della Redazione Odradek

GuerraCivileGlobale.jpg
[Continuiamo a proporre le corpose introduzioni che la casa editrice Odradek è solita apporre ai suoi volumi. In questo caso si tratta di AA.VV., Guerra civile globale. Tornando a Genova, in volo da New York, 2001, pp. 346, € 12,91; ne è uscita da poco una seconda edizione, che non abbiamo visto. Il libro, che raccoglie contributi di Tom Behan, Cesare Bermani, Tano D’Amico, Gaspare De Caro, Roberto De Caro, Claudio Del Bello, Erri De Luca, Enrico Fletzer, Franco Gallerano, Vincenzo Miliucci, Giuseppe Pelazza, Paolo Persichetti, Oreste Scalzone, Coordinamento Falcri Bnl, Movimento Antagonista Toscano, contiene questa volta sia una nota editoriale che un’introduzione vera e propria. Per il momento proponiamo la nota; seguirà l’introduzione, in due puntate. Sappiamo bene che i testi di Odradek si prestano a controversie e discussioni; proprio per questo li pubblichiamo.] (V.E.)

0. Questo libro esce in una collana dedicata al conflitto e alle sue forme. Al conflitto abbiamo dedicato altri libri in altre collane, e sempre invitando a non considerare il caso italiano come un’anomalia, un residuo destinato ad essere riassorbito.

Al contrario, la marginalità italiana ben rappresenta la frantumazione progressiva del diritto. Repubblica del castigo e del fine pena mai. L’esportazione delle responsabilità, la prosecuzione indeterminata dell’emergenza, il sociale come luogo del patologico, l’amnistia negata, la giudiziarizzazione del politico e la pratica dell’eccezione sono la peculiarità italiana che ci avvicina agli Stati uniti per quanto ci allontana dall’Europa. Ma non è detto, per l’Europa: la situazione è in rapida trasformazione.
Avevamo, comunque, visto giusto quando, nella nota editoriale al Nemico inconfessabile di Persichetti e Scalzone, ci domandavamo: “sarà la Turchia ad adeguarsi all’Europa oppure sarà quest’ultima ad accedere ai ben noti livelli della civiltà giuridica turca?”. Un’intera pagina del Corriere della sera del 22 ottobre dedicata ai dubbi amletici che tormentano l’Fbi (“Che facciamo con questi, li torturiamo?”), e che introduce — legittimandolo sul piano dell’“efficacia antiterrorismo” — il tema della necessità della tortura all’interno stesso dei regimi democratici, risponde infatti, nel modo peggiore, alla nostra domanda d’allora.
Il maxi-“pacchetto antiterrorismo” approvato dal Congresso americano, l’istituzione di speciali “tribunali militari” (con giudici solo statunitensi e “imputati” rigorosamente “alien”) decisa da “Dabliu” Bush, nel mentre demoliscono alcune delle garanzie civili più pubblicizzate della cultura yankee — formalizzando sul piano giuridico, oltre che su quelli culturale e politico, il più massiccio trasferimento di poteri mai avvenuto all’interno di una democrazia — completano il quadro. Misure che — bisogna ricordare — affidano a un esecutivo nazionale poteri validi su tutto il pianeta, anche quello di sopprimere capi di Stato esteri.

