L’ULTIMO SPETTACOLO

di Danilo Arona

LastPictureShow.jpgChiudono i cinema tradizionali a Bassavilla. La morìa è iniziata con il Corso in via Dante, è proseguita con il Moderno di Piazzetta della Lega e adesso tocca all’Ambra, ben noto agli amici delle Cronache per essere stato molto tempo fa quel Dopolavoro Ferroviario che ospitò il 23 aprile 1916 le dissertazioni di Vittorio Galli sulle “Applicazioni di psicofisica in tempo di guerra” e l’ultimo Capodanno di Melissa Prigione al veglione del 31 dicembre 1924. Sono i cinema storici della nostra vita, dove men che adolescenti assistemmo, stretti fra paura e senso della trasgressione, alle proiezioni di Suspense, Psycho e Gli uccelli. Quando decidemmo, inconsapevolmente, che il cinema sarebbe stato passione maniacale sino all’ultimo giorno della nostra vita – uso il plurale non maiestatis perché parlo anche a nome di tanti altri – e associammo immagini e divieti (ai minori di 14 anni) a pulsioni interne difficili da definire, ma troppo piacevoli.

Chiudono, ed è un percorso senza ritorno. Perché diventano qualcos’altro: un megaposteggio, un supemercato, un qualche monumento alla stupidità di massa. Chiudono, si dice e si sostiene, perché uccisi dal DVD, da Internet, da SKY, dalle multisale, dai cellulari e da altri nuovi media. Come se una visione inscatolata e ridotta di centesimi in scala possa essere in grado di sostituirsi alla totalizzante immersione nelle immagini giganti dentro la sala buia. Certo che non lo è, ma i cinema però muoiono.
Esiste qualche altra spiegazione che non sia aria fritta? Forse, almeno una che nuota in direzione della psicologia del profondo la si può azzardare. Persino io negli ultimi tempi mi sono astenuto in più occasioni dal concedermi prime allettanti visioni, ripromettendomi di recuperarle dopo un mese o quaranta giorni in DVD. Persino io ho frequentato meno del solito i cinema cittadini. Perché? La risposta è imbarazzante: perché, per quanta crisi si riscontri, nei cinema c’è la gente.
Gente che non si sopporta a vicenda, gente che esce di casa e affronta il proprio tempo libero come se si andasse in trincea, gente cui non frega più nulla di quel che avviene sullo schermo, gente che ha perso il senso della ritualità collettiva del consumo filmico, gente che non possiede più la coscienza di appartenere, gente che spara a raffica 200 parole al minuto e si racconta gli affaracci propri, gente che compra un biglietto per un film convinta che sia una qualche forma alternativa di happy hour. E non parliamo dei ragazzi, kinghianamente cellulati, che s’immergono nel buio di un cinema per dedicarsi a messaggini e iPOD: altra storia, anche se molte dinamiche comportamentali coincidono.
Il risultato, amaro, è che spesso mi sono trovato in questi minuscoli localini da multiplex – comunque gremiti causa le ridotte dimensioni – circondato da persone cui non fregava proprio nulla di quel che lo schermo faceva trapelare. Erano lì per passare due ore, perché non avevano probabilmente alternativa a quell’impasse tristemente provinciale che li costringeva alla visione di un film, per loro, di nessuna importanza. Alla lunga una congerie di simili atteggiamenti, se diventano di massa, vanno ad assumere un loro peso specifico. Non si entra in eterno dentro un cinema senza una motivazione. Dopo un po’ si smette.
E sì che Bassavilla (Alessandria) è una delle capitali italiche della critica cinematografica. Con il Premio Ferrero, con il festival Ring, con la casa editrice Falsopiano e la natalità di illustri studiosi. Tanto schieramento militante, a quanto pare, non serve per evitare la chiusura di un cinema.
