antifa.jpgViolenza nera, fascino del male e fallimento della Legge Mancino

di Wu Ming 1

Alla carogna verminosa di Augusto Pinochet, in memoriam

La spina dorsale di quest’intervento è una serie di appunti presi dal sottoscritto (o meglio, dal mio alter ego) nel 1992 e 1993, e messi in circolazione nelle primitive reti telematiche dell’epoca.
Rinvenuti su un vetusto floppy mentre cercavo altro (che non ho trovato), li ripropongo come reperto e pre-testo perché, a dispetto delle mille ingenuità e della fraseologia schizo-situ-estremistoide, li ritengo in gran parte attuali. Più attuali di quando furono scritti.
Il 1992-93 è considerato, da chi lo ricorda, un biennio terribile di aggressioni, lame fasciste, centri sociali incendiati. Quella “naziskin” (che gli skin originali chiamano però “bonehead”) era la sottocultura giovanile più discussa e rappresentata nei media. In quella temperie nacquero canzoni come Rigurgito antifascista dei 99 Posse (descrizione realistica del clima che si viveva) e libri come Skinhead di Riccardo Pedrini [poi “Wu Ming 5”] (tentativo donchisciottesco di far capire che gli skin non sono tutti nazi).
Non era un problema solo italiano: l’intera Europa si interrogava su come affrontare il problema. E i Sonic Youth incidevano Youth Against Fascism: “E’ la canzone che odio / è la canzone che odio”.

E’ del giugno 1993 la cosiddetta “Legge Mancino” (n.205/93) sull’istigazione all’odio razziale, che i giornali strombazzarono come “legge anti-naziskin” e sulla quale non pochi si fecero illusioni.
Uno sparuto drappello di scettici cercò di far notare che non sarebbe servita a nulla, perché mettere fuori legge parole ed enunciati equivale a cercare di fermare l’acqua con una forchetta, e anche perché – aggiungevano i maligni – ha poco senso aspettarsi che il controllato faccia il controllore. Il numero di neofascisti all’interno delle forze dell’ordine garantiva la chiusura di più di un occhio a destra, mentre si continuava a manganellare e sgomberare a manca.
Quod erat demonstrandum, demostratus est.
Altri osservatori andavano ancor più in là, dicendo che la legge avrebbe contribuito a peggiorare le cose, conferendo ancor più fascino maligno a naziskin e camerateria. Chi va in cerca di un’attitudine “antisistema” non si scoraggerà per la sua messa al bando, anzi, è probabile che la cosa lo entusiasmi. Al primo riluttante sequestro di volantini, alla prima perquisizione all’acqua di rose in una sede d’ultradestra, la legge avrebbe trasformato in ribelle e finto martire anche il più scalzacane dei nazistelli di quartiere. Aggiungici una diffida dallo stadio, ed ecco uno sfigato tramutato in eroe e role model per i ragazzini. I fought the law.
Certamente la legge Mancino non è la causa principale di quel che accade oggi, però possiamo dire senza tema di smentita che:
1) non è servita assolutamente a niente;
2) la situazione è senz’altro peggio di com’era nel ’92-’93, con un’importante differenza: ieri i media amplificavano, oggi tacciono o al più minimizzano. Cinque anni di governo post-fascista si fanno sentire tutti.
La violenza d’ultradestra è all’ordine del giorno (e soprattutto della notte). Non si contano, negli ultimi tre anni, accoltellamenti, pestaggi, aggressioni, incendi e attentati di vario genere. L’elenco è impressionante, basta dare un’occhiata all’ Archivio delle aggressioni fasciste 2005 e all’ Archivio delle aggressioni fasciste 2006, curati dai compagni di ecn.org/antifa.
Ferme restando gradazioni e differenze, oggi intere curve di stadio, interi quartieri, intere città sono “zona nera”, politicamente, culturalmente, antropologicamente. Torna a testimoniarlo la toponomastica: è del tutto normale dedicare vie o piazze ad Almirante, a Balbo, a Pavolini, a Graziani. Alla faccia del “brodo di coltura”!
Ci si straccia le vesti per giorni ogni volta che qualcuno (senza peraltro passare a vie di fatto) grida uno slogan su Nassiryah. Si continua a parlare della “violenza rossa” di trent’anni fa. Si imbastiscono grandi operazioni editoriali e mediatiche sulle vittime dell’antifascismo di ogni epoca. E intanto la violenza nera di oggi, di stanotte, è occultata in modo sistematico.
Davide “Dax” Cesare (a Milano) e Renato Biagetti (a Ostia) sono già stati uccisi da fascisti di varia natura. La lista corre il pericolo di allungarsi, se non ci si rende conto del problema. E il problema è la classica candela che brucia da due lati.
Perché uno diventa fascista, nazista o comunque lo si voglia definire? Se non ci interroghiamo su questo, non capiremo nemmeno per quale motivo la condanna istituzionale, il bel discorso democratico, il divieto, la proibizione, lo spauracchio dell’azione legale… tutto questo non solo non serve, ma ottiene l’effetto contrario. Del resto, il fenomeno neo-nazi non si sta ripresentando con rinnovata virulenza proprio in Germania, il Paese europeo con le leggi più severe e restrittive? E la Francia, la nazione della legge Gayssot contro il negazionismo e di altre leggi che cercano di sopprimere enunciati, non è forse il paese in cui il neofascismo è divenuto emergenza addirittura costituzionale, e in cui l’antisemitismo si riaffaccia in forme ogni volta più perniciose?
Insomma: chi fabbrica i nazisti?
Ma soprattutto: chi sono oggi i nazisti? Li conosciamo davvero? E loro conoscono se stessi?
E non sarà che la forchetta non ferma l’acqua anche perché non è ben chiaro quali siano, questi enunciati che si vorrebbero sopprimere? Non sarà che, anziché a un ordinato mini-sistema solare di enunciati-pianetini che girano nelle loro orbite ordinate e prevedibili, ci troviamo invece di fronte a una nube quantica di segni, di enunciati in perenne oscillazione”? In fin dei conti, è facilissimo “camuffare” l’istigazione all’odio razziale. E’ facile far rientrare enunciati nazisti nei confini del discorso “accettabile”.
Tutti elementi per la discussione. Invito a mandare commenti, ché riprenderemo il discorso. Intanto, gli appunti. Il primo stralcio è datato 24/11/1992, il secondo gennaio ’93, il terzo 8/9/1993.

