di Girolamo De Michele

[qui la prima parte]

«Sono un’insegnante, dunque insegno!»
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La Mastrocola è un’insegnante — anzi: un’insegnante di lettere — non una sociologa: perché dovrebbe preoccuparsi della società? «Io ero un’insegnante di lettere. Ho frequentato la Facoltà di lettere, ho preso la laurea in lettere e quindi sono diventata, in modo del tutto naturale e direi scontato, un’insegnante di lettere […]. Io quindi ho scelto di studiare letteratura. Non ho scelto di insegnare. L’insegnamento era la naturale conseguenza dei miei studi. Il mio mestiere dunque non era insegnare: era insegnare letteratura italiana. […] Mi sembra particolarmente importante che uno nella vita non scelga la parola insegnare, ma la parola letteratura. Vuol dire che non ha un fine, ma una passione. Vuol dire che non ha scelto di insegnare, bensì ha scelto di potersi occupare di una determinata faccenda che si chiama letteratura e che più o meno consiste nel leggere le grandi opere dei grandi autori, studiare la critica su quelle opere, i commenti, le note, gli articoli più recenti. Cose così. E poi sì, anche insegnare tutto ciò, ma come conseguenza» [p. 69].

Sembra, a leggere questo passo, che lo scopo della scuola sia quello di soddisfare la passione personale della Mastrocola. Eppure la stessa autrice rimpiange gli anni del «bellissimo dottorato» che per quasi quattro anni le ha permesso di astrarsi «felicemente in un altro mondo […]. Un inabissamento beato, una privilegiata vacanza nel Regno delle Lettere» [p. 11]. Forse la Mastrocola pensa che la scuola sia il suo personale Dottorato di Ricerca? La realtà è invece diversa: tutto intorno alla Mastrocola e alla sua passione permanente — «una condizione di orgasmo e di spasimo, che determina inettitudine all’operare», scrive Gramsci» [sul perché lo spirito missionario sia una stronzata, vedi qui] — ci sono gli altri insegnanti, gli altri lavoratori della scuola, gli alunni: insomma, quel “sistema di istruzione” il cui scopo non è quello di accendere i Fuochi di Sant’Antonio della passione, ma quello di progettare e realizzare «interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana» (1). Perché la scuola deve fare questo? Perché è scritto nella Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» [art. 3.2]. Uno studente che non abbia acquisito quelle competenze e capacità che lo mettano in grado di orientarsi nel mondo contemporaneo è di fatto meno libero; uno studente a cui viene proposto di sostituire l’istruzione col la formazione-lavoro è condannato alla disuguaglianza e a una libertà minore; una scuola che rinuncia al pieno sviluppo della persona è una scuola che viola la Costituzione perché favorisce il precariato intellettivo, così come è anti-Costituzionale un mercato del lavoro che condanna al precariato esistenziale un’intera generazione. Ma questi sono problemi troppo terreni per chi vive nelle sfere celesti della metafisica rinascimentale, per chi nomina Petrarca e Michelangelo come se ne fosse l’unica lettrice: perché dovrebbe preoccuparsi di combattere l’abbandono scolastico? Perché dovrebbe impegnarsi nella motivazione? «Io non posso passare il mio tempo a convincere una classe che deve studiare. Questo deve essere dato a monte, deve essere un fatto acquisito. Io devo andare davanti a una classe che è già motivata allo studio, che ha scelto di studiare; allora posso cominciare il mio lavoro, se no no» [p. 134]. «Ci piace tanto la teoria delle intelligenze multiple, e allora perché non accettiamo davvero che un ragazzo possa avere un altro tipo di intelligenza, ad esempio pratica o relazionale, e possa quindi felicemente lasciare la scuola per andar a fare l’idraulico o il playboy? [p. 135]» (2). Dubito che nello staff della Moratti ci sia qualcuno capace di esprimere con tale stringatezza il principio dell’alternanza scuola-lavoro con cui la riforma espelle dall’apprendimento gli studenti per condannarli a una vita da subordinati. In una scuola selettiva e d’élite non si pone, ovviamente, il problema della motivazione. In una scuola che ha per obiettivo la scolarizzazione del maggior numero di studenti si: ma evidentemente per la Mastrocola la scolarizzazione è male, se il prezzo da pagare per alzare il numero degli scolarizzati è costringerla a rinunciare alla sua personale didattica. «Il primo giorno di scuola io facevo Virgilio. Ma qualche anno fa, prima della Riforma [Nb: la Mastrocola chiama “Riforma” la legge sull’autonomia scolastica]. Entravo in classe e ai miei nuovi allievi leggevo un passo di Virgilio. In genere l’inizio dell’Eneide. Naturalmente in latino, e in metrica. Lo so che nessuno capiva niente, ovvio, nessuno aveva fatto ancora latino e quei pochi che l’avevano fatto non possedevano certo gli strumenti per capire al volo Virgilio. […] Volevo solo dargli l’idea di una grandezza, e quindi proprio quel loro non capire niente mi serviva: era il balenare di un punto di arrivo molto alto, una specie di zenit a cui lo studio li avrebbe portati» [pp. 24-25]. Quanto ai famosi contenuti letterari (nei suoi libri non si parla d’altro: che esistano altre materie è un problema che non sembra toccarla), la Mastrocola rivendica l’equazione tra letteratura e storia della letteratura: nonno Croce dorme sonni tranquilli. Niente percorsi, e soprattutto niente analisi del testo (piuttosto la vita e le opere): la letteratura è lo studio dei classici, e i classici non si analizzano. Perché dare agli studenti gli strumenti critici per poter valutare con la loro testa i libri che leggono? C’è l’insegnante con la sua “autorevolezza” (parolina magica con la quale l’autoritarismo viene reintrodotto di soppiatto), a indicare cosa leggere e cosa no, cosa è un “classico” e cosa no: a lasciar fare agli studenti, c’è il rischio che leggano Camilleri, Stephen King, Harry Potter. Purtroppo viviamo in un’epoca segnata dal nefasto egualitarismo causato da Pennac, con la sua assurda pretesa che si possa scegliere liberamente cosa leggere: «La scuola deve saper che cosa vuole che i giovani sappiano. Deve saperlo, e quindi autorevolmente e dolcemente imporlo. Dolcemente. Dobbiamo attuare un’imposizione dolce» [p. 156], con la stessa autorevolezza con la quale facciamo dismettere l’orecchino, i tatuaggi o i capelli colorati al fidanzato di nostra figlia: «io credo che a nessuno veramente piaccia un figlio con l’anello al naso o i capelli verdi» [p. 157]. green01.jpg

