di Jean Chesneaux
(Estratti dall’intervento al convegno “Mao Zedong: storia e politica dieci anni dopo”, Urbino, 1986)

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[Dopo l’articolo di Franco Fortini, vi proponiamo un’altra riflessione sul significato storico del maoismo, che non ne nasconde limiti e fallimenti, ma capovolge più di un luogo comune, restituendoci alcuni elementi del pensiero di Mao di stringente attualtà.] (R.S.)

Si tratta di «idee fondamentali del maoismo», di affermazioni e interrogazioni nate dalla pratica rivoluzionaria cinese. Queste idee sono fallite tragicamente. Mao e i maoisti non avevano i mezzi politici adeguati alle loro esigenze e alle loro speranze, è un’altra storia, una storia di paura, di sudore e di sangue… Ma questa sconfitta politica non deve impedirci di riflettere sulla parte di universale contenuta nel progetto storico maoista. .
Sono profondamente convinto che l’umanità si ponga anche dei problemi che non può risolvere. Tanto meglio! Quando Marx sosteneva il contrario restava fedele all’ottimismo dell’«Illuminismo», e alla fede hegeliana nella razionalità.

Gli aspetti negativi del maoismo sono evidenti, come l’incapacità ad apprendere e ancora meno a controllare eventi di macroeconomia e demografia. Gli aspetti ormai vecchi sono altrettanto evidenti, come la strategia dell’accerchiamento delle città da parte delle campagne. Ho scelto di riflettere su quegli aspetti del maoismo che continuano ad avere un senso per noi occidentali, mentre la Cina maoista si allontana da noi nello spazio e nel tempo, come un pianeta distante.

1. Il maoismo come pratica dell’intelletto. Viviamo non soltanto una crisi degli intellettuali, ma una crisi dell’intelletto, il procedimento intellettuale di Mao può ancora, a trenta o quaranta anni di distanza, essere un aiuto prezioso. L’indispensabile contatto tra lavoro intellettuale e pratica sociale. Dico pratica sociale e non praxis, termine ambiguo perchè troppo sovente usato come alibi da intellettuali rinchiusi nel loro sapere libresco e nella loro microsocietà elitista. Il legame con la pratica sociale è la capacità di situare la propria attività intellettuale nella realtà sociale circostante nel movimento generale della società. La pratica sociale è un rapporto attivo tra il lavoro intellettuale e le opzioni politiche e sociali di ognuno. (…) Il legame con la pratica sociale si esprime in una particella grammaticale molto semplice, quella che definisce la relazione tra l’intellettuale e l’oggetto della sua attività. Ci sono coloro che «lavorano su» il movimento operaio, la politica internazionale, le pratiche culturali. E ci sono quelli che «lavorano con» i sindacati, i movimenti antinucleari, l’ambiente in generale. (…)

