di Valerio Evangelisti
(da Robot n. 48, 2006)

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Io difendo Steven Spielberg. Tutti quanti hanno detto che il suo La guerra dei mondi è una gran boiata. Ora, io non mi permetto di negare che sia una gran boiata; però affermo che Spielberg ha inteso impartirci una grande lezione, che va al di là di ogni giudizio estetico e narrativo. Non esistono forse brutti libri rimasti memorabili perché contengono un monito o una lezione di vita? (adesso non me ne viene in mente nessuno, però so che esistono). Ecco, con La guerra dei mondi siamo di fronte a un caso del genere.
Qui dovrei fare amare considerazioni sulla superficialità e l’ignoranza di tanti critici cinematografici, incapaci di cogliere un messaggio che viene ripetuto quasi in ogni scena. Me ne astengo e passo direttamente a una disamina che, suppongo, spingerà molti a dire: “Ma guarda! E’ vero! Non ci avevo pensato!” E’ logico che lo spettatore possa non pensarci, ma è inammissibile che lo faccia un critico. Vabbe’, lasciamo perdere…

La trama del più noto romanzo di H.G. Wells credo che sia conosciuta da tutti. Da Spielberg non lo so (forse non l’ha mai letto, non era indispensabile), visto che non al romanzo si ispira, bensì al film del 1953 di Byron Haskin, rimasto nella memoria di chiunque e dunque anche nella sua. Haskin, rispetto a Wells, aveva semplificato molto, e la sua storia era così riassumibile: arrivano i marziani, uccidono un sacco di gente, tutti scappano da tutte le parti, finché Dio, creatore dei microbi, non uccide gli invasori. La trama ideata da Spielberg è molto più complessa: arrivano i marziani, uccidono un sacco di gente, tutti scappano da tutte le parti strillando a perdifiato, finché Dio, creatore dei microbi, non uccide gli invasori.
Quello “strillare a perdifiato” va attribuito a un solo personaggio del film: una bambina odiosa e saccente che, tra un predicozzo e l’altro, per l’appunto strilla, tanto che lo spettatore, alla fine, teme più lei che i marziani. La bambina ha del resto un fratello altrettanto antipatico e saccente, che non strilla ma di predicozzi ne fa una quantità.
Ciò lascia intuire il dramma del padre (separato dalla moglie), un Tom Cruise che comincia a scappare all’inizio del film e si ferma solo alla fine, fondendo la propria tragedia personale con quella collettiva dell’invasione. Uno si immagina che scappi dai figli insopportabili, o quanto meno che approfitti della catastrofe per darli da mangiare ai marziani. No, è il contrario: buona parte delle corse di Tom Cruise sono per recuperare l’uno o l’altro dei pargoli, che hanno l’insana abitudine di approfittare di ogni occasione per sgattaiolare via, e sempre nella direzione sbagliata.
Ma soffermiamoci sui marziani stessi. Intanto lo dico io che sono marziani (dimostrerò poi che non lo sono), memore di Wells, di Haskin e anche di Orson Wells. Nel film non viene mai detto (e pour cause). Hanno del resto abitudini completamente diverse dai marziani tradizionali. Invece di scendere dal cielo entro cilindri (come nel romanzo) o palle di metallo (come nel film del ’53), sbucano dal sottosuolo.
Per essere più precisi, la dinamica è la seguente: 1) fulmini opportunamente manovrati, scagliati da nuvoloni neri che ricordano tanto Independence Day, scavano profonde buche nel terreno; 2) di qui escono potenti macchine dalla forma bizzarra (tipo gigantesche meduse montate su zampe), nascoste sotto terra un sacco di tempo fa; 3) i marziani — se ho capito bene, perché la cosa non è affatto chiara — raggiungono le macchine dentro piccole capsule nascoste entro i fulmini, tipo cabine d’ascensore.