E la critica, pure lei, non sta molto in salute, con riviste che hanno le loro grane e altre che hanno scelto, chissà se sbagliando o meno, di diventare dei colorati tabloid per adolescenti, opportunamente depurati da ogni tentativo di approfondimento. Ma questa è un’altra storia, non divaghiamo. Il cuore della mia, che forse spiega in parte questa morte collettiva del cinema, è un cuore ballardiano, identificando in Ballard, Bradbury e pochi altri di tempi non sospetti (anni Cinquanta e Sessanta) in grado di prevedere in forma letteraria gli sconquassi della psiche e la contagiosa apocalisse neuronale che stanno caratterizzando questi strani anni (qualcuno dice gli ultimi prima dell’altrettanto prevista apocalisse del 2012…) in Italia e nel resto del mondo.
Ballard, da Crash a Condominium. Soprattutto quest’ultimo, che spiega meglio di tanti “Porta a Porta” gli episodi di furia omicida all’apparenza inesplicabili (ma l’apparenza inganna) accaduti a Erba o a Riccione. Lo ricordate, o l’avete mai letto, Condominium?
Titolo (azzeccatissimo) in italiano di High-Rise, il romanzo, ambientato in un nuovo grattacielo costruito in una zona residenziale di Londra, racconta come per un episodio banale si scateni pian piano una guerra tra condomini che regrediscono sia nei comportamenti che nello stile di vita alla condizione degli uomini primitivi.
Tale mostruoso grattacielo sembra offrire ai condomini tutte le comodità della vita moderna: piscine, una scuola, un supermercato, ascensori ad alta velocità. Allo stesso tempo per l’edificio sembra essere stato progettato per isolare gli occupanti dal mondo esterno, offrendo loro la possibilità di creare un microcosmo a parte.
La vita, in quel manicomio progettato a tavolino, inizia a degenerare rapidamente. Piccoli blackout e dissidi tra vicini si susseguono in una rapida escalation fino a trasformarsi in un’orgia di violenza. Gli abitanti del palazzo si dividono presto in tre gruppi sociali, caratteristici dell’età contemporanea (soprattutto qui, oggi, in Italia): classe lavoratrice, classe media e classe ricca. I divari di classe rispecchiano il piano a cui vivono i condomini: la classe ricca abita nei lussuosi appartamenti agli ultimi piani, la classe media ai piani intermedi e la classe povera ai piani inferiori (1). Presto battaglie sono combattute in tutto il palazzo. Gli abitanti cercano di occupare gli ascensori e le piscine. Gli abitanti smettono di uscire dal palazzo per andare a lavorare e diventano realmente un mondo a parte dedito alla estrema violenza.
Visionario (allora)? Macché. Se poi vado a constatare che la mia copia di Condominium sta in uno storico “Urania Millemondi” in buona compagnia di Deserto d’acqua e Vento dal nulla (il primo, vedete voi, scritto nel ’63, e dedicato al surriscaldamento della superficie terrestre e al contemporaneo aumento della temperatura, e il secondo – degli stessi anni – imperniato su una planetaria catastrofe di vento che assomiglia specularmente all’appena passato ciclone Kyrill), avrei di che strizzarmi le pudende. No, il fatto è che tutto quanto stiamo vivendo, come ingenui e inermi spettatori, è già stato ampiamente presagito da una magnifica coalizione di cervelli con le antenne puntate verso il futuro e (allora) classificato come “fantascienza”. Una conseguenza, di quelle tremende, ci sarebbe da trarne: oggi di fantascienza escatologica non se ne scrive quasi più e al massimo si continua a vivere di rendita su intuizioni alla Ballard. E’ perché quelle antenne là sono state spente? Secondo me no: continuano, in piccola percentuale, a rimanere accese. Purtroppo non si capta più niente. L’immediato futuro non manda più immagini ai grandi visionari della letteratura.
