di Carlo Gazzotti

Trama4.jpg3. La scena alchemica (1989-91)

Scottati sul versante politico affaristico amministrativo, nonché, naturalmente, su quello scolastico, io e i ragazzi non trovammo di meglio da fare che acuire ancor più i toni ludico-spettacolari di una ricerca teatrale altrimenti defatigante, sofferta e chiusa ermeticamente al proprio interno. A giustificare la cosa la necessità di dover legittimare l’isolamento, prima forse subito, poi consapevolmente vissuto e fatto proprio in modo beffardo dal gruppo. Operare all’interno della sala SGB a contatto diretto con numerosi altri gruppi teatrali aveva comunque consentito al collettivo di crescere sia dal punto di vista umano che da quello artistico. Tre i modelli con i quali s’era finito per entrare in contatto.

Quello filodrammatico, rappresentato dalla compagnia vernacolare ‘Al Naveli’ e dal gruppo ‘La bottega della fantasia’.
Quello ‘di parola’, che accomunava una dozzina di giovani provenienti da una scuola teatrale della città.
Quello ispirato a tradizioni più alte quali il mimo di Marcel Marceau e l’antropologia teatrale di Eugenio Barba e Jerzy Grotowski qui incarnate da professionisti del settore come Lucia, Sandra e Sergio. Gente che in quella sala, a sua volta, aveva iniziato a fare teatro negli anni settanta. Fu soprattutto la lezione di Lucia che consentì al gruppo il superamento di una prospettiva prettamente letteraria, ovvero il progressivo affermarsi di una pratica di training attoriale e l’affinarsi delle competenze tecniche nel campo della dizione, della fonetica, dell’uso consapevole e pre-espressivo del corpo.
Il resto l’avrebbero fatto: una pratica sistematica di esercizi in gran parte sganciata dall’idea dello spettacolo come unico evento; il lavoro di montaggio dell’azione drammatica e di suddivisione dell’azione in sequenze e microsequenze sino alla ricerca di una semplicità, di una elementarità del gesto, capace di fare i conti con la povertà intrinseca della scena; lo studio di tradizioni teatrali lontane, nello spazio e nel tempo, ovvero la scoperta di una prospettiva antropologico-teatrale di fondo e della teatralità come modello epistemologico forte.
Ciò ebbe non pochi effetti sul piano più squisitamente linguistico – letterario nella conduzione dei miei stessi corsi curriculari a scuola, al punto da spingermi al conseguimento di una seconda laurea (dopo la prima del 1980 in Filosofia) proprio in Drammaturgia presso il DAMS bolognese. A colpire soprattutto l’immaginario collettivo e la gestione concreta, pratica delle sedute di laboratorio del gruppo fu comunque l’idea dell’arte teatrale intesa come “uffizio” (e proprio in quella stessa accezione elisabettiana della quale parla, tra gli altri Peter Brook).
Il laboratorio con Lucia produsse però anche una frattura nel gruppo di più vecchia data che abbandonò di fatto la collaborazione con i ragazzi ancora iscritti all’istituto e col sottoscritto. Dissapori, incomprensioni, astiose polemiche personali portarono di lì a poco alla costituzione prima di due, poi addirittura di tre collettivi autonomi.
Il ‘Teatro blu’, con Roberto, il Rosso, Maria Cristina e gli altri fondatori originari, fermamente intenzionati a proseguire su di un piano di pura ricerca pre-espressiva e a produrre allestimenti e laboratori nelle scuole di base.
‘I Giacobini’, emblema storico del gruppo teatrale della scuola in quell’ultimo anno, che per qualche tempo designò un collettivo di giovani attori semi-professionistici dei quali aveva iniziato a far parte anche Silvia, l’ex studentessa alla quale si è accennato in precedenza.
Il “laboratorio teatrale” coordinato dal sottoscritto e formato dagli studenti più giovani, ancora iscritti all’istituto.