Se tutto ciò non avesse un significato allegorico, vorrebbe dire che Spielberg si è completamente rincoglionito (e qualche commentatore incauto sostiene che ciò è avvenuto davvero, e da una decina d’anni almeno). Tra l’altro, quelle macchine dovevano essere nascoste davvero in basso, per passare inavvertite durante i secoli, a meno che la metropolitana di New York non sia, per l’appunto, una leggenda metropolitana. Ma il significato allegorico c’è, e basta svelarlo perché tutto quadri.
Per arrivarvi, torniamo a Tom Cruise. Spielberg ha dichiarato di avervi voluto raffigurare la classe operaia americana, e infatti vediamo che Cruise lavora al porto di New York e che fuori dell’uscio di casa ha la bandiera. Ma quali sono gli altri attributi sociologici che renderebbero rappresentativo il personaggio? Be’, uno solo: la sporcizia.
Fateci caso: proprio all’inizio del film, appena tornato dal lavoro, maneggia bidoni della spazzatura. La sua abitazione è un vero immondezzaio, con cibi, lattine e carabattole sparse ovunque. In fuga dai marziani si sposta in un’altra casa e subito cosparge di briciole un tavolo e sporca uno specchio. In seguito va prevalentemente per cantine, tra ragnatele e polvere. Indossa in permanenza lo stesso giubottino marrone che aveva al porto e che, probabilmente, alla fine è talmente lurido che sta su da solo.
In genere, poi, anche i marziani si muovono nella sporcizia, oppure la producono essi stessi. Prima e dopo il loro passaggio non c’è strada che non sia polverosa, invasa da cartacce, bidoni rovesciati, pezzi di legno. Liquami nerastri scorrono ovunque e si addensano attorno a grumi di erbaccia rossastra che sembra muco. Spielberg ha addirittura comperato e fatto a pezzi un intero Boeing, pur di sporcare un villaggio troppo pulito.
Coraggio, ormai ci siete… Invasori che escono a frotte dal suolo, che proliferano nella polvere e nella sozzura… Aggiungete che le macchine dei marziani hanno zampe e corpo ovoidale, e che i marziani stessi sono in tutto simili agli ordigni che li trasportano…
Credo che anche il più sprovveduto dei miei lettori abbia ormai intuito la verità. I marziani in realtà non c’entrano un tubo, e Spielberg non è rincoglionito proprio per nulla! Con la sua geniale parabola, ci ha voluto additare il vero pericolo che ci minaccia tutti: gli acari! Gli acari della polvere, che nessuno di noi vede ma che tutti combattiamo, da quando gli americani ci hanno persuasi a farlo! Con costosissimi liquidi da spruzzare, con cuscini anti-acaro, con materassi anti-acaro, con depuratori d’aria e con filati acaro-repellenti! Una guerra eterna e giusta, di cui non vediamo i risultati, data l’invisibilità del nemico, ma a cui sarebbe stolto rinunciare.
Guardate l’immagine ingrandita di un acaro e un “marziano” di Spielberg: identici, malgrado le zampe, nel secondo caso, siano più numerose e più lunghe. Considerate il breve prologo del film, in cui si scorgono creature microscopiche e poco rassicuranti ondulare tra filamenti, mentre una voce fuori campo dice che intelligenze malevole ci stanno osservando da tempo immemorabile…
Ma, osserverà qualche povero di spirito, gli acari non escono dal sottosuolo. Inviterei costui a leggersi il terzo capitolo del libro ottavo dei Miserabili di Victor Hugo, in cui si spiega che San Didoro, arcivescovo di Cappadocia, volle che sul suo sepolcro fosse apposta la scritta Acarus, allora inteso come verme della terra. Spielberg forse non ha letto Wells, ma di sicuro ha letto Hugo.
Insomma, sotto le false apparenze della stronzata innominabile, il grande regista ci ha chiamati a raccolta per una nuova, grande guerra per l’igiene e la pulizia del mondo.
Saremo sensibili all’appello. Siamo sempre pronti a combattere con gli americani, che ne capiamo o no la ragione. Tanto Dio è con noi. O meglio, con loro, il che fa lo stesso.