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“Perché chiamare nazisti questi ragazzotti? Sono rozzi, folkloristici, plebei. Devono studiare, dirozzarsi. Loro non riflettono, non meditano. E invece servono soldati disciplinati: inizia l’epoca delle guerre razziali. Al colore dell’ideologia si sostituirà quello della pelle”
Franco freda, da Epoca, 18/11/1992

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Appunto: i naziskin (intesi come soldataglia, base, “corpo militante”) non meditano né studiano. Non è stata certo un’analisi approfondita e convincente della società a fare di loro un aggregato e una comunità, come invece piacerebbe all’aristocratico Freda (e alla Nuova Destra di Tarchi, che li definisce addirittura “paccottiglia umana”). Su questi ragazzini 17-18enni si è esercitata per anni la capacità istituzionale di suscitare in negativo un immaginario vincente, di definire una sottocultura che portasse alla luce e valorizzasse, in un apparente rifiuto della massificazione e della miseria quotidiana, tutte le peggiori pulsioni razziste, sessiste, scioviniste che fanno del sociale una cloaca, il cui puzzo era ieri appena temperato dal persistere di ideologie universalistiche come il marxismo, il liberalismo, il solidarismo cattolico…

Anni di antifascismo bolso, retorico e “ufficiale” da parte della “Repubblica nata dalla Resistenza”, anni di schifezze da “arco costituzionale”, di propaganda maldestra e demonizzante – e, in definitiva, realmente massificante – da parte di Hollywood o di Cinecittà, hanno fatto del nazista un eroe negativo, ne hanno circondato la figura di vitalismo e di dannazione, un angelo caduto la cui sagoma maledetta si stagliava beffarda sopra e contro il quieto vivere quotidiano. E’ così sorprendente che le frustrazioni, il malessere, la voglia di muovere le gambe e le mani di un lunpenproletariat giovanile o di una piccola borghesia fottuta e proletarizzata trovino proprio in questa subcultura (laida ma dalla facciata splendente) simboli ed espressioni?