2. I problemi dello sviluppo. È forse in questo campo che si potrebbe parlare di una rivincita postuma del maoismo. La crisi dello sviluppo è oggi aperta in modo apparente in tutto il Terzo mondo. Analisi critiche degli «economisti radicali» come François Partant e Serge Latouche. Attività delle Organizzazioni non governative che cercano tentativi di rottura con il modello occidentale. Nuove lotte popolari che attaccano direttamente le riforme del Fondo monetario internazionale, le società multinazionali, la tecnologia pesante (dighe giganti), e non più solamente il potere politico oppressore. Gente che non ha mai letto una riga di Mao «fa del maoismo senza saperlo»…
Le tecnologie appropriate. Il loro principio è di ricorrere per quanto è possibile a delle competenze, a delle pratiche, a degli strumenti che siano allo stesso tempo adatti all’ambiente naturale e al terreno sociale. Gli esempi sono numerosissimi. Le case di terra di Hassan Fathy. Le toilette vietnamite che producono direttamente fertilizzanti. Bocche di areazione circolari fra la sommità del muro e l’estremità inferiore del tetto. Essiccatoi per il pesce e forni a calce del sud del Pacifico, che riducono le importazioni di cemento e di pesce in scatola. (…) Queste tecnologie appropriate rappresentano un notevole calo nell’uscita di valuta pregiata, implicano una dipendenza molto debole nel confronti degli esperti esteri (esperti sovietici nella Cina degli anni cinquanta, esperti dell’Onu nell’Africa di oggi). (…) Il salto in avanti, tanto criticato dai sinologi occupati a riprodurre il discorso ufficiale cinese (del momento…), rappresenta secondo il parere dei tecnici dell’Ocse, come N. Jéquier, l’unica esperienza di messa in atto di tecnologie appropriate a scala nazionale. Sia in termini di mobilitazione del sapere popolare tradizionale, sia come movimento di innovazione interno all’ambiente tradizionale. E questo resta, anche se il «balzo in avanti» presentava anche aspetti ben diversi: gigantismo utopico, sfida alla siderurgia inglese, costrizioni brutali…
La contraddizione città-campagne. L’esplosione urbana operante sotto forme sordide e regressive (periferie, bidonvilles) è uno dei disastri maggiori del Terzo mondo in preda allo «sviluppo». Solo la Cina maoista ne era stata risparmiata… Sia per via delle sue opzioni ideologiche: le campagne rappresentano valori culturali e sociali intrinseci, hanno un avvenire proprio, diverso da quello di riserva umana e rifornitore delle città. Sia per via della sua strategia economica: assicurare in loco la diversificazione delle attività di produzione, il pieno impiego, l’accumulazione, la soddisfazione dei bisogni di base. Questo era il progetto delle comuni popolari fino al momento del loro smantellamento da parte di Deng, questo è oggi il progetto delle «comunità ecclesiali di base» in Guatemala o in Brasile. Cosi, a più di venti anni di distanza, ambienti sociali e religiosi totalmente estranei alla tradizione maoista riscoprono la critica dello «sviluppo» centrato solo sui poli urbani. (…)
«Contare sulle proprie forze» (ziligengsheng).Questo principio cardinale del maoismo si ricollega allo «sviluppo endogeno, autonomo e auotcentrato», la cui importanza viene sempre più riconosciuta nel Terzo mondo oggi, quanto più diventa evidente il fallimento del modello occidentale. (…) La necessità dell’autosufficienza, per quanto ardua possa essere la sua applicazione, appare evidente a tutti coloro che in questi paesi, rifiutano l’egemonia delle produzioni rivolte verso l’estero, la marginalizzazione della classe contadina, la dominazione degli strati sociali beneficiari dello sviluppo «moderno».
Questo è il paradosso della Cina degli anni ottanta. Negli anni sessanta la Cina maoista poneva dei problemi fondamentali, che era essa stessa incapace di risolvere per la pesantezza e l’inerzia del partito-Stato, e non è bastato proclamare «fuoco sul quartiere generale» per spezzare questa pesantezza e questa inerzia. Ma la Cina maoista questi problemi li ha posti, mentre il resto del Terzo mondo si abbandonava ai miraggi della «rivoluzione verde», all’ ebbrezza dell’ estroversione, dell’urbanizzazione, della statalizzazione parassitaria. Oggi, un quarto di secolo pili tardi, i paesi dell’America latina, dell’ Africa nera, dell’ Asia meridionale, hanno fatto l’amara esperienza della «rivoluzione verde». I loro contadini sono rovinati, a parte un piccolo strato di profittatori, i loro Stati sono rovinati dai debiti. Ed ecco che la Cina ex maoista, rifacendosi imprudentemente a esempi molto minoritari e circostanziati, come Taiwan o la Corea del sud, s’imbarca in un modello di sviluppo sostenuto da Deng Xiaoping, modello che si è rivelato disastroso per almeno la metà della umanità. Strana inversione delle linee di sviluppo!
Quale sviluppo? E quindi. Quale classe portante» dello sviluppo? Il costo politico e sociale dello «sviluppo» nel Terzo mondo è l’avvento della neoborghesia di Stato come classe sociale che si è accaparrata gli ingranaggi politici dello Stato, nati in seguito all’indipendenza, e il cui potere, la cui prosperità, la cui autorità culturale derivano dal fatto che questi paesi seguono il modello occidentale di sviluppo. Queste persone, come Bongo o Mobutu, vengono chiamati gli «agenti dello sviluppo». La dominazione di questa classe dirigente è fondata innanzi tutto su un progetto politico, una linea di sviluppo e non sul controllo diretto dei mezzi di produzione, anche se i profitti provenienti dalla loro posizione nell’apparato statale, non fanno loro certo dispiacere… Questo è il caso delle bande militari al potere in Africa nera o in Indonesia.
Le analisi di Mao ci aiutano a capire l’originalità di questa classe-Stato e il suo processo di formazione. Il modello moderno di «sviluppo» fornisce le condizioni per la sua stessa autoriproduzione: educazione del figli all’estero, nepotismo e favoritismo, una rete di relazioni private negli ambienti «internazionali». Tutto questo non è molto diverso dalla hou men, dalla «porta di dietro» cosi come la denunciavano negli anni sessanta i maoisti radicali e le guardie rosse. La «porta di dietro» è una formula di grande attualità nei «nuovi Stati» del Terzo mondo. E non è senz’altro una formula priva di significato nella Cina di Deng, tanto che spesso sarebbe interessante sapere tramite quale rete di relazioni un dato beneficiario di viaggi all’estero ha potuto ottenere questo favore.
Mao aveva sempre ripetuto che nella Cina popolare, come in tutti gli altri paesi del socialismo reale, gli strati privilegiati non sono dei semplici resti di formazioni storiche più antiche (feudalesimo, capitalismo), come invece sosteneva Stalin, che sperava cosi di poter eludere il problema della sua propria base sociale. Mao pensava che la costruzione del socialismo e del singolo stato socialista comportava necessariamente la formazione di una nuova borghesia doppiamente privilegiata dalla sua posizione all’interno del partito e dello Stato, e i cui interessi di classe coincidevano con la crescita del partito-Stato.