La separazione tra i vari gruppi culminò con l’espulsione del ‘Teatro blu’ da ‘Arcoscenico’ nel Giugno del 1991 per un’indegna gazzarra effettuata dai suoi componenti durante lo spettacolo degli studenti più giovani intitolato Specchi. Ciò non mi aveva impedito di lavorare con tutti e quanti i tre gruppi ai progetti, poi abortiti, La blusa gialla, Taipalcisti e Atrolerpi e aduno strampalato Don Giovanni
La blusa gialla faceva il verso a certe ambientazioni majakovskiane, assumendo toni e ritmi da vaudeville. I dodici quadri nei quali era suddivisa l’azione avrebbero dovuto corrispondere ad altrettanti temi fisici e attoriali, ovvero, in ordine di sequenza a: una conquista progressiva dello spazio-tempo-persona / un entrare improvviso / un uscire improvviso / elevarsi e abbassarsi / arretramenti / girare, mostrare, svelare, / convergere e divergere / nascondere / arrivo e partenza di oggetti.
Taipalcisti e atrolerpi, “anadramma per corpi e voci recitanti”, voleva invece essere una sorta di batracomiomachia marxista e insieme un “(…) laboratorio di tecniche utili alla recitazione (…)”. Il titolo, anagramma rispettivamente di Capitalisti e Proletari, sottintendeva un’impostazione drammatica di fondo non esente da richiami brechtiani, quali quelli contenuti nelle contrapposizioni insistite tra le rispettive fisicità attoriali e sociali degli uni e degli altri appartenenti alle contrapposte classi – rapporti di produzione. Incentrato sul plot narrativo e drammaturgico rappresentato dall’iniziale assassinio di un operaio, anche questo lavoro procedeva per dodici cosiddette stazioni. A ogni stazione corrispondevano: un emblema, un perno, una condizione, una eco. Così, ad esempio, alla VI stazione corrispondevano l’emblema del mercato e della compravendita, il perno dell’epidermide, la condizione taipalcista (capitalista) e l’eco: “Come una merenda per le mosche!”.
Su Don Giovanni, il terzo canovaccio di quella breve stagione, basti dire che, come gli altri due, fu frutto di una discussione serrata su cosa potesse significare la ‘scoperta’ dell’ambito antropologico teatrale, ma il cambiamento di stile e di atteggiamento era stato troppo forte per partorire da subito qualcosa di completo, di organico.
Abituati da sempre a incontrarsi di sera lontano da ogni logica scolastica gli ex studenti finirono giocoforza per cessare ogni rapporto con un collettivo sempre più frequentato da decine e decine di chiassosi ragazzi anagraficamente più giovani e disponibili per le prove in teatro solo di primo pomeriggio.
Notturno, umbratile, giacobino, il primo nucleo del gruppo teatrale che avevo messo insieme negli anni lasciò così il posto a una più solare e rumorosa brigata di adolescenti.
Costanti nel tempo rimasero invece il carattere completamente gratuito dei miei corsi, l’entusiasmo, il cameratismo, l’orgoglioso senso di appartenenza a una realtà del tutto alternativa al sonnolento e demotivante ambiente scolastico. Gratuiti sarebbero continuati a essere anche gli spettacoli, per i quali si decise sempre di optare sulla formula dell’ingresso a offerta libera e/o a invito e sulla sistematica falsificazione dei dati da comunicare alla SIAE relativamente a incassi e presenze, ritenendo inammissibile che lo Stato potesse incamerare qualcosa sull’attività didattica di studenti frequentanti scuole pubbliche di istruzione secondaria, quando semmai sarebbe dovuto avvenire il contrario.
Del resto, non mancarono controlli, anche meschini, con tanto di funzionari muniti di registratori portatili seduti in sala pronti a carpire qualche brano musicale non denunciato. Gli incassi, di qualche centinaia di migliaia di lire a serata, coprirono sempre a malapena le numerosissime spese di allestimento e di manutenzione del materiale scenotecnico utilizzato. Nessun compenso venne mai elargito a singoli operatori (anche professionistici) utilizzati. I bilanci del gruppo studentesco e dello stesso ‘Arcoscenico’ furono sempre assai poco curati e non certo per nascondere alcun tornaconto.