1. C’è del vero nell’assimilazione che Berlusconi ha fatto tra il movimento no-global e l’attacco alle torri gemelle di Manhattan: “c’è una strana coincidenza tra le contestazioni al modello occidentale e gli attacchi terroristici all’America”, ha affermato il primo ministro italiano.
Certo, le sue intenzioni, lungi dal chiarificare, gettano sulla relazione le ombre della mistificazione interessata, della brutale assimilazione, della infamante filiazione.
In ogni caso, l’improvvido e inopportuno riferimento ha riportato l’attenzione sugli eventi e i protagonisti di Genova, ormai obsoleti e oscurati dal trattamento mediatico (una tragedia scaccia via l’altra: è la comunicazione, bellezza!).
La necessità di Genova. Non un evento casuale, ma un prodotto della crisi sistemica palesatasi — a livello delle economie — tra la fine del ’99 e l’inizio del 2000. E tutt’altro che chiusa con qualche bombardamento.
Che c’entra il popolo di Seattle con l’integralismo islamico? A prima vista, e soggettivamente, nulla. Sul piano dell’oggettività — quello della crisi nella sua complessità e globalità — molto. Sono due risposte alla crisi. Due risposte diverse e alternative tra loro. Semplicemente opposte.
Così come l’integralismo islamico rappresenta il negativo speculare della globalizzazione capitalistica a guida statunitense, il movimento rappresenta il bisogno (e quindi anche l’interesse generale di classi e popoli) di superamento del capitalismo (e quindi anche delle resistenze “retro”, a sfondo religioso e/o nostalgico).
Movimento e integralismo, quindi, sono in qualche modo figli indesiderati del capitalismo e sintomi della sua crisi attuale; ma con qualche decisiva differenza.
Figlio di una “distorsione” fatale del meccanismo dell’accumulazione — quella per cui i percettori della rendita petrolifera non potevano e non possono reinvestirla in sviluppo industriale autocentrato — e dell’intervento dell’intelligence Usa in chiave antisovietica dagli anni ’70 in poi, l’integralismo islamico non è anticapitalista: è semplicemente antiamericano e antioccidentale. Rifiuta la direzione politico-economica del meccanismo, senza però curarsi di porre quest’ultimo in discussione. Non ha la forza — concettuale, industriale, militare — di sostituirsi all’egemonia esistente. Cerca perciò di invalidarne la possanza, la discrezionalità, la prepotenza; cerca di limitarne la presa su di sé. Riporta la guerra in casa ai produttori della guerra, sconvolgendone il sistema di vita, annichilendone il mito dell’invulnerabilità. Indebolendolo come mai prima, sul piano strategico. Ma non riesce neppure a pensare il rovesciamento di segno del dominio capitalistico. Non ha messaggio né prospettiva universalistici, se non quello — metafisico e limitante — della religione. È, quindi, disperatamente locale. È una resistenza, un’istanza di rallentamento, una difesa di interessi colossali, ma non generalizzabili. Ha già perso, prima ancora di cominciare la battaglia; ma può far molto male. Sia all’imperialismo che alla sua ipotesi di superamento.
Il movimento, sia pure a livello sintomatico, è esattamente quest’altra cosa. Nasce dall’oscuro presentimento che la freccia tendente all’infinito del tasso di crescita del Pil confligge ormai in modo tangibile con la finitezza del Pianeta e delle sue risorse. E sta lì ad indicare, col suo semplice nascere e girare il mondo, che il profitto è — anche in questo ciclo — un fine troppo miserabile per l’accumulazione stessa. È l’istanza di andare oltre i limiti imposti allo sviluppo da una pratica economica (e politica e militare) che fa della crescita l’unico obiettivo. È l’istanza di una qualità dell’esistere che non trova risposte nella pura quantità delle merci allineate sugli scaffali. È un’istanza costruttiva di un altro mondo, quindi, al contrario del semplice moto d’odio di chi non ha le merci, per non parlare degli scaffali. È un’istanza di salvezza del mondo, posto in pericolo dal meccanismo dell’accumulazione fine a se stessa, ormai lanciato a testa bassa verso la divaricazione tra risorse fisiche naturali in calo e dinamica “matematica” della crescita purchessia.
Istanza, non soluzione. Sintomo, non prognosi. È il suo limite attuale; superabile, se riconosciuto per tempo.

2. È chiaro dunque perché un Berlusconi qualsiasi vede entrambe le risposte come la stessa cosa, un unico fenomeno, forme diverse dello stesso complotto. Entrambe sono l’annuncio, il sintomo, la forma fenomenica) della fine di questo mondo. Del mondo in cui la crescita di pochi corrisponde necessariamente all’impoverimento di tutti gli altri. Ma anche, ormai, del mondo in cui l’idea stessa della crescita perenne risulta indigeribile per la fisicità di un pianeta sotto stress.
Giova, perciò, ricorrere a un’immagine.

La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto tra loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese; una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina di entrambe”.

