di Tommaso Di Francesco
(da il manifesto, 19 luglio 2006)

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[Riportiamo, per la sua estrema chiarezza, questo articolo di Tommaso Di Francesco. Lo corrediamo solo con alcune note. Mai come ora i dirigenti occidentali, il 90% dei politici italiani e il 95% della nostra stampa hanno fatto così schifo, e sono stati tanto lontani dalle opinioni della larga maggioranza dei cittadini. Nella foto, un futuro hezbollah libanese, punito a dovere.] (V.E.)

Non se ne può più dell’uso sproporzionato della menzogna. Adesso tutti cadono dalle nuvole e Bush ha la faccia tosta di dire dal caso del G8 che «tutto andava bene, eravamo applicati alla pace, studiavamo la road map…», ripetendo l’intercalare di bugie che ci vengono propinate sul conflitto israelo palestinese, a cominciare dalla tempistica che mette dopo quel che invece è accaduto prima: parliamo del terrorismo di stato che dall’alto degli aerei F-16 bombarda spiagge e case civili nel centro di Gaza City uccidendo decine di bambini e alla fine, dopo, l’attacco hezbollah sulla frontiera libanese. Una escalation chiama l’altra e non viceversa.

L’aggravamento e la nuova internazionalizzazione della crisi mediorientale avvengono non a freddo, ma dentro una strategia che vede Israele impegnata a distruggere Hamas e la sua leadership uscita democraticamente vincente dalle elezioni palestinesi soltanto sei mesi fa e intenzionata a portare avanti con Olmert quello che Sharon aveva già deciso: il ritiro unilaterale – vuol dire come e dove vuole Israele senza contrattare nulla con i palestinesi, altro che chiacchiere sulla road map – solo da Gaza, lasciando le colonie più importanti in Cisgiordania (protette dall’esercito), con l’occupazione di Gerusalemme est, senza liberare i quasi diecimila prigionieri palestinesi, senza possibilità di rientro degli ormai 3 milioni e mezzo di profughi palestinesi sparsi per il Medio Oriente, e con la continuazione del Muro che strappa terre ai palestinesi e impedisce con gli insediamenti «legali» una qualche continuità territoriale all’eventuale Stato di Palestina.
Così stanno le cose. E’ vero, Hamas non riconosce lo stato d’Israele – esplicitamente, perché accettando una recente risoluzione dell’Anp sul ritiro israeliano entro i confini del ’67, di fatto va anche oltre – ma possiamo forse dire che il governo israeliano riconosce la possibilità, nei fatti, che esista lo stato palestinese? E quando riaffermiamo la convinzione nei due popoli due stati, sappiamo o no che uno stato esiste ed è forte e internazionalmente riconosciuto, l’altro, quello palestinese, non c’è, ed è appeso ad un mucchietto di pezzi di carta?
Questa condizione di «normalità» si è consumata con la morte di Arafat, deriso di fronte al suo popolo mentre veniva relegato in un angolo di una stanza della Muqata, nel dicembre 2004 e si è aggravata poi con l’avvento del governo di Hamas. L’unica novità, se così si può dire, è stato il più che totale abbandono dei palestinesi da parte dell’Unione europea. Ma abbandono è dire poco, l’Ue ha partecipato delle sanzioni indiscriminate del mondo contro i palestinesi colpevoli di avere scelto un movimento integralista pulito a forze nazionaliste impotenti quando non apertamente corrotte. Così in un grande campionato mondiale di menzogne, invece di aiutarli i palestinesi, li abbiamo affamati dentro le prigioni collettive di Gaza e Cisgiordania, aiutando invece con trattati militari Israele. Ora ci rammarichiamo che altri che non ci piacciono siano arrivati in soccorso a rompere l’isolamento palestinese.
