di Marco Campi

distruzioneamerica.jpgIl “fratello” Carlos inizia a parlare, il viso celato dal cappuccio. Un breve discorso, non più di dieci minuti; sufficienti a raggelare l’uditorio, della grande loggia coperta della massoneria di Buenos Aires.
Il piano viene approvato all’unanimità, i programmi del “fratello” Carlos
non si mettono mai in discussione. Soprattutto perché non è lui a farli!
Il “fratello” Carlos è solo il portavoce, di una “grande ombra” che solo pochissimi conoscono.
Marcos ha già capito, prima della conclusione del discorso, che lo avrebbero chiamato per quel compito. Esce dalla sala, si toglie il cappuccio e raggiunge a piedi le banchine del porto, nella vecchia Baires.
E’ sempre andato lì a riflettere, nei momenti determinanti della sua vita. Tra l’odore di mare e di salsedine, le vecchie case, le navi provenienti da tutto il mondo. Su queste banchine arrivò il suo bisnonno, dal Veneto italiano, per sfuggire ad un destino di miseria e pellagra.
Si siede in un bar all’aperto, coi tavolini lungo le banchine del porto. Era venuto qui anche trent’anni prima, quando decise di lasciare la guerriglia Montoneros della “risaia” di Buenos Aires.
Appoggia il telefonino sul tavolo, pronto a rispondere. Chiameranno certamente lui, ora, per realizzare una parte importante del piano del “fratello” Carlos: contattare le F.A.R.C. colombiane di Tirofijo Marulanda, l’ultima guerriglia rimasta in America Latina.
Il telefonino squilla, di fianco alla ciotola del Mate.

Due giorni dopo, Marcos è su un volo Avianca diretto a Bogotà, in Colombia. L’emissario del “fratello” Carlos è stato chiaro; stabilire un contatto organico tra la massoneria argentina e la guerriglia colombiana.
Marcos la conosceva bene, la guerriglia delle F.A.R.C.! All’età di vent’anni, era rimasto due mesi a San Miguel del Caguan, la capitale del piccolo stato guerrigliero. Era lui a mantenere i contatti internazionali dei Montoneros argentini. Giovane, bello, di famiglia ricca, insospettabile, poteva viaggiare ed uscire dal paese a proprio piacimento. Rischiò anche di venire catturato dall’esercito uruguaiano a Montevideo, dove vide la fine tragica del movimento Tupamaros. Intuì in anticipo l’evolversi della
situazione politico-militare nell’America del Sud. Perorò con vigore un cambio di strategia nell’esecutivo Montoneros, ma invano. Uscì dall’organizzazione, si confidò con la famiglia. Due anni di studio, in Europa, gli permisero di sfuggire per un pelo alla dittatura dei generali. Riuscì a rientrare in Argentina, grazie ad acque più calme ed a generali “ammorbiditi” dai soldi dei genitori. Accettò un incarico dirigenziale nelle imprese di famiglia: grandi fazendas ed industrie agro-alimentari. Alla morte del padre ereditò gran parte del patrimonio, come la posizione all’interno della loggia massonica di Buenos Aires. Non rinnegò mai il suo passato, né fece mai nomi dei suoi compagni di guerriglia. Compilò in modo esauriente il formulario di massone, con tutte le informazioni sulla sua vita. Per correttezza, ma anche perché sapeva bene che sarebbe stato confrontato con schede analoghe di ben altri archivi.
Distrattamente, Marcos scruta i volti dei suoi compagni di viaggio.
– Forse quello,… chissà? – pensa, immaginando un uomo del sedile accanto con un cappuccio sulla testa. – Ma no, non è possibile, non hanno incaricato nessuno di seguirmi. Non servirebbe a niente, né a controllarmi, né a proteggermi. – .
Guarda in basso e vede nell’oblò, sull’altipiano, le prime case di Bogotà, la capitale della Colombia, la città degli smeraldi. Passaggio cruciale per la riuscita, in America del Nord, della temeraria “Operazione Zama”.

– Buenos dias. -, il saluto della bella receptionist lo accoglie, nella hall dell’Holiday Inn di Bogotà. L’ultima oasi di lusso, prima della selva.
Sale in camera, si accomoda in una sedia di vimini sul terrazzo e chiude gli occhi. Gli rimbombano, martellanti, nella testa, le parole dell’emissario del “fratello” Carlos: – Il futuro del tuo paese e di tutta l’America Latina è anche nelle tue mani. Ricordatelo! – .
L’ “Operazione Zama”. La reazione argentina alla sua disastrosa situazione economica e sociale. Fare saltare il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio, il WTO. Destabilizzando la nazione che li dirige e li ispira, a proprio esclusivo vantaggio, gli Stati Uniti d’America. Innescare conflitti etnici e sociali tra le varie componenti ed etnie della società nordamericana.
– Gli Stati Uniti hanno organizzato e finanziato conflitti etnici in ogni parte del mondo, pensando che nessuno avrebbe osato fare altrettanto con loro! Beh, si sono sbagliati. – .
Gli scorre davanti agli occhi, come un film, l’incontro con l’emissario del fratello Carlos.
– Non hanno calcolato che la nazione a maggior rischio sono proprio loro. Un pout-pourri multietnico e multireligioso. Senza alcun collante, se non quello dei soldi. Nessun vincolo di sangue o religioso a tenerli uniti. Se attaccati e messi appena in difficoltà, non vanno solo in pezzi, ma in frantumi. I ghetti neri ed i quartieri ispanici sono in un degrado da terzo mondo, accanto alle maggiori ricchezze del pianeta. Homeless, barboni e poveracci, anche bianchi, in ogni angolo di strada. L’uno per cento della popolazione in galera, il venti per cento senza assistenza sanitaria. I musulmani neri, la maggiore organizzazione della gente di colore, non è più per l’integrazione. Oggi predica la separazione tra bianchi e neri. Un grande mercato delle armi, in libera vendita; a disposizione di chiunque e facilmente assaltabili. Gli Stati Uniti d’America sono un paese ricoperto di benzina, alla quale nessuno ha ancora osato appiccare il fuoco. Noi dobbiamo solo fare scoccare una scintilla, per fare divampare l’incendio. – .
Già … “Iskra”, “La scintilla”, il giornale di Lenin e del partito bolscevico russo, l’incendio della rivoluzione d’ottobre. Come non ricordarlo, con il suo passato di dirigente Montoneros.
A pronunciarla, ora, quella parola, era però la massoneria argentina.
– L’Argentina è in ginocchio, come tutto il Sudamerica, sotto il dominio dei gringos nordamericani. Guerre civili, economie depredate, fame, guerriglie e dittature, militari o mascherate da democrazie fasulle. Smettiamo di ucciderci tra noi e di combattere l’Annibale nordamericano sul nostro territorio. Basta con le battaglie suicide al Trasimeno ed a Canne, portiamo il conflitto nell’America del nord, la prossima guerra, sarà a Zama. – .

