di Claudia Andretta

SantaMuerte.jpgÈ tutto nero, nella mia mente.
Nero il cielo, nera la luna.
Nero il futuro degli esseri umani.
Veloce e dolorosa come un fendente, si apre una bianca ferita in quest’oscurità di pece.
Un sorriso.
Ampio e irreale, dimostrazione obliqua di sadica gioia.
Sconcertante, gelido, agghiacciante.
E io, lungo la colonna vertebrale fino alla punta di ogni singola piuma, sento montare un brivido violento.

Si svegliò di soprassalto, spalancando di scatto gli occhi nella luce fioca di nuvole e nebbia.
Soffocò quel che rimaneva del brivido che, violento, aveva scosso il suo essere e la sua carne, svegliandola da un sonno troppo breve.
Sospirò pesantemente, richiudendo per un attimo gli occhi, come se stesse raccogliendo le forze necessarie a sopportare il proprio peso e a rimettersi in piedi.
Poi si alzò, decontraendo ogni muscolo con movimenti lenti ma pieni di grazia.
Appena fu stabilmente sulle sue gambe, con un movimento serpentino della schiena scrollò le ampie ali, le cui piume si erano stropicciate durante il sonno, e con una mano prese a lisciarsele.
La sua vista era vagamente velata, e il collo e i muscoli dell’attaccatura alare le dolevano.
Non si era ancora abituata a dormire in quel modo: poco, per i tempi che erano concessi agli Angeli del suo rango, e male.
Il suo sonno, da quando era in quel livello dei Cieli, era disturbato.
Voci, immagini e sensazioni penetravano la barriera scura e protettiva che la avvolgeva quando dormiva, squarciando la serenità e il silenzio di pietra.
Una cosa che aveva appreso solo in seguito chiamarsi incubo.
Agli Arcangeli, terzi nella linea gerarchica Celeste, era consentito dormire sono una volta ogni dieci anni, per il tempo sufficiente a riprendere le forze, e mai maggiore di un intero ciclo di rivoluzione terrestre.
Ora, invece, Shanael era obbligata a dormire più spesso, e per un tempo nettamente inferiore, tormentata da visioni che poco si avvicinavano all’immaginario di una creatura di natura divina quale lei era.
Da qualche tempo, ormai, rivestiva un ruolo quanto mai singolare per un Arcangelo, e adesso ne pagava il fio, piacevole o meno che fosse.
Un solo pensiero le dava forza per andare avanti, dopo ogni risveglio, ed esauriva all’istante il dolore ai muscoli cervicali: aveva avuto possibilità di scegliere.
Ora, prestava il braccio ad una delle grandi forze dell’Universo, la più potente e odiata delle Elementali, per sua stessa decisione.
Questo, per lei, era impagabile.
Avanzò nella foschia del mattino perenne in cui era immersa, domandandosi quanto avesse riposato, interrogando il suo corpo su quanto tempo sarebbe rimasto scattante e forte, questa volta, prima di chiederle di nuovo tregua.
Le sue ali, per grazia divina, non risentivano della stanchezza e, malgrado la sua posizione vagamente assimilabile a quella di un Angelo Caduto, potevano ancora sollevarla in volo. La loro funzionalità era tuttora perfetta, la mobilità di ogni muscolo alare invariata, e solo da risvegliare con lievi massaggi e un breve volo, in seguito a un sonno occasionale.
L’unica cosa che rendeva diverse le sue ali, adesso che era in quel dipartimento dei Cieli, erano alcune piume che, sparse a caso sull’ampiezza della sua apertura alare, si erano tinte del nero più oscuro.
All’inizio questo l’aveva sorpresa e, in parte, sconcertata. Aveva quasi temuto di essere sul punto di trasformarsi in un ibrido a metà tra un Angelo e un demone. Non aveva mai espresso questa preoccupazione, ritenendola paranoica o immotivata, poiché in tutti i lunghi secoli della sua esistenza non aveva mai sentito di un cambio di essenza di tale portata che si manifestasse solo attraverso il colore delle ali.