La mancanza pressoché totale di competenze amministrative, il dovercela fare da soli, senza alcun sostegno della scuola o di chicchessia, comportò la totale impossibilità di aderire a una qualsivoglia istituzionalizzazione. La trama dell’idiozia era e rimaneva anti-economica, per vocazione.
Lo spettacolo che realizzai coi ragazzi più giovani, in quell’anno di profondi cambiamenti, fu ispirato al Sogno di una notte di mezza estate e andò in scena ininterrottamente dal 26 di Aprile al 1° Maggio 1990 presso il teatro SGB all’interno della prima fortunata rassegna di ‘Arcoscenico’.
Ventotto gli studenti in scena, cinque quelli dietro le quinte, più di quaranta quelli che, a vario titolo, presenziarono alle oltre duecento ore di laboratorio.
Lontani apparivano ormai i primi allestimenti frutto di un piccolo cenacolo giacobino. Il numero considerevole di partecipanti impose l’organizzazione di gruppi di lavoro capaci di operare in maniera autonoma e anche per questo la scelta cadde su un testo shakesperiano caratterizzato da innumerevoli personaggi.
Così s’ebbe il gruppo degli innamorati (nel quale figuravano i vecchi del gruppo, a cominciare da Silvia e Roberto); quello dei domestici impegnati nell’allestimento della “molto dolorosa storia di Piramo e Tisbi” (da noi trasformato in un coro di gaie domestiche); quello degli elfi della selva (reso attraverso un pugile, un travestito, un aviatore della prima guerra mondiale, un ‘freak’, tutta roba insomma da ‘kitsch’ televisivo); quello delle ‘trasparentissime’ fate di Titania e della coppia mefistofelica Oberon/Punch
Questa politica di organizzazione del collettivo in gruppi e sottogruppi ai quali affidare singole parti e ruoli specifici, corali, individuali, siparietti, occasioni di teatro nel teatro, sketcks, gags, tormentoni, fughe e inseguimenti a non finire, risulterà pratica costante dell’intera storia successiva del laboratorio.
Il coordinamento di gruppi e sottogruppi sarebbe del resto divenuto una delle mie principali preoccupazioni.
A impormi una simile metodologia, l’elevato numero di partecipanti e il carattere pluriclasse di un collettivo al cui interno finivano per ricompattarsi gruppi e sottogruppi tra loro affini per gusto, simpatie e contiguità interpretative, ovvero per ragioni esistenziali, domiciliari, anagrafiche. Qualcosa del genere a quello che, vado a braccio, aveva pensato secoli fa il grande pedagogista Comenius…
Centrali e insostituibili la pratica quotidiana degli esercizi e la ginnastica attoriale legate all’acquisizione di un livello pre-espressivo di utilizzazione del corpo e della voce. Lo stesso poteva dirsi per l’impostazione satirica di fondo alla quale finirono col piegarsi lo stesso spirito di ‘remake’ e la vocazione ad allestimenti di ambientazione storiche.
Forse per questo leggevo molto dei registi russi del primo novecento, e sognavo di Mejerchol’d, Vachtangov, Evrèinov, della prosodia da ‘Teatro da camera’ di Tairov, del montaggio delle attrazioni eisensteiniano.
Far vestire panni storici a giovani adolescenti, inscenare con loro truci vicende medievali o manierismi secenteschi avrebbe sempre più significato per me scatenare forti elementi ludico passionali dai quali far scaturire poderose dosi di gioiosità creativa.