– Chi è? -; la voce è dura e forte. – Marcos. C’è Juan? –
La porta si spalanca, un uomo basso e robusto compare sulla soglia.
– Cristo! Entra. –
Angelito, detto Juan: un dirigente politico-militare del Movimento M 19. Un gruppo guerrigliero speculare alle F.A.R.C., che operava nelle città. Autore, negli anni ottanta, di alcune clamorose azioni militari nella capitale Bogotà.
Concordò successivamente il passaggio nella legalità, ma Juan non accettò il cambiamento e fuggì in Venezuela. La fuga gli salvò la vita, perché tutti gli altri dirigenti guerriglieri, usciti dalla clandestinità, furono eliminati. Dalle bande mercenarie dei narcotrafficanti e dagli squadroni della morte della polizia colombiana, agli ordini della C.I.A. .
Juan si rifugiò a Maracaibo, la seconda città del Venezuela, vicino al confine della Colombia. Nei ranchitos dell’immensa periferia, pieni di indios e di immigrati illegali colombiani.
Maracaibo, capitale del petrolio venezuelano e del traffico di droga, con un tasso di criminalità tra i più alti al mondo.
Solo, senza soldi, senza appoggi, Juan chiese un prestito a Marcos, per comprarsi dei documenti falsi.
Sistemato quel problemuccio, la strada per lui fu tutta in discesa!
Uomo d’azione, si riciclò da guerrigliero a bandito; poi, arricchitosi,
rientrò nella legalità. Per quel che il termine, a Maracaibo, poteva e può significare. A quel punto invitò Marcos a fargli visita e gli raccontò la sua nuova vita.
– Ho iniziato con il contrabbando di formaggio dalla Colombia, poi due carichi di droga a piedi, nella selva, attraverso il confine colombiano. Quindi il traffico di auto rubate: le acquistavo dai ladri, per poi rivenderle oltre frontiera. Al confine pagavo il poliziotto; una cifra proporzionale al valore del veicolo. Ma la vita divenne impossibile, le tre strade per la Colombia si riempirono di Polizia. Ogni posto di blocco mobile, era un poliziotto da pagare! Non si guadagnava più niente. – .
Marcos ricorda quel viaggio a Maracaibo, gli scorre davanti ora, mentre Juan lo invita a sedere in soggiorno.
Juan raccontava, guidando la sua Chevrolet nelle strade dissestate di Maracaibo.
– Poi comprai un bordello, un’attività legale in Venezuela. Fuori Maracaibo, al Km 28 della carretera a Perija, la strada che va in Colombia attraverso la cordigliera. Il bar OK. Un posto malfamato, in mezzo a indios, trafficanti di droga, criminali di ogni genere. “Tu sei matto, piccolino”, mi dicevano “là t’ammazzano”. Non conoscevano il pelo, del piccolino. – .
Juan sollevò la manica della camicia, mostrando nell’avambraccio una lunga cicatrice da coltello.
– Ne ho spediti tre all’ospedale. Qui non è come in Argentina, Marcos.
Qui ti rispettano solo dopo che hai ammazzato qualcuno. Poi vedi come tutti ti salutano, “fratello, fratello” ti dicono. Quel bordello è stata la mia fortuna. – .
Quando Marcos era passato a fargli visita, Juan aveva già trasformato il bordello in un Motel “a ore” ed aveva acquistato, a poco prezzo, un’immensa tenuta a 120 Km da Maracaibo. Terreno incolto, pezzi di foresta vergine, vacche al pascolo libero.
Juan aveva sei pistole, tra cui un Ingram, pistola mitragliatrice americana calibro 45. Spararono insieme contro una staccionata dell’hacienda, in una gragnuola di schegge.
La scoperta del petrolio, nel tratto costiero della tenuta sul lago di Maracaibo.
Il clima infame, 38 gradi tutti i giorni, di tutti i mesi, di tutti gli anni.
Una condanna per Juan, abituato alla temperatura mite dell’Altipiano di Bogotà. La sua asma peggiorò sensibilmente: vendette tutto e rientrò in Colombia.
Con la moglie colombiana, sposata a Maracaibo, gestisce ora un piccolo supermercato nella periferia di Bogotà.
– Juan, devo raggiungere le F.A.R.C. . Mi ci puoi fare arrivare? -, chiede Marcos, senza fornire spiegazione alcuna.
Juan, pensoso, annuisce: – Va bene. -, gli risponde, senza chiedere spiegazione alcuna.