La citazione è troppo nota per essere commentata. Ma siamo certi che il 90% di chi l’ha letta, in un lontano passato o soltanto oggi, si è fermato — con gli occhi e perciò anche col pensiero — prima della sua chiusa. Negli anni ’70 lo si faceva perché la rivoluzione sembrava dietro l’angolo; oggi, magari, perché la porta sul buio spalancata dalla conclusione evoca paure che ogni uomo timorato cerca di ignorare.
Residui di positivismo progressista e di superstizione scaramantica si dànno del resto spesso il cambio nell’ottundere il pensiero della trasformazione radicale del mondo.
Eppure guardare in faccia la situazione — per quanto è effettivamente brutta — resta un dovere.

3. E a Manhattan? Cosa è successo a Manhattan? Ad accettare la ricostruzione che la Casa Bianca impone alle cancellerie e alle redazioni compiacenti si dovrebbe far ricorso alla Sorpresa, all’Inatteso, al Meraviglioso.
A noi piace, fino a prova contraria, muoverci nei limiti del verosimile, integrando però tutti gli elementi reali, e tutti i processi, che chiedono di essere rappresentati in un evento che si pretende epocale, e che quindi, in questa misura, deve essere spiegato limitando per quanto è possibile il Caso, l’Accidente e l’Imprevedibile.
La figura di Colin Powell, nella nostra ricostruzione, è cruciale. Per un periodo di qualche mese, il segretario di stato — il ministro degli esteri — artefice della “guerra nel Golfo” viene a lungo oscurato dal protagonismo di Condoleeza Rice, e comunque relegato in un ruolo secondario. Sono i mesi in cui gli Stati uniti stracciano un accordo internazionale dopo l’altro: Kyoto per l’ambiente, la non proliferazione nucleare, lo scudo stellare, la limitazione dei paradisi fiscali, i limiti alle armi chimiche e batteriologiche. Sono i mesi in cui l’amministrazione Bush ribadisce con forza i già consolidati assi portanti che garantivano gli equilibri dell’ultimo decennio; la linea “America first”, per prima cosa l’America:“colpiremo chiunque attenti agli interessi americani nel mondo”, come affermò ripetutamente Clinton. Tanto forte da poter fare a meno degli accordi internazionali su qualsiasi tema; tanto sicura della sua invulnerabilità da poter immaginare un mondo “esterno” scontento ma impotente, furibondo — sia pure — ma costretto al silenzio.
La “guerra infinita” — col suo corollario di illimitata e indefinita sospensione delle libertà primarie anche nei paesi dell’occidente avanzato (la Cnn che dal 10 ottobre trasmette sulla guerra solo “notizie autorizzate” dal Pentagono ne è stata la prima ma definitiva prova) — promette sconquassi soprattutto per il cuore dell’“impero”. Come confessava uno dei responsabili della Guardia costiera statunitense, l’aumento dei controlli sull’oltre mezzo miliardo di persone che annualmente attraversa nei due sensi i confini Usa, e l’ancor più incalcolabile traffico delle merci, è impossibile senza rallentare fino all’immobilismo questo traffico. Una conseguenza della guerra “infinita” potrebbe dunque essere l’embargo degli Stati uniti nei confronti del resto del mondo; ossia contro se stessi. E un sistema di vita costruito sulla libera circolazione di uomini e cose, che ha un bisogno disperato di aumentare la velocità di questa circolazione, tutto potrebbe fare tranne che imbarcarsi in una guerra senza confini, senza tempo e senza fronte che rischia di stravolgerne l’essenza vitale, i meccanismi automatici, fino a bloccarlo e farlo implodere.
Eppure l’amministrazione Bush ha scelto questa via che può portare, senza grandi sforzi di fantasia, alla rovina di entrambe le “classi” in lotta all’interno di ogni paese e globalmente.
Inutile attendersi balzi improvvisi di resipiscenza da parte di un’amministrazione dominata da personaggi che intrattengono simpatetici rapporti con sètte millenaristiche di estrema destra, cristiane e non (dai telepredicatori Falwell e Robertson fino a quel Moon che tanti dolori ha procurato a Wojtyla spupazzando il vescovo Milingo). Inutile attendersi un passo indietro da parte di chi crede nell’Armageddon, nello scontro finale tra il Bene e il Male, e magari confida, come a suo tempo Reagan, di potervi assistere.
Uscire dalla guerra è quindi una necessità di quanti stanno sotto, in forme e misura davvero differenti, il dominio capitalistico a egemonia Usa. E il movimento, con tutti i suoi limiti, è al momento l’unica ipotesi di via d’uscita da una trappola infernale.