Soprattutto Mejerchol’d mi piaceva, a lui mi ispiravo. Come fossi stato il commissario politico dei gruppo, il suo ‘dottor dappertutto’. Un lord protettore votato a fare con quei ragazzi la nostra piccola rivoluzione copernicana. Una mia, una nostra personalissima presa del palazzo d’inverno. Mejerchol’d che, ragionando delle scuole di teatro, aveva spesso sottolineato come la creazione metamorfica del travestitismo riesca sempre a esprimere e a produrre gioia, si fosse fatto vestire ai ragazzi i panni di un Amleto morente o quelli dell’agonia di Boris Godunòv.
Giocare con armature e ventagli, cappelli, acconciature, maschere delle più svariate, lontane, inconsuete fogge; partire più da meccanodrammi che da psicodrammi; mettere a nudo i testi poetici smontandoli e rimontandoli a piacimento; dar vita a capricci, sarabande, eccentricità, burle da ‘slapstick comedy’; impastare elementi futuristi e da baraccone muovendosi come carte da gioco secondo partizioni dinamiche fatte di episodi concisi e incisivi, era quello che proponevo e dirigevo per ore, due volte alla settimana, nella penombra della sala SGB. Bei tempi e tanta, tanta fatica, mentre la trama dell’idiozia prendeva forma ogni volta di più.
Anche secondo Domenico Starnone quello dell’aiutare gli Amleto delle nuovissime generazioni a rimettere in sesto il tempo che è andato fuori squadra sarebbe uno dei pochi compiti elevati rimasti agi insegnanti italiani (sempre che agli insegnanti italiani sia possibile ancora attribuirsi un qualsivoglia compito, più o meno elevato). Starnone finisce però con l’irridere all’intera questione riconducendola all’interno dell’armamentario narrativo che gli è più caro laddove va sottolineando i parallelismi possibili e le possibili identificazioni tra una scuola vista quale società dello spettacolo e gli insegnanti ridotti al ruolo di intrattenitori nella comune “perdita di tempo” del teatro e della scuola insieme Insomma, a sentir lui, è come se la scuola per un po’ mettesse la parrucca e si incipriasse dimostrandosi così per quel che è.
Eppure, quel Sogno di una notte di mezza estate portò nel piccolo SGB 1500 spettatori, più della metà dei quali costituti da un pubblico adulto pagante.
Teatrale, comico, ‘ben fatto’, l’allestimento realizzato fu in ogni caso soprattutto caratterizzato da una ‘scena affollata’ (tanto cara alla letteratura drammatica inglese del seicento), ovvero ancora da una certa vocazione allusiva (ed allusivo-sessuale in particolare) quale chiave di interpretazione del ‘sogno’ shakesperiano e della sua costante vocazione a fare i conti con una contemporaneità camuffata e irretita su di un traslato storico.
Dello stesso tenore la scelta di arredare la sala con tendaggi volanti e ‘arlecchini’ neri di poca spesa, ma di sicuro effetto scenografico. Gli stessi tanti cari alle ‘discoverties’ del Kid e di Ben Johnson.
Elisabettiana anche la pratica, poi mai abbandonata, di incentrare la costruzione scenografica dell’allestimento su vesti e costumi piuttosto che su apparati lignei ed architettonici.
La centralità dei costumi (tutti rigidamente pensati e costruiti dai ragazzi secondo un piano registico collettivo) andò dalla scelta dei tessuti alla ideazione di bozzetti e disegni, alla realizzazione intorno alla quale si mobilitavano non poche energie domestiche.
La progettazione e la realizzazione dei costumi, pronti per tempo mesi e mesi prima della rappresentazione e quindi utilizzabili lungo buona parte del periodo di tempo dedicato alle prove, mi consentì di lavorare su ogni protesi del corpo scenico dell’attore più e meglio di quanto mi capiti di vedere oggidì in analoghe rappresentazioni scolastiche. Rappresentazioni nelle quali risulta sin troppo palese come la scelta operata sia dell’ultima ora e posticcia, spesso incentrata com’è su materiali e tessuti anche preziosi, ma diversissimi tra loro e difficilmente giustificabili dal punto di vista registico e drammaturgico.
