di Carlo Babando

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Sua nonna raccontava sempre della notte in cui erano venuti al mondo.
A sentire la vecchia era una notte molto calda. Una di quelle afose notti di fine Luglio nelle quali dopo cena tutti gli anziani si mettono fuori a parlare davanti la porta di casa. Chissà cosa aspettano poi.
Diceva che il caldo era addirittura maggiore di quello che si sopportava nel dopopranzo. Un caldo asfissiante che affliggeva uomini e bestie.
A quei tempi, più di quaranta anni prima, le stalle erano ancora piene di cavalli e di mucche, e di mosche e di merda. I vecchi adoravano quella puzza pungente di merda e dicevano che era tutta roba che faceva bene al terreno.

Era una notte di fine luglio del 1955 ed era stata l’estate più calda che la famiglia Tucker ricordi. Pure il vecchio bisnonno Toy non ricordava maggior afa; un’annata poco buona per i campi e gli animali, che in quel periodo morirono in molti.
Erano quasi le ventidue quando Debby-Jane capì che il momento era arrivato.
Chiamò a gran voce il marito, Gary Tucker, e gli comunicò con sguardo spaventato che probabilmente, anzi sicuramente, stava per partorire.
Tutti i Tucker, da cinque generazioni, erano nati nella grossa fattoria vicino al lago, e anche per il figlio di Gary Tucker la storia sarebbe stata la medesima: sarebbe nato davanti il camino di casa Tucker, come suo padre, suo nonno e gli altri prima di loro.
Gary chiamò a gran voce i genitori e gli disse di preparare le pezze umide e tutto il resto mentre lui, rimboccate le maniche della camicia, prese la moglie in braccio e la fece stendere sulla poltrona antistante il camino, dove si sedeva sempre il bisnonno Toy a fumare e sbavare sul colletto della giacca.
Il parto, diceva la nonna, durò quasi cinque ore, sembrava quasi che non volesse uscire nessuno da lì dentro; ma al termine della quinta ora, quando il bisnonno si era già arreso all’idea che quella notte non avrebbe visto il suo pronipote, ecco che tutto terminò.
Debby-Jane perse molto sangue, per poco non ci rimase per sempre su quella poltrona davanti al camino, ma, tenendo stretta la mano forte e callosa del marito, non aveva paura di morire.
Il primo a vederli fu il nonno. Quando il nonno svenne fu la nonna che li prese in braccio e li avvolse in una coperta di lana pettinata.
Debby-Jane si addormentò subito e non ebbe neanche il tempo di delinearne i contorni. Gary si avvicinò alla madre con cautela, la reazione del genitore gli era sembrata esagerata, anche perché non era il primo nipote che nasceva tra le sue braccia.
La donna raccontava loro che il padre era felicissimo di averli tutti e due tra le braccia, ma per i seguenti diciannove anni ambedue non ebbero un rapporto molto forte con lui, era più che altro una sorta di rispetto reciproco.
Li chiamarono Ronnie e Steve, dal nome dei due nonni, ma tutti li chiamavano “i mostri di Georgie Town”.
L’america sudista era in subbuglio in quegli anni. Mentre da tutte le parti si cominciava a dimenticare la guerra e a predicare l’amore, nella loro piccola provincia c’era chi ancora girava con il fucile nel pick-up e sperava di usarlo contro qualche negro mangiamerda.
Anche la famiglia Tucker non era da meno, ma dopo la nascita dei due gemelli dovette, per forza di cose, essere un po’ meno attaccata alle tradizioni e al sostrato di razzismo che questo attaccamento comportava.
Erano due bei ragazzi, tutti e due biondi e con gli occhi verdi, come la madre, ma se tutti si giravano a guardarli non era per la finezza del loro volto, né per la profondità dei loro occhi.
Ronnie e Steve Tucker erano nati “male”, come si diceva allora.
I due gemelli erano attaccati dalla spalla fino al fondoschiena. Avevano un braccio per uno e la gamba buona era quella all’esterno; quella che stava dalla parte “malata” era debole e deambulava molto male, proprio per questo per camminare in maniera spedita i due dovevano fare forza entrambi all’interno evitando così di perdere l’equilibrio.
Erano cresciuti in fretta, certo non molto floridi, ma neanche pelle e ossa. Presi uno per volta avrebbero pure potuto giocare a baseball; in due la cosa si complicava terribilmente.
Furono accettati gioiosamente in famiglia, anche se con la componente maschile dei Tucker non ebbero mai molto da dirsi. La nonna e la mamma si occupavano di loro sin da quando erano nati.