Ora sapeva bene a cosa imputare quella mutazione.
Finito che ebbe di lisciarsi le piume, pettinando con le dita e con le unghie, con la stessa cura e grazia di un gatto che si lecca il pelo, l’Arcangelo si ravviò i capelli dietro le spalle, accomodandosi la lunga frangia dietro un orecchio, e infine decise di avviarsi alla ricerca della sua Signora.
Sentiva, dalle sue percezioni ultraterrene e dalla densità dell’aria intorno a lei, che doveva essere vicina.
Svoltò una curva, che le ostruiva la vista sul panorama dei Cieli sovrastanti, e fu allora che la vide, da lontano.
Le dava le spalle, la figura di nero vestita, ma aveva il cappuccio abbassato, e i biondi capelli lisci le ricadevano sulle spalle, cozzando con il colore delle vesti.
Shanael non sapeva cosa stesse guardando la Nera Dama: aveva solo l’impressione che osservasse i Cieli, a grande distanza, che vedesse qualcosa che ai semidivini non era concesso vedere. Per quanto fosse di spalle, sembrava che i suoi occhi vagassero lontano, persi tra i meandri dello spazio e del tempo.
Timorosa di disturbare un momento di importante raccoglimento con la sua presenza e con le sue parole, l’Angelo rimase in disparte, appoggiata quasi impalpabilmente ad un ammasso di bruma bianca come una nuvola e soffice come ovatta.
Vieni avanti, Shanael.
L’Arcangelo sussultò impercettibilmente, al sentire il suo nome: era quasi come se la voce avesse parlato nella sua testa.
Poi, gradualmente, le sue labbra rosate s’incresparono in un mezzo sorriso.
Faceva parte della natura stessa di colei che adesso serviva, il percepire così vividamente ogni sorta di forma di vita.
Poco importava che essa fosse umana, divina o semidivina.
Come da invito, Shanael avanzò, accostandosi lentamente alla figura ammantata di nero con un debole scalpiccio di passi.
– Madonna. – la salutò, chinando leggermente il capo e abbassando lo sguardo, il tono deferente di un subordinato, che tuttavia conteneva rispetto per colei al quale era rivolto.
Avanzò ancora verso la figura della Signora, che ancora le prestava la schiena, mentre nella sua mente ponderava i suoi pensieri e decideva se parlare.
La voce tagliente della Nera Dama trafisse il silenzio dei suoi pensieri, precedendo le sue parole.
– Cosa ti turba, Angelo?
Questa volta Shanael non sussultò, e tuttavia non parlò subito. Si prese il tempo di portarsi la lunga chioma castana su di una spalla e di accarezzare una piuma scura sull’ala sinistra.
Infine disse: – Credo, Madonna, di aver avuto un nuovo incubo.
La sua voce uscì ferma, malgrado al risveglio si fosse sentita turbata in una maniera nuova e quasi sconcertante.
Ora, al contrario, si sentiva tranquilla.
Quello che la sorprese, invece, fu rendersi conto che probabilmente doveva aver attirato l’attenzione della Nera Dama, con la sua affermazione, perché lei in quel momento si voltò, portandosi il frusciante mantello dietro una spalla con un gesto del braccio ampio e plateale.
– Un incubo…? – chiese, il tono della voce basso e sibilante.
I suoi grandi occhi di ghiaccio si piantarono come stalattiti in quelli di Shanael.
La domanda rimase sospesa per lunghi istanti, prima che la Dama aggiungesse:
– O una visione?
E calcò le sue parole stringendo gli occhi, fino a ridurli a due fessure feline, rilucenti di azzurro vitreo. L’alone di un sorriso perversamente benevolo aleggiava sulle sue labbra.
Shanael resse il suo sguardo, pensosa.
Già altre volte, da quando era con lei, le era capitato di avere delle strane visioni, che invadevano il suo campo visivo in momenti di raro riposo della mente o di saltuaria distrazione.
