della Redazione Odradek

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[Proponiamo un’altra delle prefazioni redazionali delle Edizioni Odradek: questa volta alla seconda edizione di AA.VV., Una sparatoria tranquilla. Per una storia orale del ’77 (2005, pp. 347, € 18,00). Il volume raccoglie testimonianze di Vincenzo Miliucci, Raoul Mordenti, Oreste Scalzone, Mario Moretti, Enzo Modugno e molti altri, incluso Francesco Cossiga. In anni recenti, le rivisitazioni sul ’77 si sono concentrate soprattutto sulla cosiddetta “ala creativa” di quel movimento. Il volume ha il merito di dare la parola anche a quella che allora la stampa chiamò “ala dura”, poi ampiamente criminalizzata. A tali posizioni si richiama in certa misura anche la prefazione-saggio che presentiamo.] (V.E.)

Ripubblichiamo la “sparatoria tranquilla” perché una sia pur generosa prima edizione è andata esaurita da tempo, ma anche perché è l’occasione di riflettere sui movimenti con questa prefazione*.

A otto anni dalla prima edizione molto è cambiato nel mondo. Il “buonismo” dilagante — con Clinton, Prodi-Veltroni, Jospin, ecc — ha lasciato il posto ai teorici della guerra preventiva, tendenzialmente infinita. Non senza aver prima dimostrato, però, come il “buonismo” fosse solo una mano di vernice chiara sul nerofumo tumorale di un capitalismo ormai in affanno (anche se inebriato dalla più esaltata e insensata delle crescite di borsa): la guerra contro la Jugoslavia sul piano internazionale, il “pacchetto Treu” e l’apertura selvaggia alla precarizzazione del lavoro, sul piano interno, sono solo due dei tanti orrori che possono esemplificare quella stagione. Chi vuole può aggiungere.
Nel frattempo, però, è apparso sulla scena mondiale il “movimento dei movimenti”, che per tre anni ha tenuto in relativa apprensione le cancellerie occidentali e i consigli di amministrazione delle multinazionali. Qui la critica delle conseguenze del capitalismo ha trovato ascolto, condivisione, declinazione; senza mai però che almeno si tentasse di risalire alla causa prima. La critica degli assetti di potere globali, di conseguenza, non è mai arrivata al punto da richiedere un mutamento radicale, sistemico. In sintesi, si potrebbe facilmente ironizzare, solo nel “movimento” ha trovato accoglienza e modo di riprodursi quel “riformismo buonista” ufficialmente professato nei palazzi del potere.
Si potrebbe perciò pensare che il “movimento del ’77” non abbia più nulla da trasmettere, in un mondo ancora una volta così cambiato. Ma sarebbe un grossolano errore, che non a caso molti ex estremisti commettono e invitano a commettere.

Sapere impedisce di capire?
Già volano infatti gli avvoltoi che invitano a “calare il sipario” su quella stagione, come su tutto il passato. La tesi prevalente è: “Il culto della memoria impedisce sempre la comprensione del presente, le sue contraddizioni e le potenzialità di trasformazione che lo accompagnano”, ma risulta un insulto definitivo tanto alla scienza storica quanto ai suoi protagonisti in carne ossa, ossia proprio i movimenti: che utilità mai può avere il “muoversi” oggi, qui, nel presente, se i prossimi a farlo dovessero, per prima cosa, dimenticare la nostra stessa esistenza? E infatti la speranza di coloro che insistono su questa istanza è che “su quella stagione cali finalmente il sipario per avere libertà di leggere il presente storico senza l’ipoteca di una sconfitta che sicuramente ha rappresentato uno spartiacque nella cultura politica radicale di questo paese”.
Tesi curiosa, davvero. In pratica si vorrebbe fare “come se” quella battaglia, e quella sconfitta, non ci fossero state. Sarebbe bello, certamente. E ognuno di noi, nella sua vita, ha una discreta scorta di momenti, passaggi, disavventure, che preferirebbe non fossero avvenuti. Ma basta un attimo di “mancata vigilanza”, un incontro fortuito, ed ecco che quei momenti sono davanti a noi: insuperabili. A meno che non si sia stati capaci di “elaborarli”, di considerare criticamente i comportamenti nostri e quelli altrui, di “superarli” accettandoli come parte integrante del nostro passato e della nostra stessa formazione.
Già, la “formazione”; nel senso di Bildung, però, e non in quello ormai invalso di “adattamento” forzoso a schemi operativi-procedurali. Se ne sta perdendo persino la nozione, complici ovviamente quelli che da quest’assenza hanno tutto da guadagnare: improvvisatori in filosofia, in politica, in cultura, e persino nell’etica. Basta premettere un “bio-” a questi concetti e si può diventare “massimi esperti” in discipline inesistenti.