Il gippone di Juan scompare in una nuvola di polvere in lontananza, nella pista ai margini della selva.
Marcos cammina, la grossa sacca sistemata sulle spalle, tra i sassi di un guado, in un rio quasi in secca. Il confine, invisibile ma reale; la “frontiera” del territorio controllato dalle Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane. Da alcuni decenni, un vero e proprio stato nello stato della Colombia.
Poche centinaia di metri ed un ordine, secco come una fucilata, parte dagli alberi della selva: – Fermati. – .
Le mani bene in alto, la sacca lasciata cadere pesantemente al suolo, Marcos si ferma, immobile. Un drappello di uomini coi giacconi verde-oliva, aperto a ventaglio, esce dalla boscaglia. Giovani, sui vent’anni, le dita sul grilletto dei mitra, pronti a sparare.
Avanzano rapidamente verso di lui, agili nell’erba alta. La “guardia di frontiera” delle F.A.R.C. di Manuel Marulanda “Tirofijo”.
San Miguel del Caguan, la capitale dello stato guerrigliero: – Non è cambiata gran che, in questi trent’anni; – pensa Marcos – qui lo stato d’emergenza è il solo modo di vivere, la mobilitazione permanente un’abitudine. – .
Alcuni vecchi capi guerriglieri lo riconoscono, lo abbracciano, il suo arrivo diventa una piccola festa.
Uno “stato” sempre più isolato, quello delle F.A.R.C. ; unico movimento guerrigliero riuscito a sopravvivere alle terribili e sanguinarie repressioni degli anni settanta/ottanta. Ora, anche sui colombiani pende la spada di Damocle dell’annientamento: il “Plan Colombia”, il progetto militare degli Stati Uniti d’America finalizzato a distruggerli. Attualmente congelato per gli impegni militari nordamericani in Medio Oriente, ma che può diventare operativo in qualsiasi momento.
I guerriglieri colombiani, ben radicati su un loro territorio, mantengono contatti con lo stato colombiano e con un altro stato informale ma reale:
i narcotrafficanti. Entrambi avversi alle F.A.R.C., ma anche tra acerrimi nemici si stipulano paci, tregue ed accordi. In un mondo equivoco e corrotto come quello colombiano, dove chiunque ti parli può fare il doppio o triplo gioco. Un giorno con una parte, domani con l’altra, a seconda di convenienze, rapporti di forza, soldi e/o minacce ricevute.
L’iniziale purezza ideologica rivoluzionaria ha dovuto scendere a compromessi; diventate stato, anche le F.A.R.C. sono scese nel campo del pragmatismo. Fino a fare dubitare che, nei campi dei guerriglieri, di fianco al mais, si coltivi pure la coca.
Un crocevia di personaggi strani ed equivoci; in parallelo alla linea rivoluzionaria ed ai solidi contatti col sub-comandante Marcos del Chapas messicano. Un brodo di coltura ideale per realizzare la prima parte, quella di “detonatore”, nell’ ”Operazione Zama”.

– Dimmi. – , “Tirofijo” Marulanda salta ogni preambolo.
Marcos prende la sacca e con un coltello ne fa saltare le cuciture interne. Estrae un pacco voluminoso e lo appoggia sul tavolo.
– Un milione di dollari, in biglietti di grosso taglio. – dice, rivolto a Marulanda.
Un colpo di lama lacera la carta, facendo vedere il colore verde dei dollari.
– Un motoscafo d’alto mare argentino – continua Marcos – è ormeggiato nell’isola colombiana di Sant’Andres, nascosto tra gli yacht turistici. A bordo, alcuni agenti dell’ ”intelligence” argentina, con cinque milioni di dollari in contanti. Può raggiungere, più veloce dei guardacoste, qualsiasi punto della costa caraibica, dalla Colombia al Messico. Tre yacht d’altura argentini sono all’ancora nei porti colombiani di Cartagena, Barranquilla e Santa Marta, con uomini delle forze speciali ed un milione di dollari ciascuno. – .
– Forze speciali, servizi segreti,… i boia dell’ex dittatura dei generali argentini. – interrompe Marulanda.
– Ora non più! Oggi i figli dei generali e dei Montoneros sono uniti, per la liberazione di una nazione e di tutta l’America Latina, Tirofijo. – .
Marulanda annuisce, tamburellando con le dita sul pacco.
– Va bene, parliamone, – risponde, indicando la sedia libera – siediti e parliamone. – .
– Il nostro obiettivo è scatenare una guerra civile all’interno degli Stati Uniti d’America. Hanno sempre esportato le guerre in casa d’altri, è giunto il momento di portargliela sul loro territorio. – .
– Come? – : Marulanda perplesso interrompe Marcos.
– Mettendo neri, ispanici ed indiani d’America contro i bianchi, le “bande” giovanili contro la polizia, far insorgere poveri e homeless, porre gruppi indipendentisti contro lo Stato Federale. – .
– La fai facile … . – .
– E’ possibile, ne esistono i presupposti, Tirofijo! Esperti di comunicazione e scienze sociali ne hanno studiato la fattibilità. Una struttura d’intervento mediatico è già negli Stati Uniti. La guerra mediatica sarà fondamentale ed è già stata studiata. – .
– Non vi permetteranno certo di aprire giornali e televisioni che incitano allo scontro interetnico e sociale. – .
– No, infatti. Le campagne mass-mediatiche, pagate dalla C.I.A., come quella dello “scontro di civiltà” tra Occidente ed Islam, ad esempio, sono improponibili. Altrettanto l’uscita di giornali come l’albanese Koha Ditore ai tempi della guerra del Kossovo; o, nell’ex Yugoslavia, il musulmano Oslobodenje di Sarajevo e le televisioni croate. La nostra azione dovrà essere sotterranea. – .
– Quindi … . – .
– Non sono io l’esperto, ma ti farò alcuni esempi.
Uscirà un manifesto pubblicitario, per la vendita di un lucido da scarpe. Il testo ..”..dal 1930, il migliore lucido in commercio”. Con una foto degli anni ’30, appunto: un lustrascarpe nero che lucida gli stivali di un uomo bianco. La parola scritta non sortisce alcun effetto, a restare impressa è l’immagine. L’impatto nei ghetti neri sarà molto forte.
Un altro messaggio pubblicitario, per promuovere una marmellata.
Un negro ed una donna bianca mettono entrambi le dita in un vasetto di confettura. Un altro cartellone li vedrà insieme, mano nella mano, mostrare un barattolo di marmellata; la donna bianca visibilmente gravida. Verranno affissi nei quartieri residenziali dei bianchi.
Poi, messaggi subliminali inseriti in alcune telenovelas argentine.
Sono state regalate ai principali circuiti cinematografici nordamericani. Una campagna promozionale, ufficialmente. In realtà contengono brevissime immagini, non percepibili a livello conscio. Neri che stuprano una donna bianca; bianchi che frustano ed impiccano un negro. Inconsciamente queste immagini saranno percepite dal pubblico.
Ricordo anni fa una ditta tedesca specializzata in derattizzazione. Tutti si aspettavano l’uso di veleni, invece usarono degli ultrasuoni. Confondevano i codici di comunicazione delle varie tribù di topi e li fecero sbranare tra di loro. Noi intendiamo fare lo stesso. Questo è solo un aspetto dell’operazione; vi saranno anche unità di commandos incaricate di distruggere, al momento opportuno, le fonti di produzione di energia. Prive di elettricità, le principali città nordamericane resteranno paralizzate, gettando nel panico la popolazione. Senza benzina e trasporti, aria condizionata, frigoriferi, cibo ed acqua. – .
– Noi colombiani, quale compito dovremmo svolgere? – .
– Quello più importante in un’esplosione, l’ innesco, il “detonatore”, dare l’inizio al tutto. Fare compiere alcuni piccoli attentati negli U.S.A., in grado di innescare una reazione a catena, che poi si alimenterà da sola. – .
– Perché ti sei rivolto a noi? – .
– All’inizio, F.B.I. e C.I.A. vanno depistati dal vero obiettivo. Devono sembrare regolamenti di conti tra bande, narcotrafficanti, mafia, azioni di gruppi indipendentisti.
Voi avete i contatti giusti, gli ambienti, i mediatori. Poi conoscete bene i messicani del sub-comandante Marcos. Vogliamo contattarlo e finanziarlo, per penetrare gli ambienti messicani negli Stati Uniti. Infiltrarli e coinvolgere anche loro negli scontri etnici. – .
– Narcos e mafia vuole dire anche C.I.A. . – .
– Dovrai essere abile, Tirofijo. Pagare molte persone, in una catena di ordini che passano da questo a quello, per molte bocche e molte orecchie, prima di giungere a chi compirà l’azione. Deve risultare difficile, se non impossibile, risalire a chi ha dato l’ordine. Devono sembrare ritorsioni per sgarri nel narcotraffico, favori chiesti per conto terzi, per saldare vecchi debiti o per nuove partite di coca. – .
– Comunque sia, molto rischioso! – .
– Preferisci aspettare il “Plan Colombia”, Tirofijo? – .

