a lungo alla realizzazione di Falsetto, una opera rock che cercai inutilmente d’imbastire realizzando il grosso della composizione orchestrale e provando due testi come canovaccio di riferimento dell’azione scenica. Da un lato misi insieme la storia di una contesa medievale tra principeschi ‘Dionisi celtici’, ovvero, tra le carte di un mazzo da gioco in una sorta di arcadico regno matriarcale: il distopico feudo di Kod-pop.
Dall’altro ispirandomi al racconto di J.L.Borges La forma della spada, ambientato come altri precedenti lavori del gruppo tra i rivoluzionari irredentisti irlandesi.
Borges significò per me lavorare più sul versante della credulità, della credulità scenica, che su quello della bugia. Che l’ipocrisia istrionica presupponeva pur sempre una restituzione credibile rappresentata dallo stesso corpo pre-espressivo posto in situazione di rappresentazione, ovvero una mostruosità bifronte, manichea, dell’attore/spettatore (vittima prescelta delle sue stesse mere superstizioni visive).
Il successo de Il bugiardo portò anche al primo ufficiale ‘conferimento d’incarico’ per il sottoscritto. Dopo sette lunghi anni di ‘clandestinità’ cullai in quei giorni la speranza di vedere alfine riconosciuto il lavoro mio e dei ragazzi e la tentazione di modificare la veste giuridica del LTV trasformandolo in un vero e proprio organismo economico capace di proporsi autonomamente come centro di studio e di produzione teatrale.
Nonostante in questa direzione andassero alcune riunioni tenutesi all’inizio dell’anno scolastico 1993 – 94 fu però destino del gruppo ritrovarsi nel giro di pochissimi mesi ancor più isolato e reietto. Bocciato un mio progetto di corso d”Arredamento scenico e teatrale’ (corso di Sperimentazione parziale assistita ex.t. 3 DPR 419/1974), col nuovo anno venimmo anche privati della sala in precedenza concessaci. Ancora una volta la nostra idiozia testimoniava l’impossibilità di tenere insieme scuola e teatro, legalità e protagonismo giovanile, certezza del diritto e imprenditorialità sociale diffusa. L’idiozia, anche se organizzata, veniva ricacciata in una sfera pre – politica, marginale, intima, non istituzionalizzabile. Grazie a Dio, forse.
Unica e non piccola consolazione la bellezza del sito individuato per continuare la nostra fatica: il prato di una villa storica ubicata alle porte della città meta per coppiette d’innamorati e ultimo set pasoliniano per l’incompiuto Salò.

(5-CONTINUA)