Verginelle ignare, bruti sapienti e nonni lascivi
Per i movimenti che mettono a nudo l’invivibilità e l’ingiustizia del modo di produzione capitalistico la possibilità dell’ “oblìo”, del “sipario” calato sui movimenti precedenti, semplicemente non esiste. Per quanto un movimento possa esser “nuovo”, infatti, incontra pur sempre lo stesso avversario: la stessa classe imprenditoriale, lo stesso Stato, gli stessi organi repressivi. Addirittura — vista la frequenza con cui si susseguono — spesso si trovano davanti le stesse persone che occupano ancora le stesse cariche (ministri, ad esempio) o sono saliti di grado (commissari diventati prefetti, giudici diventati procuratori, ecc). Ma anche a prescindere da questa “continuità fisica”, si trovano comunque davanti “lo Stato”, ossia un insieme di apparati con direzione politica centralizzata, incaricati di “conservare l’informazione” (le schedature, le tipologie di “sovversivi”, ecc) e di “imparare dall’esperienza”, in modo da riconoscere per tempo la successiva ondata di contestazione e affrontarla con grande proprio vantaggio.
Il negrismo senile — come quello giovanile o della maturità, del resto — si sbraccia invece per convincere ogni nuovo movimento a “dimenticare” l’esperienza di quelli precedenti, acconciandosi alla lotta contro un apparato ogni anno più esperto come una verginella al primo appuntamento. La globalizzazione, l’americanizzazione del comando, non ha modificato la situazione, semmai l’ha aggravata: “lo Stato”, dal punto di vista della repressione degli “insorgenti interni”, ha raggiunto un livello maggiore di integrazione, di sofisticazione delle politiche, di specializzazioni funzionali. La verginella “potenziale” ha insomma a che fare con un bruto “in atto” più smaliziato, nerboruto, sicuro di sé e della propria impunità.
Domanda ingenua: non sarebbe meglio se la verginella, arrischiandosi per le strade del conflitto di classe, prendesse su di sé più memoria possibile, istruendosi per via pratica e teorica in tempi ragionevolmente brevi, in modo da capire e contrastare per tempo le mosse del bruto? Qualunque familiare non nutrirebbe dubbi sulla risposta. Solo il vecchio nonno negriano si dà da fare perché la nuova verginella abbia la peggiore delle esperienze possibili.

Farsi del male
E invece, scorrendo sia le testimonianze riportate in questo libro, che l’introduzione che vi premettemmo, è possibile vedere che al di là delle incontrovertibili differenze, la breve stagione del movimento del ’77 è ricca di esperienza utile proprio perché è stato il primo movimento privo di sponda politica, trattato come “nemico” da combattere anche militarmente (sebbene la repressione vera e propria sia giunta — visti i numeri che riempivano le piazze — soltanto a “ritirata” in corso, tra il ’79 e l’82). Non era invece il primo movimento che si sconfigge da solo, inseguendo slogan privi di riscontro possibile (reddito garantito, per dirne uno), con mezzi quasi sempre inappropriati, con aspettative e tempi non realistici (“tutto”, “qui e ora”), fino alla teorizzazione “operaista” — suicida, va detto con tutta franchezza — della contrapposizione “politica” tra lavoratori “garantiti” (che sarebbero stati rappresentati dal Pci e dai sindcati) e “non garantiti” confluenti nel movimento stesso.
Con linguaggio di altri tempi (pur sempre in vigore, va ricordato, negli “stati maggiori” che governano il mondo), si può dire che a quel movimento è mancata una strategia, una tattica, un’organizzazione, una cultura unificante in grado di “contenere” buona parte delle innumerevoli e assolutamente vitali differenze. E sappiamo, dalla storia, che senza tutto ciò un movimento è condannato a non poter neppure vedere l’orizzonte delle “cose da fare”, attendendo invece lo smembramento nelle diverse identità costitutive che avranno da quel momento in poi, solo una prospettiva di tipo “testimoniale”.

