Frank's Wild Yearsdi Claudio Coletta

[Ha stimolato molte reazioni e discussioni l’intenso ragionare sulla popular culture che ha preso forma negli ultimi tre-quattro mesi tra carmilla, wumingfoundation e lipperatura (vedi la parziale linkografia in calce a questo post). Il recente “trittico sul pop”, nel quale Wu Ming 1 e Wu Ming 2 cercavano di trarre indicazioni concrete su fandom, mito contemporaneo e narrazioni transmediali, ha aperto un vaso di Pandora di commenti. Idem lo speciale a cura di Vittore Baroni “Che fine ha fatto la controcultura?”, apparso sulla rivista Rumore e in parte ripreso su Carmilla. Tra i testi pervenuti ai vari autori, spicca questo di Claudio Coletta, che ha il merito di affrontare la questione da un punto di vista inatteso. E’ l’imprevedibilità delle uova di Colombo, le cose ovvie a cui nessuno pensa finché non vengono segnalate in modo plateale o vi si inciampa per caso).]

La vostra serie di contributi sulla cultura popolare e il creare nuovi mondi, la discussione su Lipperatura a proposito di Sanguineti, il Romanzo e The Prestige, i “De Rerum Natura” di Girolamo de Michele su Carmilla… tutto ciò ha prodotto in me strani cortocircuiti tra storia personale, studi, passioni, inquietudini. Mi rendo conto che è venuto fuori qualcosa di ingestibile per la lettura, ma vorrei condividerlo ugualmente con voi, e guardare alla cultura popolare dalla parte della provincia.
C’è una terra di nessuno che sta in mezzo ai posti in cui succedono le cose, che è fatta di tutto quello che sta sotto la botola dell’illusionista, quella di di cui il pubblico non si cura, perché non brama che il prestigio. E infatti la provincia irrompe sempre con violenza per un prodigio tragico, un omicidio come quelli di Cogne e Erba, un terremoto, un’alluvione. Oppure affiora come ridicola messa in scena ad opera delle tv di turno che mostrano stupide-insulse-assurde tradizioni popolari, macchiette per divertire lo sguardo annoiato dell’uomo metropolitano, o per dare al nativo di provincia un’occasione per rispecchiarsi.

Insomma, sia che la provincia appaia come “provincia di qualcos’altro” che scorre veloce da casello a casello, o come la provincia chiusa che mette i brividi, o ancora come la provincia taaanto ospitale ‘ndò se magna bbene, queste considerazioni tradiscono sempre l’antico vizio coloniale, e il discorso sulla provincia chiama inevitabilmente in causa quello sulla modernità.
Ecco dunque che la provincia diventa la tabula rasa da cementificare a piacimento, oppure il territorio barbaro da addomesticare, o ancora — e magari ci scappa pure la lacrimuccia — l’ultima traccia di un’innocenza e di un’autenticità ormai perdute per sempre.

Benvenuti in provinciaMa neanche la provincia è mai stata innocente. Ha sfruttato l’alibi della vittima, e dichiarandosi sconfitta in partenza non ha avuto che da perdere. Questa rinuncia l’ha resa tutt’uno col suo carnefice, e se possibile ancora più vorace e sacrificata alla sua causa. Basta leggere una pagina qualsiasi dalla gomorra di Roberto Saviano o dai cupi nordest di Massimo Carlotto per avvertirne il ringhio famelico dietro le spalle: sembra che la provincia non desideri altro che affermarsi per diventare ad ogni costo centro di qualcosa, qualsiasi cosa, fosse anche il cortile davanti casa. E non sono soltanto cose che avvengono al di fuori delle città: lì la chiamano periferia, ma esiste una provincia dentro le stesse metropoli. Anzi, la metropoli ne è intrisa, e per quanto si tenti di smaltire le tracce e gli attriti di innumerevoli migrazioni, per quanto si vogliano cancellare i residui umani e materiali della gentrificazione, questi si ridepositano nel tessuto urbano sotto forme imprevedibili.
Si può tentare un ragionamento diverso, mettersi dalla parte della provincia. Scoperchiare la botola incastrata tra l’arroganza fredda della modernizzazione e il vittimismo bieco del provincialismo, e guardare all’universo del rimosso che c’è sotto, e che nonostante questo continua la sua opera. Forse è vero che la provincia ci parla di qualcosa che è andato perduto. Ma è altrettanto vero che quel qualcosa sta lì, rimane a disposizione, ed è straordinariamente ricco, vivo. E’ da questo repertorio che gran parte della cultura popolare ha attinto e ancora attinge recuperando, riassemblando, costruendo col sapere dell’artigiano, del cantastorie e del viandante. E d’altra parte è alla cultura popolare che la provincia deve le sue modalità di esistenza più nobili: non più un oggetto meramente geografico e inerte, ma un flusso carico di immaginario e di pratica quotidiana che attraversa la storia, come insegna l’opera di Carlo Ginzburg.