Andarono a scuola come tutti gli altri ma, naturalmente, la loro vita fu un inferno a causa degli sberleffi dei coetanei, con quella cattiveria che solo i bambini posso raggiungere.
Non potevano dare una mano nei campi né nella stalla per evidenti problemi di coordinazione ma, chissà perché, non si pensò mai che si poteva “staccarli”.
Ci pensò solo una notte Steve, quando avevano sedici anni, ma tutti e due risero e si addormentarono nel loro lettone matrimoniale.
Qualche mese dopo il compimento del loro diciannovesimo anno di età Steve, che era il più introverso e timido dei due, cominciò ad avvertire dei dolori al petto.
Evitò di dirlo anche al fratello dato che lui sembrava non avvertire nessun tipo di fastidio.
Non erano mai usciti dalla loro cittadina, mai fatto un esame o un controllo. Così come la loro madre non aveva mai fatto nessun tipo di visita medica quando aveva scoperto di essere incinta: nella famiglia Tucker nessuno andava mai all’ospedale, c’era una cura per tutto.
Se si aveva mal di testa c’erano le tisane, per i dolori ai muscoli, gli impacchi, per il mal di pancia, le zuppe calde.
Steve non pensò minimamente ad un principio di infarto, nella loro famiglia mai nessuno aveva avuto un infarto; il bisnonno Toy era morto quando loro avevano dieci anni perché era caduto dalle scale, ma ogni tanto la notte sembrava di sentirlo ancora suonare il suo vecchio banjo.
I dolori cessarono dopo qualche minuto e il ragazzo se ne scordò, fino a quando un paio di giorni dopo risentì quell’ago pungergli il petto nel mezzo della notte.
Il fratello dormiva e lo lasciò dormire.
Meno di tre settimane dopo Steve Tucker era morto.
Ronnie non riusciva a svegliarlo quel mattino e, spaventato chiamò la madre.
Fu un gran dolore per le donne di casa Tucker, ma ancora più una grande sorpresa nello scoprire che la morte di Steve non aveva influenzato in alcun modo la salute del fratello.
Piansero tutti molto, anche il nonno, davanti il lettone dei due fratelli.
Steve era vestito di tutto punto con un abito nero che era stato del bisnonno Toy, e accanto Ronnie piangeva anche lui, disteso accanto al cadavere freddo del fratello.
Il problema si pose quando si capì che i due dovevano essere necessariamente divisi per permettere a Ronnie di sopravvivere. Senza un braccio e con una gamba malferma, ma vivo.
Naturalmente il ragazzo non potè uscire di casa in quei giorni e, per spostarlo, si dovevano mettere in tre ad alzare lui e il corpo di Steve.
Quest’ultimo fu coperto con un pesante panno nero, che avrebbe evitato il fuoriuscire di odori sgradevoli, e trattato con il massimo rispetto.
Ronnie cercava di abituarsi a convivere con il fratello. Stava imparando a spostarsi da solo facendo leva su una stampella di metallo. Stava riuscendo a irrobustire anche la gamba debole, costretta a trascinare il peso di un corpo di 65 kg.
Per una settimana intera gli uomini di casa si arrovellarono sul dilemma: come staccare i due fratelli senza farli uscire da casa e portarli da un dottore, o chissà chi altri, rendendoli fenomeni da baraccone davanti al mondo intero?
Era quasi l’ora di cena quando Gary Tucker prese la decisione e ne parlò al padre. Questi approvò e ne parlò alla moglie che a sua volta lo riferì alla nuora che dopo qualche secondo corse in bagno a vomitare e poi svenne davanti alla tazza.
I due uomini presero Ronnie e quello che rimaneva di suo fratello, in evidente putrefazione visti gli effluvi che trapelavano insistenti dalla coperta nera, e lo portarono nella stalla.
Il ragazzo aveva paura di un bel po’ di cose, quasi tutte forse, ma mai ne avrebbe avuta sull’operato del padre e del nonno.
Lo fecero stendere sulla paglia, quella che era stato il giaciglio di Momy, la vacca preferita di Toy Tucker.
Il vecchio tolse la coperta che ricopriva il busto e la testa di Steve, ma che lasciava miseramente scoperte le articolazioni inferiori, molli e senza vita, di quello che era stato suo nipote.
Ronnie chiuse forte gli occhi ma capì che non doveva piangere, una sola lacrima e suo padre avrebbe perso del tutto la stima che aveva di lui.