Il portavoce, ovvero il dirigente irresponsabile
Già questo connota una straordinaria similitudine con il nuovo “movimento di movimenti”, anche se quest’ultimo — al contrario di quello del ’77 — non ha dimestichezza con la violenza da agire, ma solo con quella subita. Conosce infatti lo stesso scollamento tra dirigenti che rifiutano di essere identificati come tali (atteggiandosi ipocritamente a meri “portavoce”, o peggio ancora a “suggeritori” dei portavoce) e “partecipanti” che non hanno né la possibilità di “formarsi” come aspiranti dirigenti, né quella di “criticare” e sostituire quelli esistenti. Banale a dirsi, ma ogni “collettività democratica” è tale non se “priva di gerarchie”, ma se queste sono criticabili, rinnovabili, sostituibili; se, insomma, la massa dei nuovi ha possibilità di “istruirsi” e rinnovare le gerarchie stesse. L’alternativa — è l’esperienza a dirlo — consiste in un oscuro meccanismo di affidamento carismatico della leadership, nel momento “aurorale” del movimento, a qualcuno che mostra di saperne più della media e che diventa automaticamente “l’immagine” adesiva del movimento stesso, senza rispondere quasi mai delle sue “giravolte”.
Analizzare un movimento a quasi trenta anni di distanza non significa perciò “glorificare” i suoi comportamenti o le sue illusioni, né “condannarli”. Significa invece analizzarne i limiti. Separando magari quelli esterni, indipendenti in larga parte dal suo esistere e agire, e quelli interni, ossia la sua cultura politica, le sue convinzioni diffuse, la “cassetta” degli attrezzi che ha usato.
Dei limiti esterni, anche in sede di introduzione, molto abbiamo detto. La crisi economica degli anni settanta — più drammatica di quella attuale solo a prima vista — restringeva gli spazi per una risposta alle nuove domande sociali in chiave di estensione del welfare; anzi, poneva per la prima volta il problema del suo restringimento (la “politica dei sacrifici”). Un quadro di fronte al quale forze politiche in precedenza reciprocamente ostili (Democrazia cristiana e Partito comunista) convergevano nell’analisi e nelle soluzioni “restrittive”. Il prezzo politico, però, era tutto a carico del Pci, costretto a voltare in modo definitivo le spalle alla propria base sociale, quella classe operaia che ne aveva costruito la forza politica. A maggior ragione lo stesso Pci si sarebbe sentito obbligato non solo a chiudere la porta in faccia alle fasce giovanili del “proletariato metropolitano”, ma anche a combatterle come il proprio peggior nemico. La sponda politica residua — Democrazia proletaria — non possedeva né i numeri, né la cultura politica per agire diversamente da come fece (un primo tentativo di essere “dentro” il movimento per rappresentarne il “volto moderato e ragionevole”, per poi limitarsi a sponsorizzarne da lontano le fasce più “compatibili”: indiani metropolitani, femministe, ecc).
Dei limiti interni invece, sarà bene parlare meglio in questa sede.