Le amache stese tra alberi secolari, una piccola radura su un torrente; la radio che “gracchia” per un’ora al giorno.
Una base segreta delle F.A.R.C. nella selva profonda, preparata per resistere al “Plan Colombia”. Da quel luogo, Marcos deve seguire l’evolversi dell’ “Operazione Zama”.
Stabiliti i contatti necessari, Marulanda ha preferito nasconderlo da possibili occhi indiscreti.
Le comunicazioni radio sono ammesse solo in caso d’emergenza, per sfuggire a Ocelon, il “grande orecchio” spaziale nordamericano. I collegamenti usuali sono tenuti … coi piccioni viaggiatori!
Un piccolo generatore fornisce energia elettrica per un’ora, all’imbrunire, permettendo così a Marcos di sentire i notiziari radio.
La prima notizia interessante, un episodio a South Central, ghetto nero di Los Angeles. Raffiche di mitraglietta su una folla di Musulmani Neri usciti da una moschea; sparati da uomini incappucciati su un’auto in corsa.
In mattinata, tre giovani con la kippa, tradizionale copricapo ebraico, erano stati notati su un taxi. Strana presenza, in una zona controllata dai Musulmani Neri, fortemente antisemiti!
La polizia attribuisce però l’attentato a bande di spacciatori, scacciate dal quartiere dal servizio d’ordine dei Black Muslims.
– Le indagini si indirizzano in quella direzione. – dice lo speaker alla
radio.
– O mafia colombiana – pensa Marcos – pagata da un emissario di un mediatore di un infiltrato di Marulanda! – .
A tarda notte, due giovani ebrei, riconoscibili dalla Kippa, vengono accoltellati; accanto ai cadaveri, una copia in inglese del Corano.
Retata della polizia nel ghetto nero di South Central, il giorno successivo. Senza badare troppo ai complimenti, nell’entrare nelle case ed arrestare i ragazzi delle “bande”. I giovani del quartiere si sentono provocati, sospettati per episodi ai quali sono estranei.
Alcuni snipers, da lontano, sparano sulla polizia, uccidendo due agenti.
La reazione poliziesca è violentissima, altrettanto la risposta dei vari gruppi delle “bande”, alleatesi tra loro. Il quartiere è in fiamme; davanti ad un impressionante volume di fuoco, la polizia si ritira.
I disordini si estendono rapidamente anche nel vicino ghetto nero di Watts; automobilisti bianchi pestati, negozi saccheggiati e dati alle fiamme. La Guardia Nazionale circonda le zone della rivolta nera senza intervenire; impreparata ad affrontare la situazione, senza l’ausilio di armi pesanti. Come avvenne nel precedente “riot” del 1992, quando intervennero poi i Marines. Armati pure loro con armi leggere, ma con ben altra preparazione militare!
Brilla, nella notte, il fuoco degli incendi.