Gary prese la motosega, un gioiellino che aveva comprato da meno di un mese, alzò la tesa del suo cappello e tirò la cordicella che avrebbe “smosso” il motore.
Il rombo arrivò forte e cattivo come la risata del diavolo. Il ragazzo sentì il nonno sussultare mentre lo teneva fermo a terra.
Ronnie non sentì nulla, come se tagliassero un albero accanto a lui. Il respiro di suo padre si faceva sempre più affannoso, ma non aprì gli occhi per paura di quello che avrebbe visto.
Circa mezz’ora dopo tutto era finito; sentì il nonno allentare la presa e la motosega ammutolire il suo ruggito.
Aprì lentamente gli occhi e sentì le mani del vecchio che lo aiutavano ad alzarsi e appoggiarsi alla barricata di legno che divideva l’area nella quale stavano i cavalli da quella per le vacche.
La vista era un po’ annebbiata, vedeva solo una sorta di fuliggine rossa.
Focalizzò i particolari, vide suo nonno che rideva bonariamente. Era completamente coperto di sangue e parte degli organi interni di Steve appesantivano una falda del cappello del vecchio Tucker che, noncurante, li fece scivolare giù sul fieno ammucchiato ai suoi piedi.
Il ragazzo non resse e svenne.
La febbre durò quasi una settimana ma grazie agli impacchi della nonna, e al fatto che il padre aveva avuto l’accortezza di arroventare la lama della sega prima di tagliare, non ebbe nessun tipo di infezione seria. Il nonno ipotizzò che quella febbre probabilmente derivava dal fatto che nella stalla c’era sempre un gran freddo.
Suo fratello non c’era più, o quasi. Parte del busto gli era rimasto accanto, attaccato a lui, perché il nonno era sicuro che il cuore di Ronnie era spostato rispetto a uno “ordinario” e quindi avevano preferito lasciargli quel pezzo del fratello a fargli compagnia. Era come se Ronnie avesse un braccio appoggiato al fianco, ma in realtà era parte del petto e dello stomaco del fratello, coperto da una cerata di plastica, profumato con diversi tipi di erba aromatica e nascosto da una bella coperta marrone con ricami indiani. Una vera e propria sciccheria.
Passarono gli anni e Ronnie crebbe. La sua gamba si era notevolmente irrobustita ed utilizzava il bastone solo perché il suo corpo era sbilanciato, qualche chilo del fratello gli era rimasto attaccato al lato destro del suo corpo di venticinquenne.
Per uno strano accordo tacito e silenzioso nessuno parlò più di quella notte, ne nessuno più in paese lo chiamò mostro.
Non fu difficile, per chi non conosceva come era andata realmente la storia, credere che quel simpatico ragazzo biondo avesse un braccio fuori uso. Un incidente con la trebbiatrice del padre, raccontava lui.
Inutile dire che a Georgytown tutti sapevano come era andata, ma la storia, non superò i confini del piccolo paese di campagna.
Ben presto la vita agricola, una vita in cui il ragazzo era troppo poco produttivo, cominciò ad andare stretta a Ronnie. A trent’anni aveva fatto i suoi bagagli, salutato chi doveva salutare ed era partito verso la capitale, in cerca di una nuova vita.
Non aveva troppi soldi e dovette lavorare duro per potersi permettere di vivere dignitosamente in una piccola casa con il frigorifero pieno.
Dopo un paio di anni trovò anche una ragazza, faceva la cameriera in un fast food vicino casa sua, e presto decisero di sposarsi.
In fondo la famiglia Tucker era riuscita a mantenere il segreto. Anche Mary, la moglie di Ronnie aveva creduto all’articolazione “lesa” e orribilmente brutta da vedere. Sarà stato per il lieve ritardo mentale che la donna non si pose troppe domande.
Tutto sarebbe filato liscio se Ronnie, ormai quasi quarantenne, non avesse cominciato a sentire dei forti dolori a “qualcosa” all’altezza del petto, o meglio della porzione di petto che gli stava attaccata da un bel po’ di anni; il petto di suo fratello.
Sopportò per qualche giorno, poi senza dire nulla a nessuno (il padre ed il nonno non avrebbero mai dato il loro benestare) decise di farsi visitare da un dottore.
Si recò all’ospedale di buon mattino. Anche se lavorava come commesso in un piccolo negozio di antiquariato, e il suo turno cominciava alle nove del mattino, l’abitudine infantile lo spingeva a svegliarsi puntualmente alle sei e mezza.