Evitare il carattere posticcio, arruffone, improvvisato di simili cattive abitudini sembrò sempre compito imprescindibile per tutto il gruppo. Fare in modo che per mesi i ragazzi potessero lavorare nei panni di scena sviluppò nei più un forte senso di identificazione col personaggio e di riviviscenza, sommamente utile su di un piano didattico oltrechè naturalmente sotto il profilo interpretativo e attoriale. Lo stesso potrebbe dirsi del nostro giocare al trovarobato, pur non risultando mai particolarmente sviluppata nel gruppo la pratica di utilizzare oggetti in scena. Anche sul versante più strettamente scenografico il Sogno di una notte di mezza estate cercò un’impronta caratterizzata da una pluralità di luoghi deputati per realizzare i quali si decise di utilizzare l’intera sala e non solamente la parte normalmente riservata ad uso palcoscenico.
Il fatto che il teatro SGB non avesse sedili fissi consentì ad esempio di disporre nel bel mezzo dello stesso una lunga tavolata intorno alla quale aveva inizio e prendeva corpo l’azione scenica e alla quale finivano per dirigersi domestiche e nobili. Il pubblico, in parte disposto tutto intorno alla tavola, su due diversi e contrapposti ordini di sedie, veniva così a trovarsi dentro la stessa azione e come avvolto da essa.
Proprio tra il pubblico si decise di montare una piattaforma sulla quale stavano gli elfi più volte utilizzati con compiti illuminotecnici ai seguipersona di sapore cabarettistico. Completavano l’apparato un lungo proscenio di quindici metri collegato alla scena vera e propria da alcuni gradini e da una zona a scomparire, quinte laterali nere ed un fondale di teli bianchi sul quale proiettate diapositive dei giardini pubblici e dell’orto botanico della città, innevati.
Fermo restando che con il Sogno fu il riso a ricevere nel gruppo la più completa consacrazione. Una sorta di elemento rassicurante, magico, tribale per l’intero collettivo. Capri espiatori tendenti a negarsi rispetto all’esito frustrante del tragico, alcuni tra i più giovani interpreti così facendo reagirono al più apprezzato ‘meccanismo del sacrificio’ caratteristico invece della stagione che li aveva preceduti.
La sistematica ricerca di comicità e insieme di profonda connotazione ludico-rappresentativa del proprio stare insieme e del proprio operare sulla scena andarono di pari passo con l’elaborazione di una tecnica attoriale tendente a costituirsi in meccanica, in geometria spazio-temporale di tipo extra-quotidiano.
Intenzionalità, secondi fini, paradigmi scatenanti la comicità, costanti e variabili del comico, incongruità, pantomimiche, assurdità, esagerazioni, condensazioni e fruizioni istantanee, formule sintetiche tendenti ad una ricerca di essenzialità linguistiche non analitiche, questi alcuni degli ingredienti che risultarono essere maggiormente congeniali ad alunni e ad alunne appartenenti ad una generazione ormai quasi afasica e lontana da strutture linguistiche complesse, articolate, critiche (come quelle altrimenti presupposte da un testo qualsiasi della tradizione), ma non per questo incapace di manipolare il dato linguistico di partenza verso esiti ludici, illusionistici, esilaranti, grotteschi, folli, in una parola: idioti.
Anche l’extraquotidianità e gli equilibri cosiddetti di lusso vennero sovente avvertiti quali semplici difformità dalla norma e quindi, come tali, facilmente e possibilmente riconducibili all’umore dominante del comico.
Lo stesso avvenne per devianze, dileggi del genio, caratterizzazioni a tutto tondo dei personaggi proprie del gioco letterario e drammatico ‘alto’, scimmiottature e comportamenti umanoidi, animaleschi, proteiformi, errori e ingenuità linguistiche, equivoci e qui pro quo il più delle volte quasi naturalmente sgorganti dalla maldestra e impacciata lettura dei copioni da parte dei ragazzi, con intere enciclopedie di ‘gaffes’ e buffi ‘lapsus’ involontari.
