di Giuseppe Genna

bugliosihs.jpgAvvicinandosi a una leggenda pop (non di matrice italiana) quale è Helter Skelter, cioè il racconto del caso Manson scritto dall’attorney mastino Vincent Bugliosi, bisogna collocare alcuni fatti e caratteri, oltre che prescindere da un protocollo fondamentale. Cominciamo con ciò da cui è necessario prescindere: cioè Vincent Bugliosi in quanto scrittore. Fa schifo. Fa schifo in quanto scrittore saggista e non oso immaginare (poiché lo so e mi è inutile immaginarlo) cosa sia venuto in mente a Bugliosi dopo la pubblicazione di questo testo, che deve il fatto di essere un culto all’oggetto della ricerca – insomma, a Bugliosi è venuto in mente di intraprendere, oltre a quella legale e poi politica, una carriera letteraria, che l’esperto di satanismo – ma anche di stile – Massimo Introvigne, in un accesso di rara pietà, definisce “mediocre”.
La verità è che un poliziotto, fatto salvo il suo lavoro d’indagine, è generalmente un mediocre osservatore letterario e un pessimo espositore. E Bugliosi è tutto ciò: un pitbull dell’indagine, che a un certo punto la prende sul personale, un colluso coi servizi segreti, uno che pensa di avere fatto (e ha ragione) il colpo della sua vita.

Fatte salve queste premesse, che sono perplessità nemmeno personali, Helter Skelter è un testo mitologico di una branca particolare della crime story. E’ un instant book il cui istante dura trent’anni. E’ una presa diretta di una serie di omicidi che hanno segnato l’immaginario popolare. E’ la Coca Cola della morbosità e su questo piano dobbiamo porre i sette milioni di copie vendute nel mondo, non sul piano dei milioni che vanno due minuti a lanciare l’occhio alla Gioconda. Basta effettuare un esercizio minimo e interessante: in Musica per camaleonti, c’è un intervista che Truman Capote va a fare in cella a una specie di amico e rivale di Manson, un idiota pericoloso di nome Robert Beausoleil. Leggetevi quelle poche pagine e poi raffrontatele con la cronaca da rapporto di carabiniere di Vincent Bugliosi: laddove Capote, in brevi tratti, è capace di fare intuire la banalità del male e la presenza demonica all’interno di un mix impressionante di metafisica e di prosaicissima realtà, Bugliosi non fa altro che praticare una cronistoria fenomenologica, che, quando pretende di essere interpretativa, lascia bene intuire la sostanza umana da cui l’esegesi procede.
Tanto per intenderci: Capote:

TC: Ma ora dimmi: qual è il tuo senso morale? Che distinzione fai tra bene e male?
RB: Bene e male? È tutto bene. Se succede, deve per forza essere bene. Altrimenti non succederebbe. È così che la vita scorre. E va avanti. E io vado avanti con lei. Non la metto in discussione.

E Bugliosi:

Un giorno, mentre Manson era ancora sotto processo per gli omicidi Hinman e Shea, decisi di seguire un’udienza. Per una volta, era davvero un sollievo fare lo spettatore.
Manson mi vide e mi fece sapere che voleva parlare con me. Anch’io un paio di cose da domandargli e perciò accettai. Parlammo per circa un’ora e mezza discutendo per lo più la sua filosofia. Mi interessava soprattutto conoscere l’evoluzione di alcune sue idee…