– Stamani, esplosa un’autobomba davanti ad una moschea di Detroit. -, dice il radiocronista nei titoli d’apertura.
Stavolta è la strage, quasi trenta morti. I Musulmani Neri in armi pattugliano il quartiere, bloccano e perquisiscono le auto dei pochi bianchi di passaggio.
Nella notte, due ebrei assassinati in una zona a luci rosse dei suburbi.
– Uccisi da chi, – pensa Marcos – killers pagati per vie traverse da Marulanda, Black Muslims, rapinatori, oppure… ? – .
Nel pomeriggio successivo, seconda autobomba davanti ad una moschea, nel quartiere libanese di Chicago, con una decina di morti.
– Lo “scontro di civiltà” tra Occidente ed Islam ha raggiunto anche gli Stati Uniti d’America? -, si chiede il radiocronista.
I Musulmani Neri ordinano la mobilitazione in armi in tutti i loro quartieri, nell’intera nazione. Altrettanto fanno gli ebrei.
Un’auto, con due neri a bordo, non si ferma all’intimazione di alt delle pattuglie ebraiche nel Lower East Side di New York. Gli occupanti vengono crivellati dai colpi delle armi automatiche.
Le manifestazioni che seguono degenerano in scontri con la polizia ed il consueto corollario di violenze e saccheggi. I ghetti neri esplodono in tutte le città degli States, anche in quelle minori.
– Talvolta per futili motivi, come in una cittadina di provincia; giovani bianchi e neri si sono affrontati all’uscita da una cinema, dopo la soporifera proiezione di una telenovela argentina. -, conclude l’inviato della radio.
– Tanto soporifera non era, coi suoi messaggi subliminali! -, commenta mentalmente Marcos.
Il generatore smette di funzionare, tace la radio e sull’accampamento cala la notte della selva, con i suoi inquietanti rumori. Inusuali per Marcos, abituali per i guerriglieri di Colombia.

Il generale Custer campeggia sui manifesti affissi nelle riserve indiane e sui volantini gettati dagli aerei. La spada sguainata levata in alto, comanda la carica delle “giacche blu” del suo 7° cavalleggeri; a terra, alcuni pellerosse già uccisi. Si commemora il generale nel 132° anniversario della sua caduta in combattimento, sul campo di battaglia di Little Big Horn.
Alcuni giorni dopo la comparsa dei manifesti, viene divelta la lapide a Wounded Knee. Eretta a ricordo dell’ eccidio, avvenuto in quel luogo nel 1890, di alcune centinaia di “nativi d’America”. Commemora anche l’uccisione di due pellerosse da parte della polizia, nelle manifestazioni di protesta del 1973.
Un luogo fortemente simbolico, danneggiato ed oltraggiato con escrementi e con scritte offensive tutt’intorno.
In un’ondata di emozione e sdegno, una marcia di protesta viene organizzata da indiani ed associazioni per la difesa dei diritti delle minoranze. La polizia interviene in forze, con reparti speciali in tenuta antisommossa. Il clima è tesissimo!
Alcuni giovani dall’aspetto trasandato vengono fermati per un controllo e trascinati verso un cellulare.
Una sassaiola investe i poliziotti; i reparti caricano subito i dimostranti.
Dalle zone circostanti, tiratori scelti sparano sulla polizia. Inizia una fitta sparatoria, alcuni giovani distribuiscono armi anche tra i partecipanti al corteo. Dopo mezz’ora di scontri a fuoco, compaiono in cielo gli elicotteri della Guardia Nazionale. Aprono il fuoco senza remore, dall’alto, su tutto quello che si muove! Ad appoggiarli al suolo, giungono alcuni mezzi blindati leggeri. I morti si contano ormai a decine, quando compare la sagoma di in grosso elicottero militare Apache. Attacca i mezzi aerei e terrestri della Guardia Nazionale distruggendoli in rapida successione uno dopo l’altro, con il suo terrificante volume di fuoco. Atterrato al suolo, i piloti vengono circondati da una folla festante. Sono giovani pellerosse dell’esercito, avvertiti col telefonino da loro amici presenti al corteo di Wounded Knee. L’elevata disoccupazione delle riserve indiane spinge molti giovani ad arruolarsi nell’esercito americano, pur di trovare un lavoro.
I festeggiamenti non durano a lungo; pochi minuti ed un razzo di un aereo A 10, comparso all’improvviso nel cielo, distrugge l’elicottero fermo al suolo. L’esplosione è violentissima, l’elicottero salta in aria con il munizionamento di bordo ed il combustibile.
– Oltre un centinaio le vittime, di ambo le parti, a Wounded Knee. -,
conclude la radiocronaca.
– La guerra civile è arrivata nell’esercito! -, dice Marcos a Julio Cesar, l’uomo di fiducia di Marulanda.

– Andiamo a pescare insieme? – . Marcos non può rifiutare l’invito: Julio Cesar è il comandante della base, un membro dell’esecutivo delle F.A.R.C. . L’unico, al campo, al corrente dell’ “Operazione Zama”.
Per gli altri guerriglieri, Marcos è un vecchio compagno in difficoltà, ricercato dalla polizia nel suo paese. Non ci credono, ma tanto gli basta!
Autosufficienza è la parola d’ordine del campo, caccia e pesca sono attività quotidiane.
– Non ho mai creduto nell’ “Operazione Zama”, – dice Julio Cesar lanciando le reti da pesca nel torrente – ora però devo ricredermi. – .
A valle della base, un chilometro più in basso, il rio forma una piccola cascata, con una pozza d’acqua sottostante. Luogo ideale per pescare, e conversare lontano da orecchie indiscrete.
– Perché l’ hai approvata, allora? – , chiede Marcos.
– Espressi voto contrario, infatti! Ma fui l’unico, nel gruppo dirigente.
Non mi convinceva, troppo improvvisato ed azzardato. Pensavo finisse in una bolla di sapone, con ripercussioni e rappresaglie molto dure nei nostri confronti. – .
– Ora hai cambiato idea? – .
– Si, davanti all’evidenza! Spiegami il progetto nei dettagli, le sue basi teoriche, i presupposti, gli sviluppi previsti … . – .
– E’ tutto fuorché improvvisato, Julio Cesar. Direi anzi che è scientifico!
Oltre un certo livello di tensione sociale, avviene un’esplosione di violenza. Come i fulmini in un temporale. Si deve prima fare salire la tensione, in situazioni già molto conflittuali. Con vari mezzi, mass-mediatici, associazioni fasulle, sobillatori, creazione di eventi, agenti infiltrati… . Poi farle esplodere con una provocazione.
La “scintilla” di un attentato e l’incendio divampa.
Gli U.S.A. hanno annientato ogni opposizione interna al regime, in presenza di larghi strati sociali di insoddisfazione.
Lasciando così spazio soltanto al degrado, una massa di popolazione socialmente incontrollabile, senza una struttura oppositiva a fare da mediazione organizzata. Facile puntare allo sfascio!
Hanno controllato le coscienze, creando nella gente una realtà virtuale e televisiva. Agiscono tutti e pensano come tanti automi decerebrati, con modelli di comportamento stereotipati. Basta conoscere i codici comportamentali ed inserire i messaggi desiderati, ed il gioco è fatto! – .
– Tutto studiato, insomma! -, interrompe Julio Cesar.
– Certo. E’ come accendere un fuoco. Si inizia con la paglia, poi legna piccola e secca, facile da incendiare. I ghetti neri, ad esempio, sono stati l’inizio. Bruciavano già da soli prima! Poi, via via, le altre situazioni di tensione, più difficili da innescare. La legna più grossa, Julio Cesar, o l’esplosivo più stabile. Dove serve già un fuoco alto o un innesco potente. Dopo i neri e gli indiani, gli ispanici, i gruppi indipendentisti e l’esercito. – .
– Se invece non succede niente …. . – .
– Una contro-provocazione, se la polizia non spara sui neri, un killer spara sugli agenti, finchè reagiscono. Oppure si sparge altra “benzina”; si fa salire ancora la tensione, per poi farla esplodere con un altro episodio violento. – .
– Sei cinico, Marcos, freddo e cinico. – .
– Siamo lucidi, Julio Cesar. – .
– Chi ha ideato tutto questo? – .
– Persone uscite da un’ottima accademia! Militari che hanno seguito i corsi di contro-guerriglia del Canale di Panama, la “Scuola del Golpe” della C.I.A. – .
– Avete applicato contro gli U.S.A. i loro stessi insegnamenti! – .
– Certo, adattati alla situazione ed integrati con le tecniche di insurrezione e guerriglia dei Montoneros. Ora, aspettiamo il grosso avvenimento, poi vi sarà l’azione determinante e conclusiva. – .
– Che significa, Marcos? – .
– Lo vedrai, Julio Cesar, lo vedrai! – .

