di L. Emmingsc2.3.lemmings.gif

[“L. Emmings” è il nom de plume di un laboratorio di scrittura creativa, realizzato all’interno di un progetto didattico nella provincia di Ferrara. La pubblicazione a puntate dei suoi primi esiti è coerente con un’idea di letteratura come pratica attiva e di scuola come luogo di produzione e scambio culturale, dove il sapere è tale solo se viene praticato attivamente, e non vissuto come un momento di ricezione passiva. In opposizione a una certa triste “cultura dell’addio” (scuola addio!, cultura addio!, politica addio!), i partecipanti a questo laboratorio sostengono, con la loro pratica, l’idea di Raoul Vanaigem che “una scuola dove la vita si annoia insegna solo la barbarie” (g.d.m.)]

LA NEBBIA SU ERCOLE D’ESTE

“La città è la Maestra dell’uomo” (Simonide)

Prologo

Essenza, essenza: ecco il fuoco silenzioso che si cela ai nostri occhi, dietro l’ardente realtà delle cose.
Oltre la serena Acqua che ci è vita e morte.
Oltre la rapida Aria che forma i nostri pensieri.
Oltre la solida terra, creatrice della carne e delle ossa.
Oltre, oltre: è il Fuoco, divampante energia che brucia le nostre emozioni e si alimenta dei giorni che passano, senza invecchiare nè morire. Esso è onnipresente, è nel tutto e nel niente. Non lo avvertiamo quando sfioriamo un’altra persona, quando ci avviciniamo ad un altro essere vivente. Eppure è proprio in quella frazione di secondo che le due essenze si intrecciano l’una con l’altra. Come due fiamme che messe vicine si uniscono a dare vita ad un’unica, intensa, colonna infuocata.
L’Anima Mundi esiste.

ercole.jpgL’Anima Hominis? Così anche.
Poichè tale Essenza, impalpabile e invisibile, è connaturata alla Vita. Dove c’è Vita, c’è Essenza: ed essa è come sottili filamenti che ricopre la nostra pelle e i nostri organi, il cuore e il cervello, lo stomaco ed il fegato. Come la lama della spada scivola nel fodero, così il nostro corpo è avvolto dall’Essenza. Ma insieme, il corpo stesso è contenitore dell’Essenza: poichè non ha consistenza, e al tempo stesso è dentro e fuori di noi.
L’Essenza esterna è Aura: come olio su una superficie, l’Aura avvolge le nostre membra, il nostro torace e il nostro petto, il collo e il capo, come già diceva il Sapiente Kyumahashi. Si allunga per ogni estensione del nostro corpo, ed irradia se stessa nello spazio circostante come fa la luce della candela nelle tenebre.
L’Essenza interna è Anima: come Acqua in una brocca, come Aria in una stanza, ella riempie ogni interstizio e pertugio del nostro corpo senza mai uscirne. Muove le parole all’interno della gola, conduce il sangue sino alle estremità ultime che ci formano, ordina i pensieri e i comportamenti.
L’Essenza è strettamente legata al Corpo, ed il Corpo all’Essenza.
Se il Corpo si ferisce, pure l’Essenza si ferisce senza aver mai più modo di rimarginarsi, come ad un taglio che continua a purgare e per cui a niente valgono i medicinali e i balsami.
Se il Corpo viene mutilato, l’Anima si comprimerà in uno spazio più ristretto e ciò provocherà dolori e disfunzioni del corpo all’Uomo che ha subito la perdita. Al tempo stesso, l’Aura verrà mutilata anch’essa disperdendo la parte tagliata nell’Anima Mundi, e rimarrà la cicatrice per sempre. L’Aura sarà incompleta, dolorosa sia per l’Uomo stesso che per chi gli è vicino, poiché quando l’irradiamento di due Auree si tocca allora avviene una vibrazione armonica o disarmonica. E se tocchiamo una persona sfregiata, la nostra Aura avvertirà la ferita altrui.
Poiché come una casa è costruita di mattoni, così pure l’Anima Mundi è formata dalle nostre Essenze che l’una accanto all’altra si uniscono dando vita ad un più complesso tutto.
E così è per ogni cosa.
Un’Università altro non è che il risultato dell’unione delle sapienti Essenze dei Dotti; un postribolo è l’aggrovigliarsi di corrotte Auree di avvinazzati e meretrici; una casa è l’insieme di due sposi e la loro prole; un mercato si può vedere come l’affastellarsi di compratori e mercanti, e delle loro Essenze. Tutti originati dal singolo uomo, e dalla sua singola Anima e dalla sua singola Aura.
E a loro volta, l’Università ed il postribolo, le case e i mercati creano una città: la somma degli uomini e della loro Essenza, che darà vita ad un’Essenza più grande e omnicomprensiva. Chi viaggia, come io ho fatto, sa bene che ogni luogo ha un odore particolare, una brezza caratteristica, o fa scaturire nell’osservatore un sentimento che rimane unico e tipico. Tale è l’Anima della città, ossia il prodotto di tutte le Essenze degli abitanti. Vi sarà la città ricca o misera, solare o cupa, ridente o seria: aspetti propri dell’Uomo ma che diventano personalità delle Città. E molte città daranno forma ad una Nazione, e così via fino, forse, all’infinito.
Eppure, essendo ogni Essenza parte e somma di altre Essenze, si può compiere il percorso inverso. Dal Mondo identificare le Nazioni, dalle Nazioni esaminare le Città, e dalle Città arrivare sino alle Essenze dei loro abitanti.
Poiché conoscendo le Città si conoscono gli Uomini, e conoscendo gli Uomini le Città.

