di Gaspare De Caro e Roberto De Caro

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Identità (I)

Istituzioni di ogni ordine e grado, dagli organismi sovranazionali alle autorità locali, sono assiduamente impegnate a registrare e catalogare identità di società, stati, gruppi, individui secondo la logica binaria Ordine-Disordine, Amico-Nemico dell’attuale emergenza senza fine. Certificati di idoneità, compatibilità, omogeneità riconoscono inclusioni ed esclusioni, privilegi e doveri, dalle deliberazioni delle Nazioni Unite, in particolare quelle dotate di bomba, all’erogazione o al rifiuto di passaporti e permessi di soggiorno. Tanta ricognizione e convalida di identità è necessariamente introduttiva e produttiva di giuste persecuzioni ed esemplari punizioni – dalla guerra preventiva alla persuasione carceraria – così della riottosità di stati-canaglia come della pervicace insistenza a sopravvivere di quanti non ne hanno titolo.

Il panorama nazionale, pur nei suoi indubbi limiti provinciali, offre una assai varia casistica di questa sindrome identitaria. Ne proponiamo alcuni esempi, confidando che ne siano apprezzati i motivi di franco divertimento: da noi infatti, per estrosità di attitudini teatrali e dovizia di qualità attoriali dei protagonisti, secondo la tradizione della Commedia dell’Arte anche le tragedie globali vestono volentieri i panni ameni e osceni della farsa.

Digitale. L’onorevole Luciano Violante ha un problema di identità. Non la sua, naturalmente. La sua è stata definitivamente accertata quando, da presidente della Camera, ha ricordato commosso i «ragazzi di Salò», dimenticando, per non dire del resto, gli ebrei che i ragazzi di Salò spingevano sulle tradotte tedesche. No, il suo problema, o piuttosto la sua ossessione, è l’identità degli altri, quelli che l’identità ce l’hanno ma non gliela vogliono dire. Una tipica sindrome da superpoliziotto, insomma, tutto Law and Order e arroganza del potere. Il presidente Cossiga lo chiama «piccolo Vishinsky». Sempre esagerato, il presidente Cossiga. Violante non ha neanche lontanamente la fosca grandezza dell’eroe delle purghe staliniane. È piuttosto un Javert, un persecutore di «miserabili», come nel romanzo di Hugo. Il Jean Valjean di Violante-Javert è l’emigrante clandestino con la sua sfuggente identità. Ricorderete che anche Jean Valjean per sottrarsi al suo persecutore cambia volentieri di identità, si fa chiamare Madeleine e alla fine anche Fauchelevent e sotto falso nome diventa persino sindaco. Questo dev’essere l’incubo di Violante, se ha riletto il romanzo. E se un emigrante clandestino con una falsa identità gli diventa sindaco di Bologna, invece di andare a lavorare come vuole Montezemolo? Ma non prendiamocela troppo con Hugo, l’ossessione dell’identità dei miserabili è una costante della Sinistra di governo. Ricordate nel 2000 il ministro Bassanini che voleva registrata, oltre alle impronte digitali, anche l’iride dell’occhio?[1] Violante-Javert è meno tecnologico, più incline alle modalità tradizionali di difesa della Legge e dell’Ordine. Gli mancano, è vero, gli strumenti correttivi di cui dispongono i Javert nei paesi d’origine e di fuga di molti miserabili, il taglio della mano, la fustigazione in piazza, la lapidazione, ma è deciso a far fruttare al meglio il castigo disponibile, quello stesso del vero Javert. Per Violante il carcere è una panacea, il rimedio che proscrive i mali sociali e ne depenna le vittime; la sua passione per la reclusione altrui non conosce distrazioni, che pure gli farebbero bene, non si concede pause né ripensamenti, non tollera indulti né amnistie, chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori: un vero Javert, inomma. Ma, proprio come per Javert, chi è fuori può andare dentro, e meglio se c’è motivo. È appunto la ricerca del motivo che coniuga la passione carceraria alla passione per l’identità, ne fa il rovescio l’una dell’altra, e quale missione può essere più gratificante della punizione delle irregolarità identitarie, dei sotterfugi mimetici, delle piccole astuzie elusive cui i miserabili in un paese e in uno Stato ostili affidano le loro precarie speranze di sopravvivenza? Tanto più quando è il cacciatore stesso a creare il terreno di caccia, quando «la stessa legislazione speciale sull’immigrazione non è altro che un meccanismo di inclusione, di integrazione attraverso l’illegalità», come scrive su Carmilla Willer Montefusco in Culture, intercultura, multiculturalismo (4 nov. 2006). Al suo articolo si rimanda per il punto di vista degli immigrati in tema di identità e per le loro pratiche difensive nella «vera e propria guerra che caratterizza la condizione migrante – tanto è vero che nei programmi di governo (tutti) si parla esplicitamente di “lotta ai clandestini” – che significa “guerra ai migranti”». Qui il tema resta piuttosto Javert e la sua libidine identitaria, la ferocia venatoria, il sadismo punitivo. È dunque da questo punto di vista che facciamo riferimento alla recente proposta di legge presentata da Violante insieme al collega Pietro Mercenaro, altro stratega dei democratici di Sinistra nella «guerra ai migranti». Il progetto prevede un inasprimento della legge Bossi-Fini, rendendo obbligatoria l’identificazione dei migranti tramite le impronte digitali, raddoppiando dagli attuali tre a sei anni la pena per chi dà false generalità e punendo nella stessa misura l’uso dell’abrasione con acidi delle impronte digitali.[2] Nel merito ci lasceremo bastare il commento di Adriano Sofri, la cui sensibilità solitamente ottusa (come a proposito di guerra e pace) è acuita nella circostanza dalla passata contiguità al destino carcerario di tanti migranti: «Mandare in carcere per 6 anni chi abbia reso anonimi i propri polpastrelli con l’acido mi sembra un’idea spaventosa: è evidente che gli autori dell’abrasione non saranno grossi delinquenti (tanto meno quelli che l’identità la nascondono nei paradisi fiscali) ma disgraziati in fuga da un’espulsione».[3] Per una migliore comprensione del progetto di legge e dell’animus castigandi dei proponenti registriamo alcune circostanze che si accompagnano alla sua presentazione.