– La rivolta nera è in una fase di stallo, la Guardia Nazionale non interviene, l’esercito è troppo impegnato all’estero. Ora le riserve indiane si armano. Guerra civile negli Stati Uniti d’America? – .
Marcos sente un brivido scorrergli lungo la schiena: la fatidica parola viene pronunciati per la prima volta alla radio: “guerra civile”.
Uno sguardo d’intesa con Julio Cesar e l’attenzione di entrambi si concentra sulle parole del notiziario.
Le riserve indiane in New Mexico ed Arizona, per protesta dopo gli avvenimenti di Wounded Knee, sono chiuse. Pellerosse in armi bloccano le strade principali. Alcuni villaggi di bianchi, all’interno delle riserve, sono isolati. Anche i WASP, (White, Anglo-Saxon, Protestant, bianchi-anglosassoni-protestanti) pattugliano armati le loro cittadine.
Durante la notte, colpi d’arma da fuoco sui check-point indiani; alcune ore dopo, una pattuglia di bianchi bersagliata da cecchini.
La Guardia Nazionale interviene in forze, con elicotteri e blindati.
Non vi sono ostacoli all’uso delle armi pesanti, le cittadine delle riserve non hanno i grattacieli delle grandi città. I “pellerosse” preferiscono negoziare e sventolano bandiera bianca. La Guardia Nazionale imbocca la strada principale del primo villaggio; un’autobomba, comandata a distanza, esplode al passaggio di un reparto.
La reazione dai blindati e dagli elicotteri è violentissima; alcuni indiani con la bandiera bianca vengono falciati. Anche i pellerosse, a quel punto, iniziano a combattere; casa per casa, in uno scenario iracheno. Ma sul territorio degli Stati Uniti d’America.
– I colpi nella notte erano di provocatori. -, spiega Marcos
a Julio Cesar – Se poi iniziano a negoziare anziché combattersi, è pronta
l’autobomba. Comandata a distanza, collegando l’innesco ad un telefonino. E’ bastato farlo squillare e … bum ….., saltano bomba e trattative. – .
I villaggi in rivolta delle riserve vengono attaccati, uno dopo l’altro.
I pellerosse nell’esercito incarcerati, in alcuni casi con scontri a fuoco.
Alcuni gruppi riescono a fuggire, negli USA ed all’estero.
In Iraq parecchi soldati disertano, con armi e bagagli, compresi alcuni carri armati. Festeggiati dalla popolazione irachena.

La situazione continua a precipitare, giorno dopo giorno; il susseguirsi delle notizie diventa frenetico.
Manifestazioni delle milizie indipendentiste in Dakota, Idaho e Montana. Un ordigno scoppia al passaggio di un corteo neonazista ad Helena, nel Montana. Tre morti tra i miliziani della “fratellanza ariana”. Sui muri vicino all’esplosione, scritte inneggianti a Malcom X ed agli indiani d’America. Si scatena la caccia ai pochi neri ed ai pellerosse, in tutto lo Stato.
I miliziani indipendentisti occupano gli edifici governativi, assumendone il controllo. Polizia e Guardia nazionale non intervengono, mostrando simpatia verso i gruppi armati neonazisti.
Continua l’inferno urbano nelle città degli States.
I ghetti neri sono sigillati da “cordoni sanitari” della Guardia Nazionale, ma ovunque vi sono assalti ai centri commerciali ed ai negozi.
Homeless, barboni e poveracci di ogni tipo assaltano di tutto.
La polizia spara sui partecipanti ai saccheggi, fino a provocare le prime risposte armate. Vengono svuotati anche negozi di armi, iniziano scontri saltuari ma diffusi tra homeless e poliziotti.
Le città sono in larga parte ingovernabili; l’ordine regna solo nelle zone residenziali, dove gli abitanti WASP presidiano in armi i loro quartieri.
Ma la situazione è comunque precaria, la tensione alta ovunque. Sistemi produttivi ed uffici in buona parte chiusi, strade insicure e bloccate.
Fino alla minaccia di chiudere elettricità, gas e rifornimenti idrici ed alimentari ai quartieri neri in rivolta.
Un ponte aereo riporta in patria alcune decine di migliaia di soldati dalle basi all’estero. Ove questo è possibile, senza alterare gli equilibri militari sul terreno. Non vengono toccati i contingenti in Afghanistan ed Iraq, ma fortemente ridotti gli effettivi in Europa; presenti ormai soltanto in Italia e nei Balcani.
Sarà compito dell’esercito, riportare l’ordine nelle città americane.