Visioni di morte, per lo più, e di nebbia, e di un bastone che sferzava l’aria, elargendo la fine e la pace dei sensi.
Mai, tuttavia, le era capitato di vedere sorrisi di ceramica squarciare il nero di pece del suo sonno.
Non una visione, né un incubo l’avevano mai inquietata così profondamente.
Tuttavia il tono della domanda che la Nera Dama le aveva posto era stato più che eloquente. E, semmai non fosse bastato quello, allora sarebbe stato sufficiente il sorriso quasi da mentore che ora deturpava la serietà glaciale del viso di lei.
La Nera Signora aveva appena portato via un’altra vita.
Non solo: questa volta si era lasciata andare a un moto di gioia crudele.
Qualunque essere umano avrebbe giudicato un atto di sadismo e, in parte, di follia, il sorridere per la morte di qualcuno.
Shanael lo sapeva.
Aveva tuttavia imparato anche che, nei rari slanci emozionali cui la sua Signora si lasciava andare, non erano che l’espressione del sentimento che, qualche volta, il suo lavoro le procurava.
Ognuno ha diritto di essere contento del proprio lavoro, si disse Shanael, mentre incrociava le braccia sul petto e lasciava sorgere sulle labbra un sorriso in risposta a quello vago della Dama.
Anche una creatura semidivina come me, pensò. Anche gli Elementali, come lei.
– Perché siete andata senza di me, Madonna?
Nonostante il sorriso cameratesco, e malgrado la comprensione per il moto di gioia della Nera Dama che mieteva la sua ultima vittima, Shanael non poté fare a meno di porle quella domanda.
Non che si trattasse di una questione di mero senso del dovere – non solo di quello, almeno.
Si lisciò distrattamente una piuma, mentre cercava di districare i suoi pensieri e insieme attendeva la risposta.
In quell’istante, una punta di vermiglia crudeltà baluginò sulle labbra della Dama, per poi subito sparire.
Pareva, quasi, che non avesse intenzione di prendersi gioco dell’Arcangelo.
– Non sono andata, Angelo. – dichiarò, asciutta, lo sguardo di nuovo impenetrabile.
E forse dovette soffocare l’insorgere di un nuovo sorriso, quando vide gli occhi di Shanael dilatarsi lievemente in un moto di stupore.
– Dovresti ormai sapere che non mi è necessario muovermi fisicamente, per prendere le mie anime.
– È vero. – ammise Shanael, – Dovrei saperlo. – Di nuovo il suo usuale mezzo sorriso le disegnò le labbra.
– Avvicinati – le disse la Dama, seccamente, porgendo una mano lunga e pallida nella direzione di Shanael.
Lei si avvicinò, improvvisamente a disagio.
Quando fu al fianco di Madonna Morte, Shanael si rese conto di essere sul bordo di un precipizio sui Cieli, estremamente in alto; e che davanti a lei, così vicino da poter essere sfiorata con le dita, se solo avesse allungato un poco la mano, si muovevano tra brezze invisibili i fogli di un’aurora boreale.
– Questi – fece Madonna Morte, sfiorando con la mano candida e affusolata uno dei fogli – sono i Veli del Tempo, che io posso sfogliare a mio piacimento.
Tacque, e girò il volto a fissare l’Arcangelo negli occhi, il velo del tempo che aveva sfiorato poco prima ancora trattenuto fra le dita.
– È attraverso essi che io posso essere ovunque e da nessuna parte un istante e quello immediatamente seguente.
Il suo sguardo era imperturbabile, ed emanava tutto il riflesso dell’immenso potere che stringeva nelle mani.
– E’ questo che la rende ubiquitaria, mia Signora… – mormorò Shanael, quasi soprappensiero.
– Sì, Arcangelo: è esatto – rispose l’altra con voce sibilante. – Questa è la fonte della mia ubiquità.