3. Il movimento generale della storia. La linea di sviluppo (in Mao la «linea generale»). Si tratta dell’idea che per capire una società, una formazione storica, non è sufficiente riferirsi al «modo di produzione» dominante, come sostiene invece il marxismo classico. Bisogna analizzare il movimento politico, il «progetto della società». Il maoismo proponeva una «linea generale» di sviluppo, basata come in Unione Sovietica su dei rapporti di produzione socialisti, sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione, e che tuttavia era completamente diversa dal progetto sovietico, per quello che riguarda l’importanza delle tecnologie pesanti, la direzione centralizzata, gli esperti. (…)

4. Il posto delle forze produttive nel divenire sociale. Forse è proprio questo Il punto dove Mao si allontana più radicalmente dal marxismo accademico classico (stile Mosca, stile Parigi, o stile Hanoi…). Secondo quest’ultimo, il «movimento impetuoso» (cosi dicevano i nostri manuali) delle forze produttive s’impone sull’intera società, per mezzo della famosa «legge di corrispondenza» fra forze produttive e rapporti di produzione, Il Partito comunista francese ha invocato questo tipo di marxismo per giustificare la sua accettazione delle centrali nucleari, della automobile personale, del Concorde, dei computer. È un’accettazione incondizionata che deriva da una filosofia dell’irreversibile e dell’ineluttabile. Lo sviluppo tecnologico diventa quindi «giusto» per principio. Cogliamo l’occasione per notare che questo «feticismo delle forze produttive» riconcilia lo stalinismo con gli adepti dello sviluppo «all’americana»,
Mao, senza dubbio più fedele alle prime idee di Marx, era invece convinto che le forze produttive dovevano essere l’oggetto di un severo controllo selettivo. Non soltanto esse non sono necessariamente «positive» ma non sono neanche «neutre». Questo controllo selettivo è un controllo politico, gli uomini assumono la gestione politica del loro futuro. Ritroviamo qui «la politica al posto di comando».
Il rifiuto maoista del «diktat tecnologico» è di grande interesse per il dibattito teorico tra marxisti ed ecologisti. Anche se questo dibattito è oggi più avanzato in occidente, in Italia o in Germania per esempio (ma non in Francia), di quanto lo fosse in Cina, anche sotto Mao… Perché è in occidente che appare in maniera più brutale la contraddizione tra il carattere limitato e finito dell’ecosfera, nello spazio in cui necessariamente si iscrive ogni progetto di società, e la pretesa della società industrialista (versione americano-giapponese o versione sovietica) al progresso indefinito. Noi dobbiamo vivere con l’ecosfera, non dominarla, non «vincerla» come se ci fossero delle risorse a nostra disposizione in maniera illimitata.
Per Mao, la storia umana procede attraverso crisi e squilibri. Approccio questo che è in totale contraddizione con l’ideologia oggi dominante, che si situa «da qualche parte» al punto di incontro del neoliberalismo reaganiano con il neo-saint-simonismo tecnocratico. «Da qualche parte» tra Akademgorod e il Miti giapponese, si profila una società di gestione programmatica e di controllo delle macchine, dove il «computer» sarà il Grande Ordinatore onnipotente, al tempo stesso faustiano e dostoevskiano. Una società di programmazione generalizzata, di banalizzazione culturale, e di controllo sociale «in tempo reale» e in «massa reale». (…) Cosi, per dirla con le parole di Saint-Simon che Stalin amava citare, la storia umana passerebbe «dal governo degli uomini alla amministrazione delle cose». Oggi in California ci viene per esempio proposta una «casa intelligente» capace di reagire da sola all’odore di un arrosto bruciato, agli strilli di un bambino che si è fatto male, al rumore di vetri infranti da un ladro. Oggi in Giappone ci viene promessa una «piattaforma produttiva mobile», capace di calcolare, grazie al suo computer di bordo, se conviene di più ancorarsi in prossimità di zone di produzione di materie prime, di regioni con manodopera a buon mercato, o di mercati di distribuzione, il tutto in base all’analisi delle variazioni concomitanti di queste tre serie di dati. Questi sono solo due esempi della società di autoprogrammazione generalizzata.
Ma la storia umana, ci ricorda Mao, è fatta di crisi, di rotture, di passi indietro, di fasi di stagnazione, di scontri, di scissioni, di incertezze. Le incertezze aumentano e le tempeste si accumulano attorno al nostro Mare di Tenebre. (…)