Quella tra provincia e cultura popolare è una corrispondenza preziosa e complessa, soprattutto oggi che i materiali che la provincia mette a disposizione sono aumentati a dismisura. Perché mentre la cultura popolare crea recupera e riassembla, la scienza scopre, la tecnica inventa, l’industria produce, la massa consuma. La velocità con cui queste attività si sono mescolate, moltiplicate, riversate e accumulate nel territorio si è accompagnata alla razionalizzazione delle pratiche e all’omologazione delle differenze, come se la provincia fosse un grande franchising della macchina moderna. E allora giù con parchi a tema, ipermercati e capannoni, giù a edificare ogni sorta di cimiteri sociali, ricettacoli del qualunquismo e dell’arrivismo. Laddove poi questo processo di riduzione e assorbimento non è stato possibile, perché non era conveniente o perché andava bene così, le qualità distintive della provincia sono state brutalizzate e derise, restituendone un’immagine dislessica, goffa, inadeguata, dalla natura ostile o ingenua a seconda del bisogno — proprio come nella disputa tra Las Casas e Sepùlveda raccontata da Girolamo De Michele, solo che qui il selvaggio è casa nostra, il “moderno occidente”.

Ma rispetto a cosa questa provincia è selvaggia, inadeguata, fuori dal giro?

Forse questi tratti che caratterizzano l’immaginario moderno della provincia possono essere rimodulati. Perché attraverso la goffaggine, il rancore, il sentimento di rivalsa la provincia ci parla di pratiche fondamentali che anche la cultura popolare ha fatto proprie: la resistenza, la recalcitranza. Sono pratiche che fungono da antidoti contro le derive imperialiste della modernità e rivendicano un’esigenza di biodiversità dei modi di essere e di fare. La cultura popolare può allora ascoltarle, dargli voce, inventare un nuovo linguaggio per tradurle e riformularne le istanze.

C’è un gruppo di studiosi di lingua francese che orbitano attorno a recalcitrance.com (in particolare Bruno Latour e Isabelle Stengers) e da un trentennio lavorano sulla resistenza all’egemonia tecnoscientifica. secondo uno spirito pragmatico, che prende le distanze dalla critica sterile, dal relativismo, dal tradizionalismo senza per questo essere meno impegnato, meno attento al valore della relazione, meno cauto di fronte alle magnifiche sorti sociali, tecnologiche e scientifiche. L’approccio è di tipo ecologico e politico, ma di un’ecologia che non riguarda propriamente la natura e di una politica che non nasce dalla volontà degli esseri umani. Piuttosto, l’ecologia si rivolge alla coesistenza tra le entità che compongono il cosmo e alla loro capacità di accoglienza, mentre la politica riguarda l’opera di traduzione necessaria ad articolare i passaggi e le relazioni tra le entità che ne fanno parte o vorrebbero farne parte. In altre parole, queste “cosmopolitiche” o “politiche della natura” intendono prendersi cura di tutto ciò che sembra piombarci addosso come un dato di fatto, ma la cui fattura è sempre incerta, controversa, tutt’altro che scontata. Così è la questione del nucleare, delle cellule staminali, degli ogm, dell’aviaria, della proprietà intellettuale, dell’innovazione, di tutte le cose che vengono confezionate sotto forma di ‘impatto’ (tecnologico, sociale o ambientale) e che si fondano su una spregiudicata opera di rimozione degli interessi collettivi, e si presentano con l’arroganza unilaterale dei fatti duri e puri.

Trovo estremamente interessante mettere in relazione questo filone con quello della cultura popolare e con le modalità di esistenza della provincia. Questi studi ci dicono che la nozione di impatto è fuorviante, perché un qualsiasi “fatto” significa che una cosa è al tempo stesso fabbricata e dotata di esistenza autonoma, non viene cioè dall’iperuranio, ma è il frutto dei suoi passaggi terreni e ciò impone azioni responsabili rispetto alla sua sostenibilità.