Excursus: i ragazzi dai capelli verdi

I lapsus sono brutte bestie, perché svelano gli aspetti più reconditi del nostro animo, quelli che ci piace fingere che non esistano. A nessuno piacerebbe avere un figlio dai capelli verdi, dice la Mastrocola. La quale appartiene a una di quelle generazioni che hanno scoperto l’esistenza della diversità, della discriminazione, dell’esclusione degli a-normali da un vecchio film di Joseph Losey, Il ragazzo dai capelli verdi. Avere i capelli verdi significa, per chi ha visto quel film, essere ebreo (il film è del 1948), negro, omosessuale, comunista. Per la Mastrocola avere i capelli verdi è disdicevole, non sia mai che la tintura dei capelli o del tatuaggio coli sulle porcellanine del suo salottino gozzaniano e le macchi il cofanetto Sperlari. Soprattutto, non sia mai che quel verde infetti quelle piccole cose di pessimo gusto che sono i suoi schemi mentali, le sue idiosincrasie, le sue certezze. Lavati i capelli, ragazzo! Quante volte abbiamo incontrato questa forma di perbenismo puritano e di autoritarismo nascosto, questo piacere sadico nell’esercizio del micro-potere? Niente capelli verdi, niente foto o poster alle pareti delle aule bianche come gabinetti farmaceutici. Intristire la vita degli studenti, spegnere il colore, vivere in bianco e nero [fine dell’excursus].