L’ingordigia, la fifa, la spacconata, l’omosessualità malcelata, la curiosità del ficcanaso rappresentarono altrettante situazioni alle quali ricorrere. Meno presenti invece gli oggetti comici (o gli oggetti tout court) e lo stesso potrebbe dirsi delle cosiddette spiritosaggini, più consone ad una comicità intenzionale e professionalmente ricercata.
Freddure, giochi di parole, un certo gusto per lo humour nero (assai caro all’intera generazione degli adolescenti televisivi dei giorni nostri), burle e scherzi ai quali attingere a man bassa, vignette ‘fumettare’ e parodistiche, questi alcuni degli ulteriori ingredienti di una comicità che sgorgava quasi spontaneamente dalla stessa vocazione caricaturale dei ragazzi, nella quasi totalità iscritti alla sezione di grafica. In fondo, per i più si trattava di passare dalle ‘macchiette’ per anni sgorbiate sui banchi di scuola a riproposizioni delle medesime in situazioni teatrali in carne ed ossa, direttamente sulla scena. Non va del resto dimenticato che la stessa grande maschera di Ubu (è lo stesso Jarry a confessarlo) nacque in ambito scolastico quale canzonatura e dileggio di un insegnante particolarmente odiato.
Extraquotidianità e lavoro dell’attore sul tronco, sugli arti, sulla faccia, finirono così sovente per essere in parte fraintesi ed in parte forse capiti come parrebbe invece di rado accadere in certo teatro di ricerca e proprio nella direzione di una continua e sistematica costruzione della smorfia, della caricatura, del fare il verso a qualcosa o a qualcuno. Il che legittimava, come dire, la satira continua e sistematica anche dei più seri tra i personaggi proposti.
Ad essere beffeggiati, canzonati, presi in giro quegli stessi testi scolastici che la routine demotivante della lezione mattutina aveva pomposamente, acriticamente ed enfaticamente esaltato. Pernacchie, contorcimenti, gesticolazioni, blasfemia, satira, umorismo, allusioni sessuali ed erotiche, oscenità, travestitismi, onomatopeica, animalità zoomorfiche, comportamenti e situazioni guignolesche, finirono per fare il paio con la presenza nel gruppo di forti individualità capaci quasi naturalmente di scatenare ilarità e riso.
Lo stesso fu per il successivo Specchi, ambientato nell’antica Pompei dei culti orfici e dell’editto del 186 a.C. col quale Roma interdiva le associazioni dionisiache, ad esclusione di quella legata al culto di Bacco e al mercato del vino. Il gruppo continuava così a saccheggiare nel magazzino della memoria storica tra le cianfrusaglie dell’alchimia drammatica. Un ossimoro, se si vuole, come è, a ben guardare, di per sé ogni trama dell’idiozia.
Specchi andò in scena dal 1° al 5 Maggio 1991 presso la sala SGB con cinque rappresentazioni serali tutte quante estremamente affollate e un’eco insperata sulla stampa locale la quale esaltò sia lo spettacolo del SGB che i suoi precedenti studi preparatori. Una serie di veri e propri ‘happening’ coi quali si decise di partecipare ad alcune manifestazioni pubbliche contro la ‘Prima Guerra del Golfo’.
L’azione scenica della ‘pièce’ prendeva le mosse da Cocteau e dal suo ribaltamento umoristico del mito d’Orfeo, trattandosi di una trama alla base della quale stava per l’appunto il mito orfico del viaggio agli inferi con quel non poter guardare negli occhi Euridice pena il pietrificarla. Proprio a Cocteau si rubò infatti la constatazione che l’intera vicenda possedeva di per sè tratti e contorni di indiscutibile ilarità e una pressoché automatica valenza comica. Lo stesso avvenne per il tema dei gemelli, del doppio, (tema ripreso da Plauto, Terenzio e Goldoni) con l’alternarsi in scena, a fronte dell’eroina Livilla, di una sua sosia, esempio ulteriore di una insostituibile pratica di ‘contaminatio’ tra opere, generi, modelli, brani di repertorio, trovate e improvvisazioni (da cui anche il titolo di Specchi).