Nel Montana alcuni negri vengono linciati, poi i pochi residenti di colore ed i pellerosse deportati in alcune zone isolate di “concentramento”.
Alcuni militari neri dell’esercito federale vengono disarmati dalle milizie della “fratellanza ariana” e deportati anch’essi.
Altri rifiutano di consegnare le armi e vengono uccisi negli scontri a fuoco. Da alcune basi dell’esercito escono dei blindati con soldati neri ed attaccano le sedi delle milizie.
La Guardia Nazionale si schiera con i gruppi indipendentisti, intervenendo al loro fianco.
I pochi mezzi blindati dei neri vengono sopraffatti dal numero elevato degli uomini delle milizie e della Guardia Nazionale locale.
Gli edifici governativi di Helena sono bucherellati dalle cannonate e dai colpi delle mitragliatrici pesanti dei carri armati. I piani alti dei palazzi sono in fiamme.
Liquidati i carri armati, le milizie attaccano alcune basi dell’esercito federale, che si arrendono senza combattere.
Alcuni piloti di colore attaccano le milizie dal cielo, bombardando anche Helena, la capitale del Montana.
Tutte le sedi dell’esercito vengono espugnate dalle milizie indipendentiste, compresi alcuni siti nucleari di missili balistici intercontinentali.
I gruppi armati neonazisti non posseggono i codici di lancio, ma possono mettere il dito sul bottone.
North e South Dakota, Idaho e Montana si uniscono in un unico stato federale, proclamando l’indipendenza dagli Stati Uniti d’America.
Scontri si verificano in Wyoming, Nebraska, Minnesota ed Iowa; gruppi armati intendono portare anche i loro stati verso la secessione.
Nei ghetti neri, anche i Black Muslims proclamano l’indipendenza, di uno stato a “pelle di leopardo”.

Una sconosciuta associazione di veterani: “160 anni di vittorie”, dicono i volantini. Celebrano la ricorrenza della vittoriosa guerra tra gli U.S.A. ed il Messico, conclusasi nel 1848.
Seguono date e luoghi di alcune manifestazioni commemorative, con tanto di lapidi da scoprire.
Alcune agenzie pubblicitarie li diffondono ovunque, soprattutto nei quartieri messicani degli stati del sud, dalla California alla Florida.
Con inserzioni a pagamento su giornali, radio e televisioni.
Vibrate proteste da parte delle associazione messicane, con sit-in davanti alle municipalità.
Tensione, scontri, provocatori e cecchini, in un repertorio già collaudato, provocano la scintilla, facendo divampare l’incendio.
Gruppi organizzati distribuiscono mitra e fucili ed attaccano negozi d’armi.
La situazione si fa in breve esplosiva. I quartieri ispanici di tutte le città degli stati del sud scoppiano in rivolta, affiancandosi ai ghetti neri.
La frontiera con il Messico è in fiamme. Dalle città messicane a ridosso del confine partono gruppi di desperados, sommariamente armati, per depredare oltre frontiera. Come cavallette, entrano e passano dovunque; la frontiera tra Stati Uniti e Messico non esiste più.
– Buon lavoro, sub-comandante Marcos! – , sussurra Marcos a Julio Cesar.
La Guardia Nazionale argina quello che può, ma non ha sufficienti uomini e mezzi per pattugliare l’immenso confine. I mitragliamenti dagli elicotteri risultano controproducenti, portano la tensione alle stelle.
Il governo degli Stati Uniti d’America proclama l’allarme rosso e lo stato di emergenza nazionale.

– Rivolta nelle carceri. I detenuti neri ed ispanici, in maggioranza tra i carcerati U.S.A., si ribellano e prendono il controllo dei principali istituti di pena. Feroci regolamenti di conti al loro interno. Rischio di evasioni di massa. –
– Situazione drammatica ad El Paso, città sul confine messicano; ormai invasa dagli abitanti di Ciudad Juarez, situata sull’altro lato della frontiera. Carri armati per le strade, la Guardia Nazionale impone il coprifuoco. Scontri ovunque in città e zone circostanti. –
– Un nucleo armato di ex militari pellerosse, sfuggito alla cattura, assalta ed assume il controllo di una centrale nucleare nel New Jersey. Richiede: la liberazione di tutti i detenuti indiani; la restituzione delle terre occupate dai WASP, in violazione dei trattati dell’ottocento; riconoscimento della nazione dei “nativi d’America”. In caso contrario, minacciano la fusione del nocciolo del reattore nucleare. –
– Intervento di guardie carcerarie, polizia e Guardia Nazionale nei penitenziari in rivolta. Le carceri rientrano sotto il controllo delle autorità, ma al prezzo di alcune centinaia di morti. –
– Associazioni per i diritti umani chiedono garanzie agli Stati Uniti d’America per le minoranze etniche ed i detenuti. Presentano istanza all’apposita commissione delle Nazioni Unite. –
– Un tenente WASP dell’aeronautica americana, originario di El Paso, ordina alla sua squadriglia di bombardieri A 10 di colpire Ciudad Juarez. Un’iniziativa personale, senza rispettare alcuna catena di comando. –
– Per ritorsione, alcuni piloti di origine ispanica bombardano i quartieri WASP di El Paso. –
– Nell’esercito si creano spontaneamente aggregazioni di reparti su base etnica. Neri ed ispanici costituiscono circa il 50% dell’esercito degli Stati Uniti d’America. Alcuni ufficiali si uniscono alle nuove formazioni militari “informali”. –
– Truppe speciali attaccano gli indiani della centrale nucleare del New Jersey, riassumendo il controllo dell’impianto. Evitata all’ultimo momento la fusione del nocciolo. Rilevante dispersione nell’ambiente di materiale radioattivo. –
– Su richiesta di India, Russia e Cina, convocazione del Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U.; all’ordine del giorno, la situazione negli Stati Uniti. Con particolare riferimento ai diritti umani ed alla sicurezza degli impianti nucleari, militari e civili. –
– I militari WASP, rientrati dall’estero, iniziano l’attacco al quartiere nero di Watts, a Los Angeles. Vengono usati anche carri armati ed elicotteri da guerra. –
– Un pilota portoricano, con due fratelli uccisi di recente nelle carceri, bombarda Santa Monica in California. Al comando del suo aereo, sgancia sulla ricca località bianca vicino a Los Angeles una “Big Bomb”. Destinata all’Iraq e mai usata nel conflitto mediorientale, la “Big Bomb” è la più grossa bomba convenzionale mai costruita. E’ una strage. –
– Scontri etnici nella base U.S.A. di Guantanamo, a Cuba. Tensioni razziali in tutte le caserme dell’esercito nordamericano. –
– File davanti alle banche per ritirare il denaro contante. Massicci ordini di vendita dei titoli obbligazionari ed azionari. Crollo di Wall Street. –
– Black-out elettrico, dalle prime ore del mattino, nel nord-est degli Stati Uniti; senza energia le città di New York, Cleveland e Detroit. –