Quindi, niente lavoro in comune con le altre materie: la scuola non deve favorire l’elasticità mentale, meno che mai mettere le competenze “letterarie” sullo stesso piano di quelle scientifiche o, poniamo, socio-motrici (il sottile disprezzo col quale la Mastrocola parla delle ore aggiuntive di nuoto…). Lo studente non deve, poniamo, imparare a declinare i diversi sensi in cui un concetto è impiegato nelle diverse discipline: deve leggere i classici. In che modo? «Insegnare è entrare in classe e dire: sentite che bello questo brano. […] E allora dobbiamo entrare in classe e leggere [i classici]. Poi chiudere il libro, alzare gli occhi, guardare gli allievi e uscire. Basta, la lezione è finita» [pp. 50-51]. Che meraviglia! La generazione-Povia che fa: ohh! Non c’è alcun bisogno che lo studente arrivi a capire perché la pagina di Flaubert avvince e quella di un altro autore (vogliamo dire: della Mastrocola?) no, come si distingue un originale da una copia, se l’ultimo Hemingway ricorreva o no ai trucchi del mestiere, se Carver o Salgari siano o meno dei “classici”: te lo dice l’insegnante, non c’è niente da capire. Ricordo, di sfuggita, che la cultura pedagogica della riforma Moratti è basata sulla “meraviglia” come stimolo all’apprendimento, contro la cultura del dubbio: è con motivazioni di questo tipo che si “suggeriva” la rimozione di Darwin, la cui cruda verità cozza contro lo stupore delle fiabe e dei miti!
Al di là dell’autoritarismo pedagogico, al di là dell’ingenua fede nell’effetto della lettura, quello che è più grave qui è la fede nell’autoreferenzialità dei “classici” e della cultura umanistica. Per dirla con le parole di George Steiner: «Leggere Eschilo o Shakespeare — non parliamo di “insegnarli” — come se i testi, come se l’autorità dei testi sulla nostra vita, fossero immuni dalla storia recente, è analfabetismo sottile ma corrosivo. […] Noi veniamo dopo. Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach e Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz. Dire che egli ha letto questi autori senza comprenderli o che il suo orecchio è rozzo, è un discorso banale e ipocrita» (3). Un insegnante che non si ponga queste questioni, che su queste questioni non fondi il proprio mestiere è, semplicemente, o un analfabeta o un complice. Una scuola che non moltiplichi le strategie per cercare una risposta a simili questioni è una scuola colpevole. Una didattica convinta della propria autoreferenzialità, convinta di bastare a se stessa, una didattica che si isola dalla storia e dal mondo è una didattica idiota (nel senso greco del termine: idios è chi se ne sta per i fatti suoi, coltivando l’idiotes, il proprio particolare).

Il mastrocolismo come categoria dello spirito

Tutti noi abbiamo conosciuto una Paola Mastrocola (anche fuori dalla scuola). Paola Mastrocola (per essere precisi: la voce che parla in La scuola spiegata al mio cane) incarna alcune figure tipiche della professione docente, quelle figure che costituiscono il ventre molle della scuola, l’oggetto delle attenzioni e delle proposte del ministro Moratti.
Dove abbiamo incontrato questa figura? In una canzone di Venditti e in un libro di Melville.
C’è qualcosa di più triste di una canzone di Venditti? Si: essere una canzone di Venditti. Dedicare la propria vita ad esserlo è sicuramente peggio. Chi non ha mai conosciuto qualche insegnante che dedica la sua vita a incarnare quel professore «che ti legge sempre la stessa storia nello stesso modo sullo stesso libro con le stesse parole da quarant’anni di onesta professione»? Quelle professoressa e professori che, convinti di avere la verità rivelata o semplicemente per pigrizia intellettuale, rivendicano il diritto di reiterare immutabilmente la propria didattica, ignari del fatto che la società e la scuola non sono più quelle dei bei tempi in cui Berta filava e c’erano ancora le mezze stagioni? Davanti a ogni proposta di cambiamento che incrini le loro certezze, non importa da quale direzione provenga, questi insegnanti rispondono, come il Bartleby di Melville: «preferirei di no». LIV3043.jpg
Bartleby è forse la più agghiacciante rappresentazione dell’alienazione nella società del lavoro. Lo scrivano di Melville, proveniente dal Dead Letter Office (l’ufficio delle lettere morte, cioè inesitate e respinte) è diventato egli stesso il proprio mestiere: non si occupa delle lettere morte, è un uomo a lettera morta. Come il bastonatore di Kafka rispondeva tranquillamente «sono un bastonatore, dunque bastono», così Bartleby non fa un mestiere: è un mestiere. Non può che rispondere con la stessa frase: «preferirei di no». Così la Mastrocola. L’unica differenza con Bartleby è che nello scrivano di Melville l’alienazione (l’identificazione del proprio essere nel proprio fare) è nuda, nella Mastrocola è ammantata dallo spirito di missione.
Nondimeno, questa rappresentazione alienata della realtà è confacente a una certa critica ossessionata dalla perdita del ruolo di trasmissione della tradizione letteraria nella società moderna, tema particolarmente caro alla stessa Mastrocola: «Noi insegnanti di lettere avevamo due certezze: che il nostro mestiere fosse di trasmettere qualcosa a qualcuno; che quel qualcosa da trasmettere fosse un patrimonio certo e inoppugnabile, che ci veniva dalla tradizione. Tale patrimonio ci era più o meno consegnato attraverso un canone, cioè l’insieme di autori e opere che erano passati di generazione in generazione come modelli» [p. 48]. La Mastrocola incarna qui la versione scolastica di quello che Umberto Eco definiva, quarant’anni or sono, il venditore di Apocalissi, colui che si ritaglia il ruolo di esperto del «dove andremo a finire»: che la scuola debba svolgere un ruolo museale, piuttosto che essere creatrice di cultura, è coerente con l’idea che la cultura sia, per definizione, quella dei canoni, non quella che rompe i canoni per produrre il nuovo. Rinchiudendosi nel rimpianto dei tempi che furono, quando la cultura si trasmetteva da un’élite ad un’élite, e soprattutto quando «il bello del sapere… era sapere tutti le stesse cose!» [p. 89], questa Venditrice di Apocalissi evita il compito faticoso di interrogarsi sulle modalità di creazione, trasmissione e critica della cultura nell’ultimo secolo. Meglio, molto meglio, attribuire la colpa di questa “tragedia” alla scuola, come per altro fanno alcuni mediocri critici [un esempio qui] che poco o nulla sanno di scuola. E che, ipotizzo, il quasi niente che sanno di scuola lo hanno appreso dai libri della Mastrocola.