Ricordo che la gente che disegnava le svastiche al mio liceo nella metà degli anni ’80 in realtà non ne sapeva un cazzo: capiva che la simbologia nazista era un tabù e che disegnarla era andare in qualche modo “contro”.
Oggi la cosa è andata incancrenendosi: l’immaginario suscitato da una croce uncinata – simbolo dalla pregnanza icastica indiscutibile, e proprio per questo il più antico del mondo – è suggestivo proprio perché la “comunità democratica” (il cui linguaggio è immediatamente identificato col Potere, è il linguaggio dei telegiornali, del Preside della tua scuola, di Biscardi al “Processo del lunedì”…) dichiara di provarne repulsione. Più la noiosa Miriam Mafai incita le forze dell’ordine alla repressione, più si sprecano aggettivi di deprecazione (“orribile”, “spaventoso”, “agghiacciante”, “ripugnante”) da parte del giornalismo sportivo, e più chi espone striscioni razzisti si convince di essere contro il sistema. E’ questo che intendevo più sopra con “capacità istituzionale di suscitare in negativo un immaginario vincente”. Dato per scontato che allo Stato i nazi servono (Ordine pubblico, regolazione dei flussi immigratori…) non sarà questo il gioco dello spettacolo? Non sarà una mossa suicida – dal punto di vista dello sviluppo di una coscienza veramente antagonista – chiedere che “le Autorità” condannino, impediscano, si dissocino, etc.?

Se ad impedire a David Irving di tenere una conferenza non sono i compagni, la gente, gli ebrei autorganizzati, ma la Polizia che lo blocca all’aeroporto, allora l’ultimo dei cretini rapati lo pensera’ un reietto, un perseguitato, etc…E si crederà antagonista e trasgressivo per il fatto di stare dalla sua parte […]

Abbiamo sottovalutato, in nome della Storia e della sua dialettica , il divenire incostante e inafferrabile della Memoria, la sua manipolabilità, l’estrema scomponibilità del suo non-quadro. Abbiamo pensato che la realtà fosse pienamente attingibile con la parola, la scienza, gli strumenti della Ragione (“logocentrica”, direbbe Derrida), e di fronte al Mito siamo rimasti disarmati. Quando lo abbiamo denunciato, lo abbiamo fatto ancora in una prospettiva non pienamente antiideologica, senza saper scardinare il suo impianto aggregativo, la sua capacità di produrre comunità.

Se da un giorno all’altro potessimo liberarci dei nostri cascami teorici, realizzando pienamente l’importanza dell’ordine simbolico, delle pulsioni, dell’economia libidica, allora potremmo pensare a come detournare la violenza skinhead dentro e contro la classe in violenza della classe contro – stavolta davvero contro – lo stato , il capitale e i linguaggi dominanti.

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[…] la destra radicale non ha mai inventato nulla, limitandosi a recuperare e corrompere le forme di espressione-comunicazione dei movimenti realmente antisistemici ( la forma organizzativa del”Fascio”, la bandiera nera degli anarchici…). Questa verità è già contenuta tutta nel termine “controrivoluzione”, e dovremmo insospettirci quando sentiamo qualcuno prendere le distanze dalla “destra classica”, dalla “destra tradizionale”: noi sappiamo che non esiste una destra “classica”; nel corso del XX secolo i fascismi -che si presentassero come movimenti o come regimi – hanno instaurato una tradizione mutagena, sempre rimanipolabile; non hanno mai avuto forme “pure” di discorso, sempre aperti a rappresentare le trasformazioni nel rapporto di capitale (quando al potere, nei linguaggi del Diritto e della Propaganda; quando all'”opposizione”, nella tenzone ideologica).
L’informe “area storica” della destra radicale ha ruminato imperturbabile prima il sansepolcrismo ( la retorica socialisteggiante e anticlericale), poi Hegel filtrato da Gentile, ma anche il misticismo paganeggiante, l'”idealismo magico” di Evola e l’oscurantismo di Meister Eckhart, e poi -finissima acrobazia!- il tradizionalismo cattolico […] , passando nel frattempo dall’imperialismo eurocentrico e conclamatamente razzista al “culturalismo antropologico” post-Lévi-Strauss, fino all’apparente antioccidentalismo. Un eclettismo talmente spericolato da farci dubitare dell’esistenza di “modelli” a cui ricondurre le odierne teorie della N[uova] D[estra] o da cui essa possa prendere le distanze […]