Di nuovo senza tradire preavviso, la Dama si voltò, lo sguardo perso nel bianco iridescente dei fogli che oscillavano dolcemente, trasportati da venti arcani.
– Tuttavia, da quando sei al mio fianco, vado più spesso a trovare di persona molti di coloro che porto con me.
Shanael si limitò ad annuire, pacata, celando un moto d’orgoglio interiore.
– Oggi – fece la Dama, sfiorando con le punte delle dita lunghe e sottili tre Veli del Tempo, come se strimpellasse un’arpa – ho scelto un’altra persona cui andremo a far visita, io e te.
A quelle parole, un brivido percorse la schiena dell’Angelo, propagandosi come un domino irrefrenabile in ogni frammento delle sue vertebre, fino all’estremità di ogni singola piuma delle sue ali folte.
Un brivido nuovo, eppure noto, che sapeva di soddisfazione e di gioia.
Che non le gelò le ossa, strisciando sotto la superficie della sua pelle, ma piuttosto le scaldò lo spirito.
Quando tornò presente a se stessa e riportò lo sguardo ai Veli del Tempo, vide un giovane volto fluttuare tra essi, come un riflesso sulla superficie di un ruscello d’acqua limpidissima.
Un volto di donna, pallido e segnato, incorniciato da sottili capelli chiari.
Con la coda dell’occhio, Shanael vide la Nera Signora raccogliere con gesti lenti il cappuccio del suo lungo mantello color della pece, e calarselo sul volto, nascondendo alla vista la sua espressione.
In quell’istante, con un tremolio innaturalmente circoscritto, Shanael sentì una nuova piuma tingersi di nero.
La donna dell’immagine giaceva riversa in un letto, immobile, i capelli sparsi su di un candido cuscino.
Dalla bocca le usciva un lungo tubo di plastica trasparente.

******

Apro gli occhi, lentamente.
Sento le palpebre pesanti: il mio riposo deve essere durato poco. O forse troppo a lungo: non saprei dirlo.
Ma in fondo, che importanza ha lo scorrere del tempo per chi, come me, non ne usufruisce né trae da esso alcun giovamento?
Ogni attimo della mia vita è identico a quello successivo come a quello immediatamente precedente.
Stesa in un letto, incatenata a esso dal mio stesso peso.
Collegata ad un respiratore, per poter ricevere ossigeno.
Per poter esistere.
Non c’è nulla di vitale in me, nulla di mobile, di indipendente, di vibrante.
Solo i miei occhi, che riescono ancora ad abituarsi alla luce del sole d’inverno, che filtra chiara dalle fessure nella veneziana, e a seguire i movimenti vorticosi del pulviscolo di polveri che si solleva nell’aria di questa stanza, che dovrebbe essere praticamente sterile.
E la mia mente, che è ancora lucida, pensante. Viva.
In qualche modo mi odio, per questo. Avrei preferito essere incosciente, dormiente e inconsapevole della mia condizione. In coma, dove la mente si assenta e si spegne lentamente attraverso un’agonia impalpabile.
Lo avrei preferito davvero, all’inizio.
Ora, preferirei essere morta.
Non conto più le volte in cui ho richiesto l’aiuto e la misericordia di lei, in preghiere silenziose che la mia bocca non può articolare, e che tuttavia credevo le giungessero comunque.
Ora non ne sono più neanche certa.
Nei miei pensieri, nella mia mente, nelle mie fantasie, nei miei pensieri più reconditi, le ho dato mille volti, mille nomi, mille appellativi differenti.
L’ho invocata in tutte le lingue che conosco, ho dato fondo a tutta la lucidità di una mente tormentata dal dolore e dall’immobilità.
Lei non è mai giunta.
Spossata ancora una volta dalla portata del mio desiderio inascoltato, chiudo gli occhi.
Istanti scorrono sulle curve del mio corpo, sulla mia pelle, come l’acqua con la quale vengo lavata, ogni due giorni.
Lenti, glaciali. Implacabili.
Riapro gli occhi.