In luogo di conclusione: la scuola come volontà e rappresentazione

Circolano molte rappresentazioni distorte della scuola: è un fatto. Se in un recente passato scrittori-insegnanti come Domenico Starnone e Sandro Onofri erano riusciti a dare voce ad una scuola ferma a metà strada tra la perdita del senso del proprio essere e l’ansia di rinnovamento, oggi l’alternativa al mastrocolismo — sul versante patetico-sentimentale — sembra essere la nostalgia ebete per la scuola al tempo delle mele e dei bacetti, da Muccino a Moccia. Su un diverso registro, mancano rappresentazioni credibili della scuola come luogo conflittuale (con l’eccezione di Letizia Muratori). Troppo manieristicamente “pennachiana” la scuola della Vallorani, insopportabilmente sovradeterminata da un’antropologia negativa al limite del fascismo quella di Scurati. Questo quadro sconsolante è l’indice di un problema più ampio di quello qui trattato: la circolazione di pseudo-rappresentazioni e para-sociologismi è l’effetto dell’assenza di autorappresentazione da parte delle diverse componenti della scuola. È sintomatico che a Genova, dove segmenti parziali della società hanno saputo rappresentarsi e in qualche caso intersecarsi, c’erano gli studenti, i docenti e i precari, ma la scuola in quanto tale non c’era. A cinque anni di distanza la situazione non è cambiata. Il limite principale della scuola è proprio questo: non produce un’immagine di sé, non riesce a farsi processo. È ripiegata sul suo essere-scuola, non distesa sul suo divenire. Non riesce a passar dalla dimensione del “No” a quella costituente, propositiva. In negativo, la Mastrocola oggi (come il brescianesimo ieri) finisce così per fornirci gli indici per l’agenda di domani.

(1) Regolamento dell’Autonomia, DPR 275/99, art. 2.
(2) Sia detto per inciso: la Teoria delle intelligenze multiple di Howard Gardner — che evidentemente la Mastrocola ha malamente orecchiato senza averla mai letta — non afferma che, avendo una pluralità di intelligenze, dobbiamo selezionarne una piuttosto che un’altra nell’approccio alla realtà. Essa afferma che quanto più sviluppiamo le diverse intelligenze (linguistica, logica, psicomotoria, musicale, ecc.) nell’interazione con la realtà, tanto più avremo una rappresentazione ricca e plurale della realtà.
(3) George Steiner, Linguaggio e silenzio. Saggi sul linguaggio, la letteratura e l’inumano (1967), Milano, Garzanti, 2001, 2006, p. 9.