di Giuseppe Genna

ctp.jpgLo Stallo a cui si accenna ha tutte le valenze emicraniche che il leggendario finale di partita impone come uno spettro doloroso a ogni scacchista. Lo Stallo sarebbe una svolta d’epoca, ma non lo è, perché la palude in cui ha luogo non subirà alcun salto evolutivo verso il meglio – anzi, lo Stallo è per paradosso dinamico, è cioè il lento, costante, quasi mirabolante a voler essere patafisici, slittamento all’indietro delle forze comunitarie, intellettive e politiche di un Paese diventato non solo marginale, ma pernicioso. Lo Stallo è una figura impossibile come l’Ircocervo (e l’impossibile esiste): non è stasi, è il ritorno a una situazione pretraumatica indefinita, poiché l’Italia è il Paese in cui sta avvenendo lo Stallo, ed è una nazione in cui il trauma si protrae da decenni. Ne isolo alcuni sintomi.

Che Paese è oggi l’Italia? E’ anzitutto il posto al sole: cioè in cui avvengono al sole scandali che, altrove, dimissionerebbero automaticamente un’intera classe dirigente. Oggi, l’Italia che è pronta a trasformarsi in una forma rinnovata del già vissuto (e vissuto con dolore e sofferenza durati decenni), è soprattutto quella landa in cui avviene lo scandalo più clamoroso dai tempi delle schedature di Federico Umberto d’Amato, capo dei servizi segreti, i cui dossier furono fatti ritrovare, ad anni di distanza dalla morte del dirigente, in una villa sull’Appia. Non ricordate uno scandalo del genere? Siete portati a pensare che la P2 costituì qualcosa di ben più grave e degenerato? Ecco un sintomo tipico dello Stallo: che non è la disinformazione, ma la dissimulazione tramite silenzio, l’esposizione discreta che, stando sotto gli occhi di tutti, non segna la memoria collettiva. Le schedature dell’Edgar Hoover italiano furono uno degli strumenti principali prodromici all’oliatura di una macchina individuabile quale fu la P2 (che infatti fu individuata). Non un politico di destra, centro o sinistra, non un protagonista di quella stagione (diciamo, all’incirca, quando ingranò il “sistema Cefis” dopo la morte di Mattei) fu risparmiato da pedinamenti, intercettazioni, individuazione di possibili ricatti. Il che è quello che patentemente accade oggi con lo scandalo Telecom.
Spiace allo scrivente dovere concordare con Antonio Di Pietro, che ha ipotizzato (credo lo abbia fatto disponendo di informazioni provenienti da certi ambienti che non è bello frequentare come i lounge bar) una impensabilmente vasta operazione di messa sotto controllo dei gangli vitali del Paese. Sfugge l’ampiezza dell’operazione, come l’intensità della medesima. Basterà limitarsi all’assenza di intercettazioni di Adriano Galliani nel caso Calciopoli (la fortuita emersione spettacolare del caso Telecom) e di Silvio Berlusconi nei dossier in mano alle procure, per supporre che sia intercorso almeno un accordo con il governo in carica al momento in cui Giuliano Tavaroli, il responsabile della comicamente definita Sicurezza Telecom, spendeva al massimo le proprie energie. Ciò accade in un Paese in cui, iniziata la “coraggiosa” (almeno, in questi termini la definisce l’attuale premier) fase di liberalizzazioni, si è lasciato in pratica il monopolio della rete telefonica fissa in mano agli eredi della Sip, che però si è quotata in Borsa (sono i vantaggi del liberismo mediano e mediocre a latitudini italiane). Mentre prima potevamo assistere senza sorprese a scene come quella in cui Gian Maria Volonté, in Un cittadino al di sopra di ogni sospetto, entra in una megacentrale d’intercettazione attraverso cui le forze di polizia effettuano repressioni di massa, ora siamo costretti, da IPO e varie quotazioni e suddividendi azionari, a sorprenderci che lo Stato si avvale dell’unico autentico detentore dei fili che arrivano alle cornette telefoniche, ai doppini che ognuno di noi può aprire comodamente agli angoli delle strade, e anche alle radiazioni sonore di gran parte della telefonia mobile, visto che questo monopolista è il principale fornitore di comunicazione cellulare in Italia.