Tutto ciò va sicuramente detto, ma non basta se non ci si inquadra nel contesto generale dei rapporti tra istanze politiche, economiche e ideologiche […]
La N.D. così non può essere considerata solo un’area di dibattito, un’esoterica corrente teorico-politica: essa incarna perfettamente le caratteristiche dell’innovazione dello spettacolo, forgia discorsi di guerra che rielaborano in forma “nobile” ciò che la “gente” già pensa (es. cita il Lévi Strauss di “Razza e storia” per dire che “ognuno deve stare a casa sua”, e lo chiama “antirazzismo differenzialista”!). Discorsi che, nelle diverse forme “nobili” o “ignobili”, si spandono a macchia d’olio in tutti gli ambiti, dal Bar Sport alle aule universitarie a quelle di tribunale. Seguire la N.D. non è quindi una perdita di tempo, l’espressione di una vis speculativa da intellettualini […]

La cazzata degli “opposti estremismi”, degli estremi che si toccano, etc. -portata a dignità teorica da Hannah Harendt e da tutti i successivi discorsi sul “totalitarismo”- non è che la descrizione strumentale di una situazione in realtà non infrequente; Jean Pierre Faye, in alcune opere dove a scanso di equivoci veniva rigettato qualsiasi tentativo di assimilare violenza rossa e violenza nera, descriveva lo scambiarsi di alcuni “enunciati” tra comunisti e destra nazionalista durante Weimar, per il tramite delle varie sette nazionalrivoluzionarie, nazionalbolsceviche etc…

Esisteva in Germania una “curvatura dello spazio semantico proprio alle forze politiche […] oltrepassata da un modo di enunciazione molto strano, situato proprio nella parte centrale che collega i poli estremi senza passare dal centro […] Un ‘campo di forze’: non una zona di chiacchiere, ma un luogo dove delle forze circolano e oscillano pericolosamente, fra due poli incompatibili” (Critica ed economia del linguaggio, Cappelli, Bologna 1979).
Nazionalrivoluzionari come Ernst Junger erano considerati, da benpensanti e conservatori, persino “al di là” dei nazisti, ancora più inquietanti e pericolosi. Ancora più “a sinistra” di Junger -stiamo sempre parlando di uno “spazio vuoto” tra i poli estremi, di un “altrove” rispetto al discorso politico ufficiale-, c’era il “Nazionalbolscevismo” di Ernst Niekitsch, intenzionato a combattere la KPD alleandosi però con l’Armata Rossa -e questa era anche la posizione dell'”estrema sinistra” della NSDAP.

E ancor più “a sinistra”, fino alla contaminazione degli enunciati, stava la scheggia impazzita Richard Scheringer, uomo-simbolo della propaganda nazista che nel 1931 passò da Hitler al Partito Comunista poiché riteneva quest’ultimo più intenzionato a lottare “per la liberazione nazionale e sociale del popolo tedesco”. E qui sta il punto, secondo Faye:

“In qualche modo egli accredita così all’estrema sinistra il sintagma ‘nazionalsociale’. Tentando di spostare la credibilità dei nazisti a profitto dell’estrema sinistra marxista e affermando che il nazismo è troppo ‘pacifista’ ai suoi occhi, in rapporto ai mezzi violenti necessari ad una rivoluzione nazionale, in effetti opererà a sua insaputa a vantaggio del polo stesso da cui si è appena allontanato […] Egli tende a dimostrare che l’impero del nazionalsociale si estende fino al polo di estrema sinistra, ma che all’interno di questo campo e grazie al suo enunciato, i nazisti fanno la figura di personaggi più ‘misurati’, meno violenti, più degni di stima e più rassicuranti agli occhi del piccolo borghese tedesco o dell’uomo del giusto mezzo” (cit.)

[…] Ora, noi siamo in un’altra situazione e su una scala considerevolmente ridotta; eppure l’episodio dovrebbe insegnarci molte cose. Lo scambiarsi e confondersi dei diversi enunciati è reso oggi ancora più possibile, poiché sono innumerevoli gli angoli vuoti creati dalle curvature nello spazio transpolitico. Le interzone sono luoghi molto pericolosi, anche se è importante starci dentro. Sicuramente è da lì che uscirà tutto ciò che, bene o male o al di là di entrambi, costruirà il nostro quotidiano negli anni a venire, quotidiano che sarà ancora una volta nostro compito sovvertire. Ma per farlo dovremo essere lucidi, saper distinguere i nostri enunciati da quelli del differenzialismo identitario, saper scardinare la sintassi del linguaggio dominante.