1) Il progetto dunque inasprisce la legge sull’emigrazione prodotta nella passata legislatura da fascisti e leghisti. Ci pare di ricordare che uno dei temi elettorali della Sinistra sia stata la polemica contro l’inumanità della legge Bossi-Fini. C’è qualche elettore che giudichi la circostanza degna di meditazione?

2) Fascisti e leghisti non si sono mostrati offesi perché il progetto dei due esponenti di Sinistra scavalca la loro legge. Al contrario, da Ignazio La Russa a Roberto Castelli è tutto un coro di approvazioni e di «ve l’avevamo detto, noi!».[4] Naturalmente non c’era da aspettarsi che tali consensi mettessero in imbarazzo Violante, estimatore pubblico dei «ragazzi di Salò». Però non hanno turbato nemmeno Ivana Bartoletti, responsabile nazionale dei Diritti Civili (ma no?!) dei Democratici di Sinistra, la quale la proposta di Violante se la sente «nel Dna»: «Non c’è da stupirsi, quindi, che la proposta di raddoppiare le pene a chi fornisce false generalità e introduce un nuovo reato per l’abrasione dei polpastrelli venga proprio dal centrosinistra: viene da chi intende affrontare il tema dell’immigrazione con le regole, con i diritti e con la repressione. È inevitabile che senza repressione non vi sia spazio per i diritti».[5] Nulla da meditare neanche qui?

3) Negli stessi giorni della proposta di Violante e di così cordiali consensi a destra e a sinistra, il ministro delle Politiche sociali Paolo Ferrero ha dichiarato anche lui l’obiettivo di «rivedere la Bossi-Fini». Ed ecco qui il bello dell’attuale governo e della sua maggioranza: si può dire tutto e il contrario di tutto, quello che aggrada all’elettorato di fascisti e leghisti (inclusi, anzi soprattutto, gli omologhi di centro e di sinistra) e quello che i centri sociali vogliono sentire. Ferrero sembra esprimere intenzioni opposte a quelle di Violante, vuole correggere la Bossi-Fini «sulla base delle esigenze reali degli immigrati, del mondo del lavoro e della società civile senza troppe teorie e prese di posizione ideologiche». A questo fine ha programmato di incontrare «in assemblee aperte enti locali, associazioni, consulte dei migranti in 17 tappe da Trento a Palermo».[6] Lasciateci fare un pronostico: volete vedere che mentre Ferrero è in tournée a rappresentare la democrazia dal basso, la proposta di legge di Violante dall’alto diventa legge? Magari con piccolo sconto more syndacali, da sei a cinque anni. Scommettiamo?

4) Al riguardo, colpisce molto chi non è addetto ai lavori quello sbrigativo raddoppio di pena proposto da Violante e stimola ingenui interrogativi generali. Quando, in quali circostanze soggettive e ambientali, un legislatore può convincersi che tre anni di carcere per disperata ricerca di anonimato sono pochi, che ce ne vogliono sei? Di notte, nel suo studio silenzioso, solo con se stesso e con un’eventuale colica epatica, o dopo aver litigato con sua moglie? E perché sei anni e non quattro, o dodici? Tirando a sorte dal sacchetto della tombola e cercando di non pensare al disgraziato che quegli anni di carcere, tre, sei o dodici, li dovrà scontare? Ma questo non è da legislatore, che non dovrebbe negarsi all’umanità; è piuttosto da giudice, poiché si sa la Giustizia è cieca. Viene il dubbio che Violante non ci abbia detto tutto sulla sua identità. Che in una vita precedente sia stato un giudice?

Per concludere. Nel finale dei Miserabili Jean Valjean salva la vita a Javert. Non vorremmo essere delusi all’occasione, ma ci piacerebbe molto che la stessa cosa, con o senza aggravante di polpastrelli abrasi, capitasse a Violante. Forse allora anche lui cambierebbe identità. O no? [continua]

[1] Cfr. Marco Galluzzo, «Impronte digitali anche per gli italiani», in Corriere della Sera, 20 novembre 2000.

[2] Cfr. Immigrazione: progetto di legge, 15 nov. 2006, in www.asgi.it.

[3] Adriano Sofri, Chi cancella l’identità, in la Repubblica, 15 novembre 2006.

[4] Cfr. Dino Martirano, Violante: immigrati, carcere a chi non dà le impronte, in Corriere della Sera, 14 novembre 2006; Immigrazione. Castelli: su impronte, Violante d’accordo con Lega, in www.apcom.it, 14 novembre 2006.

[6] Caterina Pasolini, Ferrero: viaggio fra gli immigrati per cambiare la legge Bossi-Fini, in la Repubblica, 9 novembre 2006.