La crisi torna ad internazionalizzarsi nel modo peggiore con una azione e armata degli hezbollah libanesi. Attenzione, perché non è mai stato un bene per i palestinesi, costretti, di fronte all’abbandono dell’Occidente, ad aggrapparsi a regimi arabi che quando hanno potuto li hanno massacrati come e più degli israeliani. Ma sarebbe altrettanto giusto ricordarsi che la crisi mediorientale nasce da un processo di internazionalizzazione, la cacciata dei palestinesi dalla loro terra (la Nakba) ad opera dell’esercito e delle milizie israeliane – con metodi che Albert Einstein e Annah Harendt e decine di personalità religiose e intellettuali dell’ebraismo definirono apertamente «fascisti» in un appello sul New York Times del 1948 (1). Una cacciata che a partire dal 1948 porta i nuovi profughi in molti degli altri paesi arabi che da quel momento in poi saranno condizionati e trasformati indirettamente e direttamente da quella nuova presenza, come il Libano, la Giordania, la Siria. Una internazionalizzazione confermata da due risoluzioni delle Nazioni unite che chiedono da 35 anni a Israele di ritirarsi dai territori occupati militarmente con la guerra del ’67 (2), misconosciute come quelle che chiedono il ritiro dalle alture del Golan siriano occupato. Risoluzioni che Israele disprezza e non rispetta, mentre invece il premier israeliano Olmert chiede in queste ore il riconoscimento della risoluzione che impone al governo di Beirut di disarmare le milizie hezbollah. Ma come, senza un impegno per una pace generale in Medio Oriente, anche con la Siria che chiede la liberazione del Golan e a partire da quel grande territorio occupato rappresentato dall’Iraq? Inoltre è giusto non dimenticare che, dopo l’11 settembre e le due guerre che ne sono seguite in Afghanistan e Iraq, il fuoco della crisi mediorientale non ha confini territoriali riducibili al Muro israeliano. Al contrario si diparte dal nodo irrisolto della Palestina e da quello incendia tutta l’area, perché la non soluzione di quel problema costituisce la base e l’alimento di ogni agire politico, compreso il terrorismo islamico nell’area. In uno straordinario libro uscito in questi giorni di Paolo Barnard (Perché ci odiano, Rizzoli ed.) si riporta il testo di un messaggio di Osama bin Laden del 2004, accreditato dalla Cia proprio per l’ossessione al riferimento «libanese», che dice: «Gli eventi che ebbero influenza diretta su di me si svolsero nel 1982 e poi successivamente quando gli Usa permisero a Israele di invadere il Libano con l’aiuto della sesta flotta. Cominciarono a bombardare e tanti morirono altri dovettero fuggire terrorizzati. Ancora ricordo quelle scene commoventi – sangue, corpi dilaniati, donne e bambini morti; case sventrate ovunque e inetri palazzi che furono fatti crollare sui loro residenti…Tutto il mondo vide e sentì, ma non fece nulla. In quei momenti critici fui sopraffatto da idee che non posso neppure descrivere, ma esse svegliarono in me un impulso potente a ribellarmi all’ingiustizia e fecero nascere in me la ferma determinazione a punire l’oppressore».
Attenti all’uso sproporzionato della menzogna.

Note di Carmilla:
1) La leggenda secondo la quale la maggior parte dei palestinesi abbandonò spontaneamente, nel 1947-49, la propria terra, è stata smentita da eminenti storici israeliani. Tra questi Ilan Pappe, in A History of Modern Palestine: One Land, Two Peoples, Cambridge University Press, 2003; e Benny Morris, The Birth of the Palestinian Refugee Problem Revisited, edizione ampliata, Cambridge University Press, 2004. In questo secondo volume Benny Morris (tra l’altro politicamente vicino alla destra israeliana), documenta anche il ricorso allo “stupro etnico”, da parte delle truppe sioniste, per spargere il terrore fra le popolazioni arabe della Palestina.
2) I governanti israeliani riuscirono a far credere all’opinione pubblica mondiale che, in occasione della “guerra dei sei giorni”, furono gli aggrediti e non gli aggressori. Anche questo è stato smentito, con abbondanza di documentazione, dallo storico israeliano Benny Morris, nel volume Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Rizzoli, 2001.