Mi chiedo se improvvisamente anche la mia vista, da questo momento, non stia iniziando a dare segni di cedimento e mal funzionamento.
Perché di fronte a me, lì dove c’è il muro bianco della mia camera – della mia prigione, mi sembra che d’improvviso si sia formata una nebbia bianca e stopposa, di quelle che si vedono molto presto, nelle grandi città in pieno inverno.
Getto uno sguardo verso la mia finestra: è chiusa, e la veneziana è, come prima, abbassata per i due terzi. La luce che entra a illuminare la stanza è quella fievole e diafana delle prime ore di un freddo mattino. E malgrado questo è assurdo pensare che ci sia nebbia nella mia stanza.
Eppure c’è.
Volto di nuovo lo sguardo alla parete.
Ed è allora che le vedo.
Due figure dai tratti indistinti, l’una discosta dall’altra di due passi al massimo, che avanzano lentamente verso di me, con passi privi di rimbombo che sembrano cadenzare il tempo.
Le osservo rapita, il cuore quasi insensatamente festante, mentre a ogni istante diventano più vicine, i loro contorni più nitidi, fino a che non riesco a distinguere le loro fattezze quasi per intero.
La donna che precede ha lunghissimi capelli lisci, del castano più scuro che possa esistere, che le ricadono sopra una spalla e lungo tutto il corpo. Il lucore dei suoi occhi blu mi colpisce, e mi ricorda quello degli zaffiri che in vita mia devo aver visto solo attraverso le vetrine dei negozi o, più di recente, sulle riviste.
Indossa un corpetto nero strettamente stringato sui fianchi, e una flottante gonna bianca, che sembra avere la consistenza stessa delle nuvole, trascinata in un lungo strascico che segue i suoi passi, e sfrangiata davanti a mostrare le gambe eburnee e gli anfibi neri che calzano i suoi piedi.
Alla spalla destra è accomodato un lungo mantello, identico in colore e consistenza alla gonna, e nella stessa mano stringe un alto bastone d’argento, sormontato da una stella polare, dalla quale sembra emanare la nebbia.
Quello che più di tutto mi colpisce sono le ampie ali, ultime a fare capolino dalla coltre brumosa, che le spuntano da dietro la schiena.
Ali d’Angelo, e tuttavia non totalmente bianche.
Molte delle sue piume – me ne accorgo anche dalla mia obbligata posizione supina – sono tinte di nero.
Quel che mi sorprende di più, però, è che questo contrasto di colore non stride con la sua figura. Non mi spaventa.
I miei occhi, ora, saltano alla figura che segue di due passi l’Angelo.
In lei, il nero domina.
Indossa una lunga tunica, dalle maniche a campana e dalla gonna frusciante come fumo nero intorno ai piedi invisibili. Tiene calata sulla testa una cappa, che cela completamente i lineamenti del volto.
E se questo non mi fosse bastato, per riconoscerla, sarebbe stato sufficiente ciò che regge nella sua bianchissima mano destra: un lungo bastone nero sormontato da un’ampia lama ricurva, che riflette sinistramente la luce del sole che penetra dalla finestra della mia stanza.
La falce della Morte.
È adesso che fermano i loro passi, l’Angelo e la Nera Signora, in fondo al letto bianco nel quale giaccio immobile da un tempo che non amo quantificare.
Colei che ho invocato prima di ogni sonno notturno, nei giorni della mia straziante agonia mentale, fa un passo avanti verso di me, e con gesti lentissimi abbassa infine il cappuccio del suo mantello.
Non la immaginavo così.
Non credevo possibile che la Signora Oscura, della quale pure ho desiderato così a lungo l’avvento, avesse le fattezze di una bellissima giovane donna. I suoi capelli sono lunghi, e biondi come i raggi del sole estivo. I suoi occhi azzurri come il ghiaccio.
Altrettanto freddi.