Nicolas Ashkenazi, Trattato intorno alla ricerca alchemica

CAPITOLO 1

Castello_pic.jpg Osservava la goccia prendere corpo, secondo dopo secondo, e timidamente allungarsi dal bordo superiore dal buco che si poteva considerare una finestrella. Riluceva alla luce della luna, poi silenziosa si staccava dalla nuda pietra e per un istante rimaneva sospesa nell’aria. Plin.
Il Moncato giaceva su un pagliericcio sporco e quasi inesistente, tanto che il gelo gli carezzava la schiena, tramite il contatto con il pavimento dell’angusta cella nella quale si trovava. A malapena riusciva a stare disteso, e a muoversi senza andare a sbattere subito con la parete. Solo quel pertugio, così in alto che anche lui faticava a toccare, gli permetteva di spaziare con la vista. Si vedeva il cielo, e la sommità dei ricchi palazzi veneziani. Tutto sommato era una visuale privilegiata, pensava di tanto in tanto. Plin.
“Da quanto sono qui?” la domanda venne espressa ad alta voce, ma probabilmente lui non se ne rese conto. Nessuno, in ogni caso, era lì per farglielo notare. “Non lo so” , fu la replica dopo qualche secondo, sempre mugugnata.
Era stato preso non molto tempo prima. Sei giorni, forse sette o qualche di più ancora… non ricordava le volte che dalla finestrella aveva visto il cielo farsi prima chiaro e poi scuro. Le guardie della Serenissima lo braccavano da tempo, sin da quando aveva commesso l’errore di uccidere alla luce del sole. Fuori dai suoi schemi, fuori dalle sue abitudini… ma quella volta era necessario per finire il lavoro. Plin.
E così gli erano stati dietro, avevano rintracciato chi gli aveva commissionato il lavoro, ed erano arrivati sino alla sua identità. Erano zelanti, i veneziani… quando si mettevano in testa qualcosa, non c’era verso di farli desistere. Soprattutto, ma questo il Moncato l’aveva scoperto dopo, se l’assassinato era amico del Doge. Amico intimo, così dicevano nelle bettole del porto. Forse, se l’avesse saputo, avrebbe rifiutato l’incarico. Forse. Ma “del senno di poi sono piene le fosse”, dicono i contadini, e lui aveva bisogno di soldi.
Dopo qualche giorno in cui si era tenuto nascosto, aveva trovato il modo di comprarsi il trasporto sino a Marsiglia da parte di un vascello, per metà caricato di contrabbando. Il commercio illegale forniva spesso vantaggi alle stesse autorità repubblicane, le quali chiudevano volentieri un occhio quando il denaro passava facilmente di mano in mano. Bastava sapere oliare i cardini giusti.
Ma non quella volta. La somma non era abbastanza, o forse volevano controllare eventuali passeggeri non denunciati. E il Moncato non aveva potuto fare altro che porgere i polsi ed avviarsi con passo strascicato per le catene verso le prigioni di Venezia.
“Dannato. Dannato!”, ringhiò dando un calcio al muro, e sentì il dolore farsi strada lungo la gamba fino alla schiena. Ce l’aveva con se stesso, per essersi fatto prendere, e contro chiunque altro fosse coinvolto nella sua cattura. Plin. Plin.