Il punto non è tanto come dice Steven Johnson che “tutto quello che fa male fa bene”, quanto che “tutto quello che è fatto, è fatto di qualcosa. E fa fare qualcos’altro“: la sua bontà o nocività – la sua azione nel mondo – è il frutto dell’incontro con quello che già c’è, e che a sua volta si trasforma accogliendolo. Perciò occorre tenere traccia dei passaggi che portano all’invenzione di una nuova tecnologia e alla sua circolazione nel mercato: ogni passaggio ha il prezzo delle possibilità che esclude perché queste continuano ad incombere nel presente: la loro traccia permette di rendere il percorso di costruzione delle cose reversibile, e di tornare al punto in cui quel passaggio poteva suggerire ulteriori possibilità che possono tornare utili in certe circostanze. Per farla breve quest’approccio fornisce alla cultura popolare strumenti per disinventare le cose che si impongono come dati di fatto o come miti ineluttabili, per poi ricomporle in termini più adegutati alla circostanza.

E’ in questo senso che la provincia racconta della fatica del cambiamento, del prezzo dei passaggi da uno spazio all’altro, da un tempo all’altro, da un corpo all’altro. Lo sa bene chi dalla provincia è più o meno costretto a mettersi in viaggio allontanandosi da persone care, ma anche chi sceglie di restare e vede cambiare e sparire tutto quello che gli sta attorno. Lo sa bene chi ci capita venendo da altre province, più lontane. La provincia è il tessuto lacerato che tiene insieme tutte queste tracce di passaggi i quali richiedono cura e lentezza quando tutto sembra raggiungibile con un doppio click e tutto sembra intercambiabile: le relazioni, il lavoro, la vita. Questo precariato dell’esistente si regge sul perdurare del cambiamento veloce, su un’obsolescenza programmata degli oggetti e degli affetti, su una corsa a banda larga patologicamente ansiosa di novità esotiche che elude elude elude.

La provincia ha subito tutto questo a denti stretti: a volte l’adsl neanche ci arriva, le biblioteche sono poco fornite, mancano occasioni d’incontro, mancano cinema, musica, teatri, ferrovie, trasporti… talvolta invece tutto viene fuori senza che nessuno possa aprir bocca, in modo più o meno sottile, che si tratti di alta velocità o altre grandi opere. C’è un proliferare di industrie manufatturiere attigue a case coloniche, lavori in nero, immigrati pseudoregolarizzati e mercificati, caporalato, anziani a pensione minima, attività import-export e conto terzi, padroncini, megaindustrie, microsfruttamenti mascherati da lavori flessibili, stages non retribuiti, centri commerciali, manieri medievali per festeggiamenti vip, aree dismesse, raccordi autostradali, aeroporti, strade sterrate, trattori e fuoriserie, camion, asfalto, cemento… A guardare tutto insieme, sembra che il mondo sia impazzito e che la provincia assomigli sempre più al ritratto di Dorian Gray della società moderna.

Ma è troppo facile parlare di non-luoghi come fa Marc Augé. L’assenza di identità e la narcosi postmoderne sono tali soltanto se si pensa che un centro commerciale o una zona industraile vengano da un altro pianeta, dando per scontata la velocità e l’inesorabilità del cambiamento e dell’accumulazione, trascurando il percorso che li ha resi possibili. E soprattutto dando per scontata l’incapacità di reagire. Un film come The Terminal mostra invece che persino in un luogo asettico come un aeroporto c’è la possibilità di appropriarsi degli spazi, di renderli significativi, resistenti. In altre parole, le argomentazioni figlie dei non luoghi cadono appieno nel trucco moderno, e non portano altro che ad una sterile e disincantata contemplazione. E il trucco moderno è quello di far passare l’accelerazione con cui si edificano questi macchinari come se fossero emblemi di svolte epocali dalle quali non si torna più indietro. L’altro trucco, altrettanto necessario, è quello di rimuovere altrove gli innumerevoli residui che le imprese moderne lasciano dietro di sé, allo stesso modo in cui si smaltiscono i rifuiti tossici in Africa o in Cina.