Il black-out di New York si dimostra subito anomalo. Non un guasto tecnico, come in precedenti, analoghi episodi, ma un attentato.
L’attacco portato da un commando, infiltratosi nella notte attraverso la frontiera canadese. Ha fatto saltare con l’esplosivo le centrali idroelettriche delle cascate del Niagara.
La situazione nella città della “Grande Mela” si fa subito critica. La calura di luglio scalda i grattacieli, trasformandoli in fornaci di cemento. La mancanza di energia elettrica rende inservibili gli impianti dell’aria condizionata. Fin dalle prime ore del mattino, il caldo è insopportabile, le persone esasperate.
In una metropoli ancora segnata e percorsa da scontri etnici, oltre che da rivolte e saccheggi degli homeless.
I telefonini non funzionano perché i ripetitori sono fuori uso. Code lunghissime si formano davanti alle cabine pubbliche. La tensione, per il caldo e per le file, degenera spesso in scontri verbali e fisici per telefonare.
Si accendono gigantesche risse, che nessun poliziotto si sogna di andare a sedare.
Inizia, in tarda mattinata, prima sparuta poi via via più massiccia, la fuga da New York. Chilometri di auto in coda, con l’aria condizionata accesa, attendono di lasciare la metropoli. Le strade si intasano rapidamente, il traffico si blocca nel giro di poche ore.
Alcuni camions, posti di traverso sulle principali strade di uscita, vengono dati alle fiamme. Opera di alcuni commandos perfettamente addestrati. New York è in trappola; nessuno riesce più ad uscire, né a spostarsi.
Le auto, come un immobile fiume in piena, riempiono ormai ogni strada. Impedendo ogni genere di spostamento, a polizia, ambulanze, vigili del fuoco, generi di conforto e prima necessità.
I distributori di benzina non funzionano, le pompe di sollevamento sono azionate ad energia elettrica.
Dopo ore di fila, si esauriscono pazienza e carburante. Le auto vengono abbandonate in mezzo alle carreggiate, con le portiere chiuse a chiave. Rendendo impossibile, in tal modo, qualsiasi forma di rimozione per sgombrare il passaggio.
Con l’avanzare del giorno, l’acqua ai piani alti dei grattacieli inizia a mancare. Le pompe di sollevamento degli acquedotti sono ferme, bloccate dalla mancanza di energia.
La temperatura sale di ora in ora, la massima giornaliera prevista è di 38 gradi. All’interno dei grattacieli di vetro e cemento, senza aria condizionata, non si riesce a resistere. Privi di rifornimento idrico, è impensabile restare all’interno.
I supermercati vengono presi d’assalto per impadronirsi dell’acqua minerale. Si verificano anche scontri armati, il panico si diffonde tra la popolazione.
Le celle frigorifere non funzionano, i generi alimentari si deteriorano rapidamente.
L’unica via di fuga è a piedi, ma per molti è un tentativo impossibile.
Base navale U.S.A. di Guantanamo, a Cuba.
Gli scontri etnici tra i nero-ispanici ed i WASP continuano da parecchi giorni. Accerchiati e sul punto di soccombere, i soldati di colore chiedono l’intervento dell’esercito cubano; schierato da giorni, in massima allerta, lungo il confine.
Le truppe cubane entrano nella baia di Guantanamo, riunificandola alla madrepatria.
Le immagini delle atroci torture di Guantanamo vengono diffuse dalla televisione cubana e ritrasmesse sui teleschermi di tutto il mondo. I soldati nero-ispanici parlano in diretta, mentre sul video scorrono le immagini terrificanti.
– Non eravamo noi a torturare – afferma un soldato ispanico – ma solo i WASP. A noi consegnavano i cadaveri di chi moriva sotto tortura. Dovevamo portarli in alto mare e gettarli in pasto agli squali, per cancellare ogni traccia. – .
Violente manifestazioni nei paesi islamici, con assalti alle ambasciate degli Stati Uniti d’America.
Bellicose dichiarazioni dei principali leaders arabi; Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati del Golfo intimano l’immediato abbandono del territorio a tutte le truppe U.S.A. .
Il governo italiano richiama i propri soldati dall’Afghanistan e dall’Iraq.
Scontri etnici anche nelle basi americane nei Balcani.
L’esercito serbo entra nel Kossovo.
Colpi di stato in tutti i paesi centro e sud-americani. Al potere giovani colonnelli dichiaratamente contrari a Washington.
I carri armati sfilano per le strade delle capitali latino-americane, in un tripudio di folla e tra lo sventolio delle bandiere nazionali.
Ultimo governo a cadere, quello argentino.
– Saggia prudenza! – pensa Marcos, nel suo rifugio nella selva colombiana.