Ma mi guardano, adesso, e non emanano lo sguardo crudele e calcolatore di un’assassina, né il gelo vagamente sadico di chi prova piacere in ciò che fa. Questi occhi, per me, appartengono alla personificazione della Misericordia.
È forse per questo che, accanto a lei, c’è una creatura divina mi dico. Affinché la mia dipartita sia quello che io volevo fosse.
Un atto di pietà.
L’Angelo si avvicina a me, con gesti lenti che percepisco come vagamente rassicuranti; solleva di pochi centimetri il suo bastone, e con gesto secco percuote una volta il pavimento, emettendo un suono che non assomiglia a quello che avrebbe prodotto qualunque altro oggetto, sul parquet di questa stanza, ma che pare quasi, invece, un respiro proveniente dalla Terra e un sussulto del Cielo che convergano all’interno del bastone.
Si china su di me, lentamente, quasi studiatamente; mi prende il viso fra le mani gelide, socchiude gli occhi e mi posa un bacio sulla fronte, stranamente caldo e teneramente impalpabile, quasi come un battito d’ali di farfalla.
Quando si solleva, mi fissa negli occhi con il suo sguardo adamantino.
In questo momento ho come l’impressione che la nebbia che ha accompagnato il loro arrivo abbia raggiunto e ricoperto anche me, per intero; e mi sembra che la mia mente, adesso, registri il mondo intorno a me, questa stanza così tristemente familiare, con una percezione lievemente distorta, come se tutto fosse ovattato.
Come se fossi sotto anestetico, o sotto l’effetto di una droga.
Ed è ora che vedo lei, la Nera Signora delle mie preghiere, gli occhi di ghiaccio ridotti a due fessure, le nebbie del tempo che giocano in mille riccioli fumosi sui sottili capelli biondi, avvicendarsi nella mia direzione.
Soffoco un brivido, quando vedo che solleva la mano destra, nella quale regge la falce; ma non è paura quella che sento.
È solo un misto di reverenziale timore e di aspettativa, quello che mi cresce dentro; l’ansia di ricevere il fendente.
Il volto dell’Oscura Dama non muta di espressione, quando solleva più in alto lo strumento del suo lavoro; e, benché io non possa trattenere il respiro in fondo alla mia gola, sento una morsa di ansia al livello del diaframma.
È finita, finalmente.
Non so da dove provenga, questo pensiero: se dalla mia mente, se dal mio cuore.
Se dall’Angelo dalle ali chiazzate di nero che si erge alla mia destra in tutta la sua grazia.
O se direttamente da Dama Morte, qui accanto, alla mia sinistra.
Non che importi, in verità.
Perché adesso lei sferra il suo fendente, e colpisce in pieno il mio corpo, squarciandolo.
È tutto troppo immediato perché io senta dolore. Tutto troppo bello.
Vedo solo, nella mia mente traslata da un mondo all’altro, il riflesso di un bianco sorriso.
Ampio, sconcertante.
Mi pare quasi assurdo sentire ogni singolo, minuscolo pezzo della mia anima venire staccato dal luogo che è stato la sua dimora per così tanti anni. È con ineffabile chiarezza che percepisco il graduale abbandono di questo mondo.
In un tempo non quantificabile con istanti umani, mi ritrovo in piedi, avvolta da una nebbia bianca così densa che muovo una mano nell’aria nel tentativo di afferrarla.
– Salve, Sarah. – mi sento salutare.
Mi volto sulla mia destra: quasi sussulto nel vedere l’Angelo ancora al mio fianco, e la Nera Signora all’altro. Avevo creduto che fossero scomparse, dopo aver assolto al loro compito.
– Io sono l’Arcangelo Shanael – si presenta la prima.
– Costei è Madonna Morte – aggiunge, accennando alla mia sinistra.
– Benvenuta. – dice infine.
Solo questo: ma è sufficiente alla mia anima per sentirsi vagamente rassicurata.
Mi volto, guardando davanti a me, nel punto in cui le nebbie s’infittiscono.
E mi lascio condurre via.