Bartleby lo scrivanoIl bello è che la sensibilità che permette di smascherare il trucco non è propria di pochi eletti, o degli eroi classici, ma è quella delle ‘persone senza qualità’. Così Isabelle Stengers recupera la figura dello scrivano Bartleby e, attraverso Deleuze, quella dell’Idiota: l’assurda recalcitranza dei due personaggi impone a chi ha a che fare con loro una rottura del dato per scontato, un rallentamento per riflettere sulla possibile arroganza e trascuratezza degli automatismi, e chiedersi quale piega possono prendere altrimenti le cose. La provincia brulica di questi personaggi carichi di un’affettività irrisolta ed esitante che si manifesta spesso con imbarazzo, impaccio, tamarraggine di fronte al mutamento e alle novità. In realtà si tratta di un’affettività che lavora per ritemporalizzare il ritmo della corsa modernizzatrice, e che si cura di ciò che viene inopinatamente scartato, per ricomporre i tessuti.

Questi rallentamenti provocati dalle pratiche recalcitranti mettono in discussione la sostenibilità ecologica (in senso lato) del regime moderno. Perché viene da pensare che è proprio la modernità ad essere il ritratto che invecchia e impazzisce, la brutta copia di questo processo di rimozione che contiene universi di possibilità ancora da sperimentare. Insomma, il grande gioco di prestigio del regime moderno che è l’illusione del controllo, del piano, del progresso, della freccia del tempo che segue una traiettoria di sviluppo lineare, alla fine crolla sotto il peso di tutti gli ‘effetti collaterali’ che ha prodotto, proprio perché non è stato capace di prendersi la briga di stabilire un linguaggio comune per incontrare i diretti interessati. Perché li ha snobbati considerandoli esseri inutili, stupidi, che prima o poi si sarebbero adattati. Ma la vita non è adattamento, e la provincia rimane testimone vivente del rimosso. Testimone schiva, inascoltata, messa a tacere, imbarazzata. Ma viva. Viva, perché si scopre che ogni provincia aveva una sua voce, diversamente silenziosa. E perché quel crollo non è un crollo, non lascia dietro di sé rovina e disincanto, ma ci restituisce il rimosso come un orizzonte di storie possibili.

Se la cultura pop è il linguaggio che ne traduce le gesta, in forme mutevoli, occorre che anche le storie e le narrazioni che produce portino una matrice sostenibile — che si tratti di videogiochi, romanzi, scoperte scientifiche, tecnologie, edifici, leggi — sia dal punto di vista di chi le fa, sia da quello di chi ne fruisce. Dico cose già dette e fatte da voi, ma è che quando parlate della moltiplicazione attraverso la rete, io mi interrogo sulla sua resistenza, sulla sostenibilità e durabilità delle sue connessioni, sul mantenimento delle differenze tra i nodi. Perché la rete si proponga come narrazione plausibile e possibile, come nuovo mondo, occorre che sia ben articolata, modulabile, riscrivibile …e cioè deve assomigliare al racconto di una storia, una storia che tiene, che può ospitarne e suggerirne di altre, e non è che tutte le reti siano articolate in forma di racconti o che la loro moltiplicazione faciliti automaticamente l’opera. In sostanza credo sia il lavoro di articolazione dei materiali e dei passaggi che fa la rete e crea nuovi mondi.

Riprendo le vostre parole:

Se dunque noi narratori vogliamo produrre una cultura viva, dobbiamo capire questa sensibilità e incentivare scambi e interazioni. Che fare?
La prima indicazione l’abbiamo appena trovata: cambiare i contesti. Far uscire le storie dai libri, trasformarle in fumetto, cortometraggio, pagina web, lettura, concerto rock, videogioco. La tavolozza del cantastorie non è mai stata così piena di colori, perché continuare a usarne soltanto uno?”
La seconda indicazione non può che essere: creare mondi, come dicevamo nel secondo articolo di questa serie.

Quello che voi dite ha una portata dirompente, e al tempo stesso lieve, giocosa. E il discorso può estendersi, tanto che far uscire le storie dai libri per farle vivere nella cultura popolare significa anche entrare in simbiosi con modalità tipiche della modernità, non solo in termini strettamente mediatici e linguistici, ma anche contaminando la produzione industriale e tecnoscientifica. Anche la tecnoscienza può diventare pop, praticabile, e non per questo uscirne sminuita.