Non sarebbe rimasto ai Piombi ancora per molto, in ogni caso. Si stupiva anzi che fosse rimasto così a lungo in quella cella ricavata dal sottotetto, e non fosse finito nelle segrete più umide e buie della Serenissima Repubblica. Dalle voci che correvano, solo ai detenuti in attesa di giudizio veniva data la possibilità di soggiornare in un locale così areato; agli altri spettavano loculi dall’odore di marcio e con l’acqua sino alle caviglie. Sarebbe stata la sua fine, a meno che il Tribunale non avesse deciso per qualcosa di più immediato. Il taglio della testa, forse, o perché no un pittoresco annegamento nelle acque della Laguna. Presto l’avrebbe saputo, e non perdeva tempo a fantasticare sulle possibilità che aveva: nulle.
“Evadere?”, domandò all’aria con voce pensosa, in poco più che un mormorio. “Come?”.
Non lo sapeva. Oh, era già scappato molte altre volte. A Firenze, a Parma, a Modena. Spesso i suoi servigi erano richiesti nelle signorie di tutto il Nord Italia, e mai il contratto non era stato rispettato. Gli piaceva pensare fosse un suo segno distintivo, qualcosa di cui andare fieri, un manifesto d’orgoglio. Come se anche per un assassino, e neanche dei più raffinati, la parole onore esistesse ancora. Era successo, quindi, che proprio per commettere l’omicidio per il quale era stato pagato fosse finito in galera…proprio come in quel momento. Ed era sempre riuscito a cavarsela, trovando un passaggio nascosto, corrompendo o uccidendo la guardia con le soli mani nude e le catene. Ma in quella situazione c’erano poche possibilità di riuscita.
Riceveva i pasti saltuariamente, e a periodi irregolari. Le guardie non venivano mai da sole, ma sempre in due o tre. Forse, nel corridoietto che aveva intravisto una volta mentre il soldato richiudeva la porta, ce n’erano altre. Anche perché i Piombi ospitavano anche i prigionieri politici, illustri delinquenti, per i quali ci doveva sempre essere un soldato che fungesse anche da servitore. Allo stesso modo era impossibile salire sul tetto, essendo le lastre di piombo erano ben fissate e non vi era modo di forzarle per garantirsi un’apertura decente per passare. Per la finestrella, figuriamoci, passava a malapena il braccio.
Doveva aspettare, non poteva fare altro. Aspettare l’arrivo delle guardie, questa volta non per la solita puzzolente zuppa ma per essere trascinato chissà dove. Sarebbe morto presto, di lì a qualche giorno, ma accettava la cosa con apatia. Quando vedi la morte in faccia ogni giorno, quando affondi il coltello nelle carni e senti l’ultimo respiro del corpo tremante sotto il tuo cominci a spogliarti della paura che ti viene inculcata da bambino. La morte è un sonno continuo, smetti di respirare e al tempo stesso di pensare. Più nessuna preoccupazione ti impedirà di dormire, non sentirai più la fame e non sarai costretto a trovare denaro per continuare a vivere.
Forse, non era poi così male morire. Gli dispiaceva, solo, lasciare le cose irrisolte. Ma in quel momento, cosa aveva da fare? Rinchiuso in una cella ai Piombi di Venezia, in attesa del giudizio di morte, non aveva più nulla da compiere.
Plin. Si addormentò.