Identificare attività retrostanti rispetto al core business di Telecom con attività di intelligence statale (o, meglio: parastatale) è il segno dei tempi. Un segno che stabilisce una traiettoria. Una traiettoria che porta diritto a una cappella funebre di famiglia al cimitero di Meina.
Lì dentro, in quel di Meina, riposano le spoglie di un uomo talmente attivo che, perfino postmortem, non riposava affatto: le spoglie furono trafugate, si mossero e poi vennero riconquistate all’eterna requie. cuccia.jpgE’ lì, dunque, che non muove più un dito né un diktat, colui che in vita fu noto col nome di Enrico Cuccia (ma, garantisco, anche con altri nomi; e non soprannomi). Se non si intuisce quanto sia decisiva l’assenza del totalitarismo di questa mente compressa in un corpicino leopardiano e che vedeva il mondo attraverso un inquietante esoftalmo luccicoso e vitreo, non si intende l’attuale momento storico italiano. Con la fine della centralità di Mediobanca, che era uno dei soprannomi di Cuccia, mostruosi rampicanti non vegetali ma di carne e sangue sono saliti alla ribalta, spesso col favore della fazione politica di Centrosinistra. Le operazioni su Telecom, di cui prese il controllo Colaninno e poi Tronchetti Provera, vedono il nostro attuale ministro degli Esteri coinvolto a vario titolo, come attestano le cronache. Si è assistito, mercé l’estinzione della dinastia Agnelli, a un crollo verticale del capitalismo familiare italiano, che aveva respinto già ai tempi della resistibilissima ascesa dei Ferruzzi, capitanati dallo skipper Gardini, una specie vorace e assetata di denaro fresco o, meglio, di economia dei derivati, di future e bond, di azzardi della finanza che sempre più allarga la forbice tra economia fantasmizzata ed economia reale. A farne le spese è stata l’economia reale, che come corollario indispensabile per il proprio sviluppo esige l’investimento su se stessa – e infatti, da anni, l’investimento si è trasformato in guadagno da fare flottare in finanza. Dopo una cinquantennale fase di irrealismo socialista propalato dai mezzi di stampa e comunicazione tutti, non si è assistito in Italia al fuggi fuggi generale, ma all’arriva arriva di, per l’appunto, arrivisti dotati di patrimoni virtuali, autentici Baltasar Graciàn che alla prudenza hanno sostituito l’abilità barocca a giocare con scatole cinesi immateriali, perché fatte di denaro che attesta di esistere senza esistere. E’ la fase che Don DeLillo emblematizza (citando Zbignew Herbert) in Cosmopolis (un capolavoro non compreso a fondo), quando parla del “topo che diventa l’unità di misura monetaria”. Con i topi Tronchetti Provera ha promesso di comprare Telecom e non ha mai flautato perché i quarantun milioni di ratti uscissero allo scoperto ed entrassero realmente nel mercato, inoculando soldi reali nel mercato stesso. Il denaro, raggiunto lo stato più immateriale, che è il simbolico che simbolizza non più il grano o l’oro ma il simbolo stesso, permette di agire, di comperare, di muovere aziende, tagliare posti, flessibilizzare, ristrutturare. A che prezzo? Qualcosa del topo resta attaccato a questo ordine di processi azionali e azionari: è un’autentica leptospirosi, la una virtualità non virtuosa che costringe a compromessi per ottenere coperture e, quindi, richiamare la possibilità di ricatti.
La gestione di Telecom da parte di Tronchetti Provera è stata delirante soltanto se non si tiene conto di una simile patologia leptospirotica. Due anni fa, secondo le testimonianze di chi c’era, in una riunione allargata, con sicumera imprudente Tronchetti decise l’accorpamento di tutto l’accorpabile in Telecom al grido di “sinergie!”: quindi anche di Tim, un’azienda che dispone di una liquidità incredibile, talmente alta che non si riesce a coagulare ora una cordata industriale che possa acquistarla (ma tanto ci pensano gli angloamericani del gruppo Carlyle e di British Telecom a intervenire). Che il quasi monopolista delle comunicazioni di un Paese venda a stranieri un comparto tanto strategico è motivo di preoccupazione per il governo del Paese stesso: perché qui non sono più in gioco interessi finanziari – sono in gioco interessi e basta, cioè è in gioco la quintessenza del potere, vale a dire la possibilità di controllare, influenzare e bloccare flussi di informazione. Chi ancora crede che la democrazia sia un sistema idealisticamente rappresentativo della comunità è un ingenuo e ha da ricredersi. La rappresentanza democratica slitta automaticamente sotto la soglia della coscienza collettiva in epoca di infotainment. E questo discorso è estremamente armonico rispetto alla sottoculturalizzazione a cui l’Italia è stata sottoposta nell’arco di 25 anni. C’è da capire cosa resta.