Qui si tratta di considerare sia i colori, sia il materiale di cui è fatta la tavolozza. Qui l’impresa della mitopoiesi si fonde con quella della cosmopoiesi: analogamente a quanto accade col software libero e open source che riterritorializzano il software proprietario, così è possibile scrivere città, molecole, tecnologie, fabbriche, coltivazioni, allevamenti cellule e quant’altro in modo simile a come si fanno racconti e narrazioni. Narrazioni sostenibili, appunto. Narrazioni materiali. Anche perché la dimensione storica e materiale delle cose è comune al modo in cui crescono e si formano le persone, a quello in cui sono fabbricati gli oggetti e avvengono le scoperte scientifiche, e naturalmente è il brodo primordiale delle narrazioni e dei racconti. La bellezza e la capacità generativa – la bontà! Si può dire? – di queste narrazioni è il frutto di uno sporco, complesso bricolage tutt’altro che lineare, che riguarda molte mani, molti attrezzi, molte componenti, molte aggiunte da parte di chi crea e da chi ne fruisce.

Ecco, alla fine mi chiedo se la ricchezza della provincia può veramente essere disseppellita e praticata come in una versione light di Asce di Guerra del quotidiano, non per questo meno pregnante. Mi chiedo se può essere cantata e resa in modo non (solo) tragicomico, o drammatico, non necessariamente noir, o almeno non di quel noir facile e fine a se stesso. Mi chiedo se la provincia può veramente diventare un testo materiale resistente, complesso, e al tempo stesso presentarsi con semplicità, così come ce la racconta David Lynch, a cavallo tra Twin Peaks e Una Storia Vera. Come fa Gianni Amelio con La Stella che non c’è. O come fa Raymond Carver, che dà voce e dignità a quell’anonimo brulicare senza per questo scadere nella celebrazione, nella complicità, nel rimpianto. O come fa Vinicio Capossela, che racconta la provincia rancorosa, quella che sta “Dalla Parte di Spessotto” fuori dalla grazia e fuori dal giardino, eppure carica di sacralità. Come nell’opera di Pasolini e in infinite altre.

Tom WaitsDa Petaluma, abbastanza lontano da L.A. e San Francisco, Tom Waits risponde così a Giuseppe Videtti su Repubblica, che gli domanda come scorra la sua vita in mezzo a tutto quel silenzio:

Diversa ogni giorno. È come stare sulla torre di controllo di un aeroporto: momenti di noia mortale, momenti di terrore assoluto. A volte la barca è piena di pesci, a volte sei in cerca della tua fede nuziale in fondo all’oceano, a volte il vento soffia così forte che quasi ti strappa la pelle dal viso, a volte sorseggi una limonata sul bordo della piscina. Qualche volte si fa festa, altre volte c’è carestia: in mezzo il nulla. A volte, come diciamo noi americani per dire che diluvia, piovono cani e gatti, altre volte anche tori, mucche e topi. E qualche volta la mia vita galleggia su un petalo di giglio.

Questa sì che è provincia, diocane! E cultura popolare anche. Ti entra nelle viscere, ti scombussola il corpo, ti riempie di meraviglia. La provincia è la svolta. La cultura popolare è la promessa e il prestigio. Le cosmopolitiche se ne prendono cura.

Che dire, se siete arrivati fin qui o se avete lasciato perdere prima vi sono grato comunque.
Un saluto,
Claudio

Nota biografica. Claudio Coletta è dottorando presso la scuola di dottorato in Sociologia e ricerca sociale dell’Università di Trento. Non è stato lui a dircelo.

LINKOGRAFIA SELEZIONATA

Henry Jenkins intervista Wu Ming Prima parte Seconda parte

X-Post – Lipperatura sul porno

Lipperatura su pop e avanguardia

Lipperatura su The Prestige (solo se hai già visto il film!)
N.B. Il post iniziale era su Sanguineti e le sue idee sulla forma-romanzo, ma non gliene fregava niente a nessuno.

Trittico sul pop

Che fine ha fatto la controcultura? a cura di Vittore Baroni

ALCUNI COMMENTI AL “TRITTICO”

Stephen King e la complessità della pop culture
Dal blog “Nero”, gestito da uno dei membri del gruppo di scrittura R.S. Blackswift

Intelligenza “autoreferenziale” e popular culture
Dal blog “L’isola dei lotofagi”

Il pop e la complessità. Riflessioni sulla prima puntata del “trittico”
Dal blog “Notti attiche”

Complessità della cultura e limiti del cervello umano
Dal blog di Luciano Pagano

UPDATE MARZO 2007
Il pop e la complessità: un aggiornamento
Dal blog “Notti attiche”


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