4. Due sono le premesse all’analisi che facciamo degli eventi di Genova. La prima è l’ideologia da insider trading, da maggioranza insediata dopo una scalata, che anima e unifica il governo italiano: “Abbiamo vinto noi, quindi governiamo riscrivendo tutte le regole”, ricordando però che le regole erano già state riscritte in cinque anni di esperienza dei governi di centro-sinistra, a cominciare dallo scippo perpetrato dall’esecutivo ai danni del Parlamento sulla riforma Bassanini della Pubblica amministrazione e dalla riforma delle forze di polizia. La seconda è che questa comune politica anticostituzionale ed eversiva, lungi dall’essere un semplice rigurgito locale, s’inserisce in un disegno più vasto dell’imperialismo statunitense. Da questo punto di vista, l’Italia dimostra che qualsiasi televenditore in intelligenza con gli Usa può impadronirsi dello Stato imbarcando pezzi consistenti di Chiesa, Confindustria, Mafia e ciò che rimane della Banca centrale. L’interpretazione spinta e finta del neoliberismo mostra come gli Stati nazionali possano essere oggetto di scalata da parte di cordate intenzionate a metterne in vendita, per ricomprarselo, quanto risulti strategicamente inutile ai fini di una ricomposizione militare-industriale.
A Genova, con una gestione della piazza secondo un piano in fondo elementare, si voleva venire a capo, militarmente (e poi mediaticamente), senza alcuna intermediazione politica, di un movimento antisistema. Un movimento da qualcuno sopravvalutato quanto a intelligenza anticapitalistica, e sottovalutato, allo stesso tempo, quanto alla sua comprimibilità, nel suo esserci.
L’obiettivo era la piazza, derubricata a problema di ordine pubblico, non riconosciuta nella sua valenza politico-sociale. Era una precisa nozione di opposizione che doveva passare. Un’opposizione limitata alle aule parlamentari, e sterilizzata da una maggioranza blindata. Ogni altra opposizione andava criminalizzata con l’equazione piazza=violenza. La stessa precisa esigenza che aveva animato la repressione a Napoli nel marzo precedente.
Ebbene, a Genova questo piano non è riuscito. L’enorme spiegamento militare che doveva non solo impedire che le varie “piazze” si unificassero in un’unica manifestazione — e che si replicasse lo scontro ritualizzato di Seattle-Praga-Nizza — è stato dapprima stoppato, poi imbrigliato e messo in condizione di non poter manovrare.
L’insipienza politica si è quindi accompagnata a incapacità militare. Non è un caso raro, nella storia italiana. L’insipienza politica e militare, una volta frustrate nei primi tentativi, incattiviscono. Si alimentano a vicenda in modo sostitutivo: a un tot di insipienza politica si cerca si surrogare con un di più di strumenti puramente militari; alla verifica della grullaggine anche militare si risponde diminuendo ancora di più gli strumenti della politica (si dà cioè la colpa dell’insuccesso all’“eccessiva tolleranza”, alle “mollezze” caratteristiche del conflitto gestito secondo un codice, in senso residuo, “democratico”), e questo conduce a raccomandare un dosaggio maggiore di strumenti militari nella regolazione dei conflitti sociali. Fino alla legiferazione dell’illegalità dei conflitti sociali stessi. Non è un piano inclinato solo italiano, e la politica estera Usa di questi tempi ne illustra su scala mondiale la devastante idiozia.