L’idea della duplicazione, della moltiplicazione, della contaminazione metamorfica, cara a Terenzio e a suo dire centrale come nessun’altra nell’ordire la scrittura teatrale più consona alla commedia, era da tempo stata da me adottata come il più ovvio sbocco ad un’attività di dissacrazione e di irriverente ribaltamento di testi e situazioni le più varie, secondo una metodologia per la quale si sono già spese numerose parole nei capitoli precedenti.
L’avventura di Specchi era iniziata sin dalle prime settimane dell’anno scolastico 1990-91 proprio da un macroscopico plagio, da una macroscopica ‘contaminatio’ messa in atto ai miei danni da Andrea, un mio giovane studente col pallino dell’archeologia, il quale mi aveva buggerato sostenendo di aver rinvenuto in quel di Pompei alcune tavole sulle quali facevano bella mostra di sé epigrafi di chiara intonazione orfica.
In realtà Andrea non trovò mai nulla di tutto quanto andava asserendo (e producendo in maniera artefatta), ma l’idea mi piacque al punto da impegnare l’intero gruppo su di una problematica, in senso lato, orfica e bacchica.
Ad una prima fase propedeutica di due mesi nella quale mi preoccupai di avvicinare i numerosi nuovi arrivati alla pratica di lavoro del gruppo e che culminò nelle dette uscite pubbliche di strada, fecero seguito la lettura e lo studio di un copione predisposto sulla base delle due paginette prodotte dallo stesso Andrea e ottenute traducendo la sua chimerica tavoletta orfica.
L’acquisto di un centinaio di metri di stoffe color arancione, rosso scarlatto e rosso porpora consentì da subito che ragazzi e ragazze potessero vivere una sorta di gioiosa, effervescente, gladiatoria romanità facendo propria una vicenda per la quale tale Caio Livio non aveva da guardare negli occhi certa Livilla, pena il pietrificarla. Il giovane eroe orfico, pensato anche quale vanaglorioso guerriero fanfarone, sarebbe inoltre stato chiamato in sogno a sconfiggere la perfida Gorgo anche se, rifiutando l’aiuto di Dioniso, avrebbe finito col condannare a morte se stesso e l’intera città (una città descritta come responsabile di essersi allontanata troppo in fretta dai culti che Roma aveva, lì come altrove, vietato).
Tipi, ruoli e figure sembravano volere uscire direttamente da una farsa ‘atellana’, da una ‘palliata’ italica. Così fu per le movenze e il dire delle coreute, ovvero per quello di Portia e Vaccula, una coppia di intriganti femmine impegnata lungo tutto l’arco della commedia in una serie innumerevole di maldestri tentativi di arricchimento, per Lassia, ancella di Livilla e per il domestico di Caio Livio: Figulus.
Non poche furono le ‘trovate’ e gli ‘improvvisi’ da commedia dell’arte, e l’uso, già altrove sperimentato, direttamente in scena, del copione. Un copione cartaceo, vera e propria appendice del proprio corpo e ora letto, ora suggerito ad alta voce, ora stiracchiato di qua e di là. Un copione che finiva per essere vilipeso ed esaltato nella sua stessa presenza visiva e segnaletica, nonchè utilizzato (fronte retro) per indicazioni e suggerimenti al pubblico. Come ci si fosse trovati in uno studio televisivo, a mostrare le indicazioni utili affinché il pubblico predisponesse applausi, risate, silenzi.