Concetti poveri, intellettuali miseri
Il principale è costituito certamente dalla povertà degli strumenti culturali. Poveri fino allo sconforto (esaltazione della “rabbia”, mistica del “rifiuto del lavoro”, affabulazioni ultrarivoluzionarie malamente commiste a richieste assistenziali di tipo riformistico come il “reddito garantito”, o — come recita una scritta demenziale apparsa sui muri di S. Lorenzo a Roma — “motorino gratis” ). Le colpe, naturalmente, non sono in questo caso del movimento. Nascere, infatti, implica necessariamente il sapere ancora poco o nulla. Le responsabilità della “trasmissione culturale” sono sempre a carico di chi riveste il ruolo di intellettuale “del movimento”.
Qui, ahinoi, si ricade ancora una volta in una semplice constatazione. Degli innumerevoli intellettuali di piccolo e medio cabotaggio eredi del ’68, i più svelti a strutturare un “senso comune” pronto per l’uso furono proprio gli “operaisti”. Anche con il “movimento dei movimenti” è accaduto lo stesso. Si potrebbe ironizzare a lungo su questo ceto politico-intellettuale rimesso in circolazione prima del tempo dalla legge sulla “dissociazione” (che segnò un “passaggio di campo” difficilmente compatibile con l’autocertificazione di “antagonismo” o, addirittura, di “comunismo”). Ma non servirebbe a capire perché un movimento trova in certe formulazioni il “senso” oscuro che in qualche modo gli corrisponde.
Il ruolo dell’intellettuale si esplicita nel determinare i concetti, “nominare” i fenomeni, costruire rappresentazioni. I postoperaisti lo fanno con grande gusto per la “narrazione”, senza neppure provare ad azzardare una “spiegazione” del mondo e dei suoi fenomeni. Come si sa, i vincoli interni — logici, consequenziali — della narrazione sono assai meno ferrei. È sempre possibile “correggere”, invertire, modulare pezzi di racconto che ne sostituiscono altri: sceneggiare, insomma. Nella spiegazione — nelle teorie in varia misura scientifiche — questa “libertà di commutare” è praticamente vietata. Ogni nuova “spiegazione” non può essere “ad hoc”, ma presuppone variazioni più o meno grandi nella struttura della teoria, una verifica serrata della sua tenuta.
Nel postoperaismo non c’è spazio per la verifica e tanto meno per la confutazione. Non c’è alcuna teoria, né alcuna pretesa di “previsione”. Ogni “nuovo” viene esaltato nel momento in cui si manifesta e “raccontato” come nucleo del preteso rinnovamento epocale del mondo, delle sue relazioni sociali, delle sue ideologie. “Prima” funzionava in quel modo, “ora” è tutto diverso… Inutile chiedere “perché” un qualsiasi cambiamento avvenga o, necessariamente, altri ne prepari. Quanti hanno voluto imbrancarsi nella nuova moda di “Impero”, potranno testimoniare la loro grande frustrazione nel constatare di essersi fatti “attraversare” da termini “di moda”, come con “attimino” e “quant’altro”. Quello di non dovere spiegazioni a nessuno delle proprie giravolte è ben rappresentato dall’ultima performance di Antonio Negri, il quale, dopo aver stupito gli incolti (in Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, SugarCo, 1992) con la sua capacità di trascorrere a volo d’uccello dalla rivoluzione inglese, a quella francese a quella sovietica, onde ritrovare la “pietra politicale”, l’alchemica procedura della rivoluzione, del potere che si costituisce, del “potere costituente”, ha finalmente trovato l’alternativa nel “potere costituito”, invitando i francesi a votare sì alla costituzione europea.
Qui, probabilmente, sta anche il segreto del successo del negrismo — ridotto in pillole digeribili per menti criticamente ancora non “formate” ma atte a impedirne ogni formazione — e della sua capacità di “corrispondere” ai primi stati di coscienza dei movimenti: il suo aderire formalisticamente alla superficie del reale, al punto da trasformare i concetti in “parabole” e la critica in mero sberleffo. È divertente, insomma, tanto quanto è vuoto; “persuade”, proprio come Harmony, senza aiutare a “capire”.
Impone un lessico che si presta meravigliosamente a dire qualsiasi cosa; meglio se tutto e il suo contrario. Si può essere “autonomi del ’77” o “disobbedienti” del 2000, e usare lo stesso lessico (opportunamente aggiornato: “impero” al posto del desueto “capitale”, le “moltitudini” al posto della “classe”, e via affabulando). Può servire per stendere un volantino di rivendicazione di Prima Linea come per un “progetto” finalizzato a ottenere un finanziamento regionale.
Abbiamo qui dunque una prima indicazione sul perché questa linea di “pensiero al risparmio” corrisponda in qualche modo “oscuro” alla realtà apparente che il movimento — allora come oggi — ritiene di vivere. L’immane complessità del mondo attuale, una volta ridotta a semplice narrazione, sembra diventare “aggredibile” mediante strumenti logico-lessicali usa-e-getta, che hanno un doppio pregio: sono “flessibili” fino all’esasperazione (impossibile trovare un solo oggetto che possa loro corrispondere con chiarezza) e hanno una vita troppo breve per diventare imbarazzanti quando la realtà, immancabilmente, si incarica di dimostrarne l’inconsistenza.

La retorica dell’ossimoro
L’approccio tipico parte dall’esaltazione di un livello di “organizzazione non organizzata” (il “rifiuto della delega” allora e oggi, l’“organizzazione orizzontale”, o “reticolare”, in luogo di quella “verticale” o gerarchica che dir si voglia). Insomma, si parte da un ossimoro, che invece di essere considerato l’approdo terminale della comunicazione, il corto circuito, il black out, viene gioiosamente reperito come un punto di partenza. In questo modo di fare (e di “nominare” i fenomeni) il negrismo risulta ancora una volta davvero in linea con i tempi: non è forse questa l’epoca in cui impazzano gli ossimori sulla bocca dei potenti? Pensiamo a “guerra umanitaria”, all’“esportazione della democrazia con le armi”, ecc.
Fino a “glocale ”, un altro ossimoro usato intensivamente come passepartout per enfatizzare e nobilitare pratiche locali prive di ogni possibilità di incidere sui rapporti globali. Un po’ come trasformare Calderoli in Napoleone Bonaparte, insomma.
È il racconto di un’epifania della spontaneità localistica e immediatistica, di una sorta di “posse” libera di agire senza regola alcuna. Il che impedisce il consolidamento dell’esperienza in “scienza”, della disorganizzazione in organizzazione, del “senso comune” in progetto politico, del “desiderio” in obiettivi, ecc.
Il “senso comune” che in questo modo si diffonde non costruisce assolutamente nulla, serve solo a depotenziare tutte le altre visioni esistenti (“impermeabilizzando” il militante medio dal bisogno di sforzarsi per capire di più e meglio); e infine “vellica” gli istinti più bassi e meno razionali del movimento, quelli certamente autodistruttivi. La svalutazione dell’esperienza accumulata, della “cultura”, accredita alla lunga un “simil-anarchismo” di bassa lega buono per tutte le occasioni della vita quotidiana dei frequentatori del movimento, ma che li espone praticamente (e teoreticamente) “nudi” sul campo di battaglia, di fronte a un “nemico” che nel frattempo sta mobilitando tutti gli strumenti a disposizione (con l’aiuto determinante del Pci nel ’77, facilitato anche dallo schemino che contrapponeva “garantiti” e “non garantiti”; e di buona parte del centrosinistra italiano, oggi)