Resta lo Stallo. Grazie alle intercettazioni è stata recentemente eliminata una cordata decisa a prendere il Corriere e il timone di gran parte della finanza strategica nazionale (gli Gnutti, i Fiorani, i Consorte, la cosiddetta Banda Fazio). Nell’interesse di chi è accaduta questa che è stata rivenduta come una pulizia “etica” di una sporca manovra di affaristi da strapazzo, di criminali abbonati ai conti lussemburghesi e turisti virtuali degli sportelli delle Bahamas? Il principale beneficiario di questa prima ripulita è il vecchio potere dei salotti in cui si entra solo se si porta un cognome che ha fatto l’industria italiana (in ogni campo) negli ultimi 50 anni. Oddio, con contraddizioni imbarazzanti: per esempio, nel cda del Corriere sta Ligresti, prozio di Ignazio La Russa e uomo coinvolto in Tangentopoli oltre che in Berlusconi (sì: Ligresti è coinvolto in Berlusconi: qui non siamo più nel regno individuale e additabile, stiamo natando su ondate di informazioni immateriali e altrettanto immateriale denaro). L’uomo che dispone della maggiore liquidità in Italia è Caltagirone, il suocero dell’ex Presidente della Camera dei deputati – e siamo sempre nei pressi di RCS (Caltagirone è uscito solo di recente dal board di Dada, microsocietà ora a controllo RCS: prima dell’uscita, Caltagirone e RCS siedevano allo stesso tavolo d’amministrazione). Tronchetti Provera va ascritto invece a qualunque salotto: antico o nuovo che sia, lo scandalo delle intercettazioni lascia intendere che la sua società abbia messo a disposizione materiale illecito ai richiedenti di turno, in un confuso gioco tra vecchi e nuovi poteri, o addirittura aspiranti tali.
Lo Stallo si configura secondo il disordine da macchia di Rorschach di questo ritratto sintomale. Lo Stallo indica paradossalmente una direzione di risucchio verso il passato, a cui sembrano contribuire i dibattiti mediatizzati e inculcati nella testa degli italiani (a partire da quello delicatissimo sugli anni Settanta, che impedisce un’elaborazione di quanto accaduto nell’incredibile decennio successivo), la degenerescenza delle politiche culturali (di cui quella veltroniana, autoelettasi élite in tale àmbito è l’emblema definitivo, se messa a fianco dell’impolitica sottoculturale berlusconiana), l’incapacità di pensare sul piano geopolitico.
Rimane da scoprire se qualcuno tiri o meno le file di una simile situazione. Esercizio di investigazione che si può svolgere a tavolino, senza comprovare nulla: a parte rappresentanti del vecchio universo affaristico e politico, che continuano a rappresentare gli interessi americani e ad avere in casa linee dirette con i vertici di Sismi e Sisde, oltre che a ricordarsi tutto ciò che non è emerso in occasione di Bologna Ustica e via di seguito, la verità è che non può esistere alcun Grande Vecchio in una nazione tanto marginale come la nostra, che perfino nel Mediterraneo vale ormai meno dell’Egitto e non ha saputo adeguarsi al fatto che una delle assi geopolitiche fondamentali passava attraverso il suo territorio e ora non ci passa più.
Agli occhi stranieri siano quelli di investitori rettili e alligatori, oppure di semplici lettori di Le Monde o della Zeitung o dello Herald o del New York Times, l’Italia è la sede dove il Papa siede sullo scranno e parla a un miliardo di cattolici (anche se la metà sono protestanti o evangelici senza accorgersene) – e questo è l’unico motivo che muove interessi stranieri che se ne fregano bellamente dello Stallo, di cui il caso Telecom è l’inindagato livido dopo la botta, che risale ormai a più di dieci anni fa, qualche giorno prima che quella cappella funebre a Meina venisse spalancata e con essa la tomba del servo dei Padroni d’Italia.