3

Il dibattito in coda al film “Romper Stomper” di Geoffrey Wright (trasmesso la sera del 6/3/93 su RAI 3) è stato l’ennesima dimostrazione di come l’antifascismo ufficiale – democratico, paternalistico-pedagogico & pseudo-illuministico – sia forse il principale alleato della demenza subnazista e xenofoba. Più i campioni della democrazia televisiva (stavolta è toccato a Corrado Augias) mobiliteranno maestrine, tromboni accademici ed eruditi maitres-à-penser, e più i ragazzini innamorati delle icone hitleriane e della chincaglieria militaresca si sentiranno dei ribelli, degli eretici maledetti, degli stormtroopers nella grande guerra contro la noia e l’insignificanza. I fregni in questione crederanno di essere diversi dai noiosi figuri che fanno loro la predica, e invece non saranno che il prodotto di quella supponenza e di quel bla-bla-bla.
[…] Non mi stupirei se tra qualche anno un leader nazi confessasse di essersi convertito l’altra sera di fronte al teleschermo [..]

L’alleanza tra legislazione proibizionistica e democrazia spettacolare “pianifica” l’economia libidinale, crea una finta interzona di cui sovradetermina i movimenti: fascino del “proibito”, frustrazione, insoddisfazione, smarrimento del senso & forza dell’abitudine, e il risultato è una psicologia autoritaria collettiva il cui caso-limite e’ proprio il subnazismo skinhead.
Lo spettacolo investe tutta la propria forza mitopoietica per fossilizzare i comportamenti & disciplinare i soggetti; anche chi cerca di “ribellarsi” deve solo credere di riuscirci, senza rinunciare al consumo di miti e di identità-ideologie, senza staccarsi veramente dal conformistico “nihilismo passivo” della massa.

Difatti, il presunto “nihilismo attivo” del subnazista è in realtà un puntello libidico del sistema di cui egli si crede nemico, perché è il prodotto di un incessante lavoro linguistico, è imitazione di imitazioni di imitazioni di modelli imposti a monte della produzione culturale.

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Il nazista, nella cultura e nell’immaginario politico dal dopoguerra a oggi, ha quasi sempre rappresentato la Ferinitas contro la Humanitas, la sanguinaria mostruosità; nell’inscenarne le gesta, se ne azzerava volutamente la psicologia, per lasciare posto unicamente a un cieco e freddo furore, a un totalizzante disprezzo per la Zivilisation. Alla fine, il nazista è diventato pura, malvagia e affascinante volontà di potenza, mentre l’antifascismo democratico gli contrapponeva l’ “uomo medio”, i buoni sentimenti, la mediocrità quotidiana, tutta la solita merda. Ad esempio, qualche tempo dopo aver visto “I ragazzi venuti dal Brasile”, pochissimi ricordano che Sir Lawrence Olivier interpretava un clone di Simon Wiesenthal, ma nessuno si è scordato lo sguardo genocida del dr. Joseph Mengele, interpretato da un grande Gregory Peck. Il nazismo stimola una sorta di memoria eidetica, e vi rimane impresso per sempre.

Così oggi lo spettacolo sa bene come incanalare l’inquietudine “postmoderna” sui binari morti della falsa rivolta, dei particolarismi, del nihilismo prefabbricato, dell’autoritarismo: basta vendere, allegata a questa instabile miscellanea di sensazioni, un po’ di bigiotteria da III Reich, e poi proibire di indossarla o rivenderla. Ha funzionato benissimo con l’eroina, perché non dovrebbe funzionare con l’odio razziale?

E’ perfettamente normale che, una volta intuito quali imbrogli nasconda il modello di Humanitas appreso dalla famiglia e dalla scuola, si sospenda il giudizio etico e (soprattutto) timico nei confronti della presunta Ferinitas; è normale che in molti finiscano per subire il fascino “perverso” della croce uncinata, e trovino (giustamente) barbosi Augias, la liberaldemocrazia e la Ragion di Stato.

Da questo punto di vista, chiunque arrivasse a sostenere che, per capire l’ascesa di un nuovo “fascismo”, non serve indagare i travagli della coscienza e/o i fantasmi dell’inconscio, opererebbe una grave e irresponsabile pseudo-riduzione della complessità del problema, in nome di uno stanco e deficiente politicismo. E purtroppo l’andazzo è quello: presto, durante le riunioni sull’antifascismo, sentiremo versioni in politichese di questo botta-e-risposta raccolto da “Il lupo e l’agnello”, un vecchio film con Tomas Milian e Michel Serrault:
– Ti senti frustrato…
– Ao’, ma che stai a ddi’? A me nun m’ha frustato mai nisuno!

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