Tornando al cinema e alla sua fine come rituale di massa, chi ha buona memoria sa che scrittori tipo Bradbury, Matheson o Sheckley hanno sempre insistito con rara comunione d’intenti sui pericoli concreti di un feticistico culto della visione, relegato tra le mura domestiche, primo atto in divenire della chiusura delle grandi sale tradizionali.
Attenzione, prima di dire banalmente che quelli erano scrittori e le lore erano “storie”: vi ho appena fatto l’esempio di un certo James Ballard… E, se posso insistere a questo proposito, non ritengo affatto un caso – anzi, presumo sia un meraviglioso effetto di sincronicità – che le più rabbrividenti, realistiche, intuizioni di Ballard si siano sviluppate negli stessi anni in cui un altro James, cognome Lovelock, formulava la nota teoria di Gaia, secondo la quale la Terra sarebbe un unico macro-organismo, nei confronti del quale la specie umana opera in senso reversibile, in grado cioé di determinare e il proprio stato di salute e quello più generale del pianeta: “a prescindere dall’esigenza di dimostrare che ciò corrisponda al vero, si tratta di una lettura dotata di coerenza intrinseca, ovvero come il proliferare delle cellule malate rappresenta l’espressione finale di un processo complesso e articolato, così le attuali condizioni di degrado ambientale potrebbero essere interpretate come una reazione psicosomatica di Gaia” (Franco Zavagno).
Fantascienza? Una Terra (Gaia) ammalata di visioni perturbate, metastasi pulsionali di morte – giro di boa, l’apocalisse mediatica dell’11 settembre – che attraversano e contagiano l’Infosfera, fuoriuscendo dai tubi catodici come le gibbose mostruosità di Richard Matheson (Su dai canali) e invadono la psiche collettiva. E che sono l’invisibile contraltare dello sfascio ecologico in atto.
E’ fantascienza? O non piuttosto la realtà (realtà?) in atto, quella di cui si legge sui giornali di tutti i giorni e che purtroppo – purtroppo per quelli che ne restano fascinati – si vede in TV? Se gli psichiatri in Italia si stanno interrogando sui nuovi “confini” di definizione posti dall’episodio craveniano di Erba, un evento in cui la mente ctonia ha preso il sopravvento in una coppia di personalità analoghe e più che psicolabili, gli scrittori allineano le coincidenze e notano l’inquietante simmetria dei disastri della psiche e di quelli ambientali. La riformulazione della visione, da collettiva a privata, da santuario esorcistico a confessionale dei “folli”, è uno straordinario, inquietante, fil rouge che attraversa queste ipotesi.
Da quei manicomi di acciaio di pietra, i “condominia”, può accadere che decine di abitanti della 52° strada si sporgano per un attimo alla finestra per osservare nei minimi dettagli un lunghissimo e terribile omicidio perpetrato da un serial killer metropolitano, e poi tornino subito a prostrarsi davanti allo schermo TV, rapiti dall’ultimo reality show. E’ accaduto veramente pochi anni fa e succedeva ne Il guaito dei cani battuti di Harlan Ellison (scritto alla fine degli anni Settanta), ma quel che più colpisce è che in quel quartiere lì non esiste più un cinema da tempo.
Negli appartamenti, chiusi dall’interno a doppia mandata, adesso c’è SKY, il lettore DVD o DIVX, uno schermo sempre acceso e “dalla bocca sempre aperta”.
Invce fuori, al di là delle porte, c’è chi uccide. Cellulati kinghiani o netturbini brianzoli, ma siamo noi.

(1) Sul tema, mi permetto di interferire col testo di Danilo e di suggerire la lettura, o la rilettura, di un romanzo di Émile Zola, Pot-bouille (tradotto in italiano come Dietro la facciata, oppure Quel che bolle in pentola). Magistrale descrizione di come un condominio si organizzi, da un piano all’altro, secondo criteri di classe, fino a diventare specchio di tutta una società. Uno dei romanzi più riusciti di Zola, assieme al suo “seguito”, Au bonheur des dames (Al paradiso delle signore). (V.E.)