Era molto spaventato, temeva procedimenti penali nei confronti del padre o del nonno, che molti anni prima si erano improvvisati chirurghi con la motosega, ma il dolore che sentiva era troppo forte; un trapano verde che gli perforava la bocca dello stomaco.
Il dottore, un simpatico cinquantenne del Midwest, si dimostrò molto gentile e comprensivo, quando si vide davanti un uomo con una coperta al posto del braccio r che parlava a monosillabi.
Poi vide quel che rimaneva di Steve, e svenne. Meglio, vomitò e svenne quasi contemporaneamente.
Dopo quasi tre ore Ronnie riuscì a farsi garantire dal dottor Patton che non avrebbe denunciato i suoi familiari e che lo avrebbero operato entro la settimana in una piccola clinica privata, se si poteva anche il giorno stesso. Certo, le assicurazioni non furono precisamente gratuite.
Patton lo chiamò dopopranzo, lo avrebbero operato due ore dopo.
Naturalmente Ronnie avrebbe continuato a portare la coperta legata in qualche modo anche dopo l’operazione. Non poteva permettersi di farsi scoprire dai Tucker; la reazione sarebbe stata del tutto imprevedibile.
In fondo era l’unico modo per rimanere ancora attaccato a Steve, a “qualcosa” di Steve.
Mary non chiese troppe spiegazioni quando Ronnie le disse che andava a farsi una partita a carte con un paio di amici. Due ore dopo era disteso su un lettino a rotelle bianco e blu, con una dose di anestesia in corpo e molta voglia di chiudere gli occhi.
A quanto poi gli dissero l’operazione durò quasi sette ore. Non c’erano stati grossi problemi all’inizio, le cose si erano complicate quando avevano visto che dentro l’agglomerato di carne che stavano cercando di separare dal suo torace c’era qualcosa.
Sapevano fare il loro lavoro, erano riusciti a portare a termine l’operazione nel migliore dei modi.
In una sola botta avevano fatto fuori quello che rimaneva di Steve Tucker, diagnosticato la sua morte, avvenuta tredici anni prima, e regalato un “pezzo” di corpo nuovo a Ronnie.
Il giovane Steve Tucker, vent’anni prima, aveva avvertito un fortissimo dolore al petto, prima di morire, quasi fosse un infarto. Il ragazzo non aveva mai provato un infarto, la sensazione che stava provando era molto più dolorosa. Un corpo estraneo gli stava smuovendo il cuore, alterando la circolazione interna e causando diversi trombi alle arterie.
Qualcosa stava spostando il cuore di Steve dalla sua locazione originaria.
Quella cosa era la mano di suo fratello Ronnie.
Dentro il corpo di uno dei due gemelli, stava crescendo l’altro. Il braccio di Ronnie era infilato dentro il torace del fratello e, per una illogica legge naturale, quel braccio, fino a quando non era diventato troppo lungo, non aveva causato nessun tipo di lesione agli organi interni.
Tutto il corpo di Steve era cresciuto praticamente attorno al braccio di Ronnie, che si era integrato perfettamente a questo.
Così adesso Ronnie aveva un braccio, non lo poteva utilizzare ancora ma, dopo qualche anno di fisioterapia, molto probabilmente sarebbe stato in grado di farci qualcosa.
Quella notte, dopo aver dato un paio di colpi a sua moglie, Ronnie Tucker ringraziò Dio e il fratello, che gli avevano concesso la fortuna di sopravvivere e di avere due braccia e due gambe come tutti gli altri.

Una settimana più tardi il braccio nuovo di Ronnie andò incontro a una velocissima putrefazione. A nulla valsero gli sforzi dei medici. Si dovettero arrendere e limitarsi a fare spallucce. D’altra parte il paziente aveva sempre vissuto con un braccio solo, non sarebbe cambiato granché.
Ronnie pianse molto, amava il suo nuovo braccio, già pregustava l’idea di fare un paio di flessioni o dare una zappata al campo del nonno con la forza di un vero uomo.
Si mise a piangere come una ragazzetta. Se lo avesse visto suo padre gli avrebbe gridato contro qualcosa a proposito dell’essere un Tucker.
Rialzò il viso e si guardò allo specchio gli occhi arrossati stampati sul viso bianco e smagrito.
Dietro di lui c’era una faccia che sorrideva sarcastica.
Focalizzò meglio tra le lacrime che gli annebbiavano la vista. Era Steve Tucker che stava ridendo di lui, indicandogli il moncherino.
Era la prima volta che suo fratello lo prendeva per il culo.