di Wu Ming 1

canzoniprotesta.jpgPersino Giovanna Marini, che certo di “canzoni di protesta” se ne intende, confessa di non ascoltare mai le parole: “E’ una cosa che mi accade sempre: le parole non le sento, dopo molto incomincio a ripensarle, e solo in quell’istante escono dalla loro dimensione sonora per acquisire finalmente un significato preciso e non esclusivamente fonetico.”
Le migliori canzoni di protesta in ambito “rock” e “pop” (nelle accezioni più vaste possibili, campi semantici che nessuno è mai riuscito a delimitare) rimangono politiche anche prescindendo dal testo. Noi italiani lo capiamo benissimo coi testi in inglese: di solito, nemmeno chi capisce e parla quella lingua ex-germanica ascolta subito il testo. Arrivano prima l’armonia, la melodia, la timbrica, l’atmosfera del pezzo, la grana della voce, l’attitudine di chi suona, canta, si presenta sul palco o sullo schermo. Il testo è puro suono, di primo acchito: fa parte di un fumigante calderone da sabba. E questo capita anche coi testi in italiano. Non sapremmo spiegare come, ma spesso capiamo che un pezzo è “di protesta” ben prima di ascoltarne e capirne le parole. E’ una questione del mezzo che è già il messaggio, e del contesto che è il vero testo.
Prendiamo l’hardcore punk, dagli anni Ottanta in avanti. Prendiamo soprattutto l’hardcore punk europeo, e in particolare quello italiano: testi vomitati sul microfono, incomprensibili se non li leggi, parole sommerse dal frastuono, la batteria che corre in 2/4 e sembra un frullatore con dentro una moneta, e il “cantante” più che altro rantola, geme, grugnisce. Cionondimeno, l’hardcore punk è considerato l’epitome della musica politica, legata all’anarchismo militante, ai movimenti animalisti e vegan, al mondo delle autoproduzioni etc.

Lo stesso discorso vale per il folk americano da Woody Guthrie allo Springsteen acustico, passando per Pete Seeger e il primo Dylan. Anche non ascoltando o non conoscendo i testi, noi sappiamo che quel timbro nasale, quei due accordi mezzi sgangherati, quell’atmosfera dolente, sono “protesta”. E’ una questione di orientamento culturale.
Esiste invece una canzone di protesta che, senza il testo, sarebbe una canzone come tutte le altre. Ecco, quella non è musica di protesta: è musica con un testo di protesta. C’è una bella differenza. Se il mezzo è il messaggio, e se il contesto è il vero testo, allora il testo non caratterizza proprio niente, se mezzo e contesto vanno da un’altra parte. Metti caso che Gigi D’Alessio fa un testo contro la guerra: non se ne accorge nessuno, perché quella non è musica di protesta. A meno che l’operazione non sia parodica: Frank Zappa e le Mothers of Invention riempivano gli album di canzoncine doo-woop tipo Platters, con testi come: “Qual è la parte più brutta del tuo corpo? / Alcuni dicono il naso / Altri le dita dei piedi / Ma io penso sia la tua mente“. Oppure deve prodursi un corto circuito, un effetto straniante: Burt Bacharach che incide canzoni contro Bush, per esempio.
Tutto questo per anticipare che, fra le canzoni di protesta raccolte da Gianluca Testani e Carlo Bordone nel loro libro Oggi ho salvato il mondo. Canzoni di protesta 1990-2005 (Arcana Editrice), si passano in rassegna operazioni e progetti molto diversi tra loro: si va dall’approccio “totale” al binomio musica/politica (con artisti come Fugazi, International Noise Conspiracy, Michael Franti, System of a Down, che perseguono la sintesi coerente tra mezzo, messaggio e contesto) alle “furbate” vere e proprie, con artisti che, in via del tutto occasionale, hanno appiccicato un contenuto “sociale” a canzoncine pop altrimenti anomiche e anemiche.
In mezzo c’è un po’ di tutto, comprese canzoni la cui presenza nel libro è, a tutta prima, sconcertante, perché nessuno le avrebbe mai dette “di protesta”. E qui viene il bello: l’operazione di Bordone e Testani è tanto più interessante quanto più ambigua è la canzone esaminata. Gli autori ne forzano al massimo la possibile interpretazione politica, e così facendo producono dissonanze di senso, spiazzano il lettore, gli mettono imprecisati insetti nell’orecchio. Un caso su tutti: One degli U2 (stavo per scrivere “di Johnny Cash”, tanto è toccante la cover dell’Uomo in nero). Tutti noi la credevamo una sconfortata lamentela sull’amore che finisce, spento dalla routine, e sulla necessità di tirare avanti con buona volontà etc. Puro Bono insomma. Anzi: buonismo. Secondo Bordone e Testani, invece, la canzone parla della riunificazione tedesca dopo il crollo del Muro.
La parte che più mi ha colpito, però, è quando i due autori infilano di soppiatto le “canzoni” di una band canadese che fa solo pezzi strumentali, i God Speed You! Black Emperor (c’è una querelle su dove vada messo il punto esclamativo). Ecco, qui si torna al discorso iniziale: i GSY!BE fanno musica politica perché noi la percepiamo come tale, affidandoci solo all’intuizione (sentiamo una musica tesa, cupa, conflittuale), al paratesto (i titoli dei brani e le scarne note di copertina) e al contesto (la band proviene dal giro delle case occupate di Montreal). Difatti, Bordone e Testani non riportano lyrics (come potrebbero?), ma si affidano a scampoli, indizi, come il fatto che “09-15-00” (titolo di un brano del gruppo) sia la data d’inizio della seconda Intifada.
In appendice, vengono prese in esame anche canzoni di artisti italiani, dai Subsonica a Frankie Hi Nrg, da Daniele Silvestri a Giorgio Gaber. Molto puntuale la critica all’operazione Il mio nome è mai più del trio Liga-Jova-Pelù, benché a mio avviso vi sia stato fin troppo accanimento contro il terzetto, allora e negli anni a seguire. Nel 1999 la protesta contro la guerra in Kosovo fu sporadica, indecisa e disorganizzata. Il fatto che ad appoggiare la guerra e co-gestirla da questa sponda dell’Adriatico fosse un governo di centrosinistra “ammortizzò” il dibattito e disinnescò preventivamente la possibilità di vere mobilitazioni trasversali e di massa. In quel contesto, fare un pezzo contro la guerra era più difficile che farla quattro anni dopo. Quel poco che ci fu era già qualcosa, e almeno andarono soldi a Emergency.
In definitiva, il libro merita, fa riflettere, a volte sorprende, e sempre intrattiene. Bordone e Testani hanno trovato una formula che, con gli adattamenti del caso, può consentire loro altre esplorazioni. Suggerisco, in tutta serietà: canzoni sull’identità nazionale italiana da Cutugno a oggi; canzoni sul rapporto America-Europa (ne esistono svariate, la prima che mi viene in mente è An Englishman in New York di Sting); canzoni che parlano solo di sé stesse (da Il nostro primo 45 giri dei Powerillusi a più o meno 3/4 del repertorio hip hop internazionale).

Altri interventi di Wu Ming su musica e cultura pop si trovano nella sezione POP WILL IT EATSELF del sito wumingfoundation.