5. Giovedì 19 luglio le cose sembravano mettersi come a certi post-operaisti sarebbe piaciuto. “Moltitudini” colorate e gioiose, “macchine da guerra” di cartapesta a rappresentare teatralmente un conflitto sociale che speravano morto e sepolto, ma che torna sempre utile “rievocare” a chi, nella politica, ci sta per presenzialismo, oppure per l’occupazione di “fette di mercato”. O almeno così l’hanno voluta rappresentare, consensualmente, la parte “democratica” dei media e buona parte del movimento. Chi c’è stato, però, non ha potuto non notare la “marcatura aggressiva” che le forze di polizia hanno esercitato per tutta la giornata. Un atteggiamento spesso palesemente intimidatorio che sarebbe stato agevole cogliere come un presagio per i due giorni successivi. Ma la speranza che tutto si svolgesse secondo previsioni rosee ha evidentemente fatto passare sullo sfondo anche i segnali di pericolo più evidenti.
Perché le “moltitudini” — come ora si ama dire — davanti non avevano più un governo di centro-sinistra, uno di quelli che gestiscono il neoliberismo con un occhio al raffreddamento dei conflitti sociali che ne derivano; che stigmatizzano la piazza garantendo però di che vivere — nei meandri del “terzo settore” o nelle anticamere degli enti locali — a chi la piazza ha gestito in questi anni. Non avevano più davanti, insomma, quella che pensavano essere, nonostante Napoli, la faccia tollerante dell’“impero” — altra parola tanto inflazionata quanto mistificante — quella che lasciava sperare di poter scalare cariche amministrative o istituzionali in perfetta tranquillità; di poter immaginare un “esodo” verso un vago “altrove” rimanendo fisicamente a casa o in Comune.
Davanti c’era un apparato militare ideologicamente fascista e guidato, dalle sale comando di questura e carabinieri, dai fascisti al governo: Fini, Ascierto, ecc. Ossia il volto dell’“impero” che non sa e non vuole più tollerare opposizione e rispolvera — contro un movimento di massa pacifico e pacifista! — la strumentazione della guerra civile.
Non si può dire che, nelle discussioni di movimento sul dopo-Genova, ci sia stata compattezza di opinioni o capacità di elevare la riflessione al di sopra del puro dato politico di breve durata. Per dirla con un frasario datato, non sembra che il “cambiamento di fase” sia stato còlto nel suo significato profondo. Molti si sono fatti catturare da pseudo-dibattiti: violenza/non violenza, portavoce sì/portavoce no, ecc. La stessa “autocritica” delle Tute bianche è durata lo spazio di un mattino.
Nella logica dello spezzone italiano del “popolo di Seattle” sembrano prevalere le dinamiche interne, gli spiriti concorrenziali ed “egemonici”. In assenza di progetto sociale e politico — e di un’idea di società anche solo sommariamente definita — questa prevalenza non può portare lontano.
La stessa svolta dell’11 settembre, la dichiarazione di guerra universale, è stata rapidamente repertata come un “tema” tra gli altri. La discontinuità irrecuperabile che rappresenta è stata esorcizzata nella pratica ripetizione di un copione non troppo modificato. Esistono nel movimento figure e soggetti che si interrogano su un ordine più generale di problemi, che provano a misurarsi con la nuova scena globale ridisegnata dal progetto di una guerra che inizia ora, durerà un tempo indefinito, contro un nemico da inventare giorno dopo giorno e il cui obiettivo — per dirla con le parole di Rumsfeld — è “convincere il mondo che gli Stati uniti hanno il diritto di mantenere il proprio standard di vita”.
Nell’offrire alla discussione questi materiali, dunque, invitiamo a riflettere sui limiti del movimento. Perché un movimento c’è e va fatto crescere: socialmente, analiticamente, progettualmente. Perché solo chi lo odia può solleticarne l’orgoglio per le proprie debolezze.
In ogni caso, ripartiamo da Genova. Perché se a Genova si è chiuso il ciclo iniziato a Seattle, a Genova se ne è aperto uno nuovo: il “sintomo” del malessere globale ha cessato d’esser riguardato come tale e il governo italiano si è incaricato di investirlo del ruolo di “nemico interno”.

6. Un’ultima notazione. Se queste riflessioni sono state possibili, se i fatti cui ci si riferisce possono essere oggetto di interpretazione ma non di confutazione, lo si deve al lavoro svolto da tanti operatori dell’informazione: fotografi, cameramen, giornalisti che hanno lavorato pressati, intimiditi, subornati, minacciati, molti colpiti, tanti feriti, qualcuno massacrato; fra tutti, vogliamo ricordare gli inviati a Genova del Corriere della sera e l’Associazione Stampa ligure. E forse non si è trattato di mera professionalità, ma di un sussulto di dignità.