Continuo risultò il precipitare di situazioni, personaggi, sembianze, verso un bestiario dalle pose umane e dalle movenze animalesche, con campionamenti sonori di fattura elettronica che portavano in scena grilli e gracidii di rane assai poco stanislavskiani e sui quali Christian/Caio Livio giocò con onomatopee ed echi esilaranti. Elementi e consuetudini riguardanti i principali aspetti della quotidianità religiosa di Pompei di quel tempo fecero il paio con lo studio della ritualistica dionisiaca e delle pratiche iniziatiche dei neofiti orfici (si pensi, tra gli altri, al ciclo pittorico-vascolare della Villa dei Misteri e alla ‘divinazione’ dionisiaca, in base alla quale, tra le altre immagini, compare quella del vecchio Sileno che porge uno specchio concavo alla giovane iniziata mentre un ragazzo tiene di lato ai due una maschera, immagine che fornì lo spunto per lo stesso titolo poi adottato di Specchi, vera e propria metafora della ierogamia con la divinità teatrale bromia e metamorfica.
Ad affiancare il tema del doppio quello sogno e del carattere teatrale insito all’esperienza onirica, all’evasione visionaria. Da cui la duplicazione della stessa eroina Livilla/Euridice e il rompicapo visionario del di lei innamorato Caio Livio, il quale ne avrebbe avuto due da non guardare negli occhi, una delle quali nulla però sapeva dell’altra (e di lui), innamorata com’era di Paquio Pròculo e da costui sedotta e abbandonata (Paquio Pòculo, o Procùlo, come Simone, il sedicenne che lo interpretava, preferiva ripetere). Paquio Pròculo che a sua volta, nel frattempo, faceva il paio con lo stesso Caio Livio e ancor più col proprio servo Stlaborio Ninfodoto. Paquio Proculo doppio e specchio a se medesimo impersonificando la bella Nuntia (o ‘Franco’ che dir si volesse), la stessa figura ‘travestita’ per la quale, alla fine di tutto quanto il rocambolesco periplo d’amore e di sguardi, Caio Livio deciderà di abbandonare promesse e giuramenti guardando finalmente Livilla (allibita) e decidendo di andare… “a giocare n’aa Roma”. Che si trattasse proprio dell’Associazione sportiva Roma calcio, la “maggica Roma”, era inequivocabilmente confermato da una maglietta del glorioso terzino giallorosso Sabino Nela che lo stesso Christian indossava a bella vista direttamente sulla scena. Il gesto di Caio Livio spinse Stlaborio Ninfodoto a vestire una maglietta con i colori societari dell’Associazione Calcistica Lazio, e il gioco, com’era facilmente prevedibile, riuscì, scatenando sonore risate tra il pubblico.
Il tema del travestitismo sessuale e metamorfico consentiva trasparissero apertamente mille altre rocambolesche agnizioni di personaggi e altrettanti qui pro quo comici, non ultimi i trasformismi politici (dato che l’azione scenica, già s’è detto, si svolgeva proprio durante un’accesa campagna elettorale in quel di Pompei, ergo, nell’Italia di quei giorni). Espliciti furono i riferimenti all’abbandono da parte di qualcuno dei propri superati “rossi emblemi etilici” e alla loro sostituzione con “piante ed alberi”, simbolo di altrettanti “nuovi credi floreali”. Un rilievo in un qualche modo profetico non essendo ancora stata scelto per il di là da venire PDS il simbolo “naturistico” della “quercia” e il relativo superamento della tradizione terzinternazionalista rappresentata dai “rossi emblemi etilici” della bandiera rossa e della falce e martello.
Il SGB, contaminato dall’entusiasmo del LTV, ospitò nelle settimane successive una mostra collettiva di lavori prodotti da studenti della scuola riuscendo a costituire una specie di vero e proprio ‘anti-istituto’ e una serie di concerti delle band musicali di ragazzi vicini al gruppo teatrale.
Unanime la stampa che parlò di “un volontarismo libero e accattivante.”
A lasciare il segno una facilità, una intrinseca e giovanile povertà, una naturale e disarmante bellezza.
Una trama dell’idiozia, si diceva.

(3-CONTINUA)