In un mondo precario, conoscere è necessario
Risultato di tutto questo insieme di fattori è che il movimento — allora e oggi — resta lontano ed estraneo alla “politica” nel senso di comprensione veritiera (realistica) del mondo, visione non effimera, capacità di articolare sul momento il “concretamente possibile” con la “prospettiva di lungo periodo”. Obbligato a restare cieco, fa fatica a riconoscere la “necessità” (i rapporti di forza, i livelli reali di consenso di massa, ecc) e si accontenta di riempirsi la bocca e il cervello con le “infinite possibilità” del sogno. Declinando infine la momentanea “seconda superpotenza” verso l’ennesima “rivoluzione del costume”, da cui trarranno profitto soprattutto sociologi e creativi pubblicitari.
Qui troviamo la seconda indicazione sull’“oscura” corrispondenza tra formulazioni pret-a-porter post-operaiste e bisogni politici embrionali dei movimenti. Ed è esattamente l’estraneità alla politica. Il rifiuto della politica data, della “politica politicante”, è in effetti una caratteristica costante dei movimenti del secondo dopoguerra. Enfatizzare questa estraneità, dunque, è un gioco fin troppo facile. Che però — unito alla pratica dell’imposizione di una leadership in stile “portavoce non responsabili e non revocabili” — produce una prassi devastante: il grosso del movimento resta effettivamente estraneo financo alla comprensione della politica come categoria fondamentale dei rapporti sociali (quindi condannato alla sterilità perenne), mentre il sottilissimo ma inestirpabile ceto politico portavociante, con la complicità dei media, si inserisce a pieno titolo nel gioco della politica comunemente intesa.
C’è da dire, a consolazione del lettore, che questa “nefasta utopia” può esercitare la sua negativa influenza solo in paesi sviluppati, dove ci sia ancora un briciolo di welfare da spezzettare per venire incontro alle ricorrenti “emergenze generazionali”. I contadini indiani del Karnataka, o i Sem Terra brasiliani — solo per citare due delle soggettività non-europee che sostanziano ben altrimenti il “movimento dei movimenti” a livello globale — di tutta questa “fuffa” non sanno giustamente che farsene.
Ma, anche qui da noi, la ruvida carezza dello sfruttamento capitalistico — che va perdendo il tocco vellutato della redistribuzione materna operata dal declinante stato-nazione — imporrebbe di guardare in faccia i problemi, individuare i nessi fondamentali, le “leggi” che governano questo sfruttamento. L’oceano di precariato che sta allagando i rapporti di lavoro e quelli sociali, lungi dal rappresentare la “liberazione” dalla maledizione del lavoro salariato, struttura la subordinazione dell’intera giornata di vita al tempo di lavoro. E non può essere un caso che nel movimento dei lavoratori precari vadano prendendo piede parole d’ordine e obiettivi che pongono nuovamente nella giusta dimensione la questione delle garanzie per i lavoratori.
Una dimostrazione postuma, se si vuole, dell’inconsistenza di ogni lettura del ’77 in chiave di contrapposizione tra “garantiti” e “non garantiti”. Ma anche una dimostrazione molto attuale dell’altissimo valore che la terribile esperienza del movimento del ’77 può avere per i protagonisti dei movimenti in atto.
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* Dei movimenti antagonisti ci siamo occupati anche nelle introduzioni a: Aa. Vv., Il rovescio internazionale. Vademecum per la prossima guerra, 1999; Aa.Vv., Guerra civile globale. Ritornando a Genova, in volo da New York, 2001; Filippo Manganaro, Senza patto né legge. Antagonismo operaio negli Stati uniti, 2003.