Lo scrittore contro quello che si trova sotto i fari della scrittura e non per merito suo.
E, quindi, prima di parlare del caso Manson, sarà il caso di affrontare il caso Bugliosi, e capire quale rapporto ha intessuto e maturato questo implacabile persecutore della giustizia con il satanista e, più in generale, con l’intera epoca da cui un satanista come Charles Manson ha potuto germinare e crescere a vette mediatiche e criminali che, purtroppo, già ai tempi avevano precedenti.
Il nodo fondamentale è, ovviamente, il satanismo. L’elemento, che sfugge dal caso criminale di cui Manson fu abilissimo organizzatore, è la mutuazione che viene effettuata dal cronachista di un processo per omicidi: per quanto efferati, essi furono solo omicidi. A Bugliosi, pur conoscitore raffinatissimo dell’universo underground in cui la variabile luciferiana appariva uno dei molti ingredienti di un melting-pot contestatario estremamente immaginifico e alternativo alla consolidata tradizione cristiano-presbiteriana Usa, sfugge che in Manson, al momento delle accuse, il satanismo stesso è un carattere spurio e secondario.
Per dirla con gli esperti del CESNUR:

“Sul piano esterno, gli omicidi commessi da aderenti alla comunità raccolta attorno a Charles Manson, la “Famiglia” nel 1969, e il successivo clamoroso processo del 1972 avevano procurato inizialmente un’ampia pubblicità al satanismo, ma ultimamente hanno determinato una forte reazione sociale. Gli specialisti del caso Manson concordano oggi sul fatto che gli elementi “satanici” della sua comunità sono stati introdotti in gran parte da un Manson intento a reinventarsi come personaggio più importante di quanto non fosse in realtà mentre si trovava in carcere, dopo gli omicidi, e prontamente utilizzati dal rappresentante della pubblica accusa, il procuratore Vincent Bugliosi, per costruirsi a sua volta una importante fama politica (e più tardi letteraria)”.

Se una verità sociologica può genericamente essere mutuata dalla saga di sangue di cui Manson e la sua Famiglia furono protagonisti in qualità di esecutori, è che il processo Manson o, meglio, tutto l’affaire Manson testimonia di un passaggio fondamentale dell’epoca della spettacolarizzazione a cui la cronaca più nera del nero è stata sottoposta. L’invenzione demonica del satanismo à la Manson, che non è quello di Crowley o di LaVey, è un fenomeno pop che viene irradiata dai media e recepito dalla cultura popolare del momento storico in cui eviene. Gli ingredienti, è chiaro, cospiravano a un simile successo: il regista Polanski, egli stesso vicino a seduzioni di ordine satanico, la giovane moglie Sharon Tate famosa e incinta, il misterioso codice “Helter Skelter” scritto a sangue sui muri, tra le vittime l’equivalente di Gil Cagné nella Hollywood dei tempi d’oro. Fatto sta che si stenta a ricordare il secondo pluricidio firmato da The Family, quello accennato nella citazione da Bugliosi: era, di fatto, meno intenso dal punto di vista spettacolare.
E, del resto, la ricostruzione dell’esistenza di un drop out, come fu a tutti gli effetti Manson prima della mitologia costruita a processo, è qualcosa che lascia sconcertati, esattamente come oggi si resta quasi delusi dalle criminosità diaboliche di carpentieri del Gallaratese. Manson non regge a Manson, l’ipostatizzazione è postuma. Bugliosi ne ha personalmente approfittato, il che è immorale, ma tanto chi se ne frega, dopo tre decenni?
Se intendete leggere un libro che entri nel cuore nero e morboso del Nemico, non comprate Heleter Skelter. Se, invece, desiderate conoscere, nei minimi particolari, l’andamento processuale del procedimento a cui fu sottoposto Manson insieme alle sue vestali, se volete addentrarvi nelle contraddizioni e nelle svolte da borderline di un cretino invasato che ha fatto massacrare una comunità di divi lanciando al mondo il suo urlo che, oggi, sappiamo essere stato inventato da Paul McCartney in onore di un giro su un ottovolante con la sua fidanzata, acquistate e leggete attentamente le 562 pagine di cui Bugliosi e Gentry sono ambigui ma precisissimi e maliziosamente illuministici autori.

Vincent Bugliosi e Curt Gentry – Helter Skelter. Storia del caso Charles Manson – Mondadori Strade Blu – 18.50 euro