di Daniela Bandini

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[Rischia di passare sotto silenzio un romanzo di una bellezza sconvolgente, uscito in sordina alla fine del 2005. Iniziamo a rimediare a un’omissione che è anche nostra con questa prima recensione di Daniela Bandini, ma torneremo certamente a parlare di questo libro destinato, una volta letto, a rimanere a lungo nella memoria, sanguinante come una ferita che non si rimargina.] (V.E.)

Giovanni Polesello, Ti faccio un gioco, Barbera Editore, 2005, pp. 220, € 15,50

Questo romanzo è una cruda poesia. Lettori abituati a splatter, sangue a profusione, squartamenti, violenze di ogni sorta, capiranno che la descrizione di questo tipo di brutalità tocca corde ben più profonde e laceranti del macellaio serial killer con il suo bagaglio di minuziose descrizione compiaciute. E’ un romanzo imperdibile, sia per chi si avvicina per la prima volta al tema della pedofilia, sia per chi, anche nel retroterra più lontano dei ricordi, pensa quindi sa di avere subito un certo tipo di influenze devastanti. .

A Giovanni Polesello il merito grandissimo di avere affrontato queste tematiche con un pudore a oltranza, senza mai lasciarsi tentare dalla facile identificazione tra vittima e carnefice; i confini, difesi spietatamente, sono il punto fermo di questo romanzo. E’ per questo che ho parlato di poesia all’inizio di questa recensione: il salvaguardare l’innocenza e credere ancora nel valore di difenderla, hanno di questi tempi il sapore di una provocazione contro l’egemonia di una cultura dominante. Esercitare violenze su un bambino piccolo, piccolissimo, due anni e mezzo, pensare al turismo sessuale come a un diritto acquisito, capire che il trauma non è un fattore continentale. Questo libro ci porta a giudicare diversamente quei comportamenti che vengono spesso considerati mere valvole di sfogo organiche e liberatorie, una coincidenza paurosa tra il sopruso e la logica di mercato: l’identificazione è certamente la parola che più latita in questi anni.
Ma veniamo al romanzo. Il punto di partenza è l’osservazione: c’è chi, incapace per timidezza o altro di partecipare all’esistente, si rifugia nella contemplazione attiva della vita altrui. E’ il caso di Oreste, forse il personaggio migliore del romanzo, sicuramente il più complesso e il più impegnativo, che passa la sua esistenza a cercare negli spiragli di vita degli altri l’aggancio a una sorta di normalità. Egli passa ore a curiosare nelle finestre di fronte a lui, sino a cercare nei ritmi che non gli appartengono una cadenza rassicurante fatta di orari, di preparativi, di pulizie domestiche, di piccole manie personali. E così si affeziona a una famiglia composta da una madre e da un bambino piccolo, dei quali conosce le abitudini e verso i quali si sente responsabile.
Oreste fa un lavoro che gli permette di agire sul tempo alterandone i ritmi quando vuole, un orso timido e scostante considerato eccentrico ma innocuo. Nella vita cadenzata e tutto sommato metodica della famiglia che gli è cara giunge un giorno una figura maschile che destabilizza la sua consuetudine. Arriva il mostro. Arriva un mostro attento e disponibile alla esigenze di una madre e di un bambino, premuroso fino all’eccesso, consolante. Quella persona che, per una madre separata, sembra piovuta dal cielo, capace sia di amare lei che, soprattutto, suo figlio.
La madre non si abbandonerà mai completamente, più per carattere che per circostanza, alle lusinghe di quest’uomo. E’ una persona intelligente e ama difendere i propri spazi, e poi ci sono cose che non quadrano, forse sono eccessive. Eccessivo il legame che unisce l’uomo alla figlia, eccessivo anche l’annullamento verso questa nuova famiglia, eccessiva la dicotomia tra disponibilità e severità, tra intransigenza e liberalità. La figura inquietantissima della figlia, che gioca con le bambole coprendole di colore rosso sangue e calpestandole, insultandone la sessualità, è raccapriccinate, ma il lettore non lo scoprirà per deduzione. Anch’essa è ormai un mostro undicenne, che sa nascondere tutto quello che le è stato tolto, contando sulla prossima vittima da prevaricare per riscattarsi anch’essa. Tutti tacciono, tutti recitano la parte della famigliola felice, o ci provano, per poi venire allo scoperto appena credono di poter allentare la morsa della prudenza. Un gesto, terribile: la masturbazione di un bambino di due anni e mezzo nella vasca durante il bagnetto, chiedersi dove mai l’avrà imparato, le mezze parole, quell’uomo che gli ha fatto la pipì in faccia, vedere il proprio bimbo succhiare palloncini gonfiabili come gli ha insegnato lui ma sul proprio membro, il tutto mentre tu come madre hai permesso che ciò accadesse e non sai se uccidere lui, uccidere te stessa o uccidere il bambino, perché tanto niente sarà più come prima. E finalmente tutto quadra, quelle cose che proprio non andavano giù e che ora si spiegano, l’accenno del mostro all’educazione al dolore, al fatto che portasse la figlia negli spogliatoi dopo le partite di tennis, il fatto che dormissero insieme, e poi quella conchiglia appuntita conficcata per sbaglio nel corpo di lei durante un soggiorno in Spagna in tenda, ma destinata a suo figlio: per educarlo al dolore. Ecco spiegato quell’urlo lacerante nella notte, di ogni notte, che la svegliava e la spingeva a chiedersi perché piangesse a quel modo, perché così all’improvviso. Perché il sonno dolcissimo di un bambino di due anni e mezzo si fosse interrotto con un grido.
Oreste in tutto questo, lui che ha subito violenze analoghe, prova impotenza e disperazione. Sa che la denuncia probabilmente non servirà a niente, ma sa anche che tacere sarebbe la fine del bambino. Non basta sapere e allontanarsene, bisogna parlarne, bisogna far capire che i grandi che fanno certe cose ai bambini vanno puniti. Non andrà così, come era logico aspettarsi. Sicuramente il fatto che Polesello sia un insegnante contribuisce al quadro lucidissimo e spietato di una metodica analitica superficiale e arrogante, fatta propria da parte di un corpo scolastico burocratizzato e incompetente, ma anche di una magistratura gonfia di tutte quelle avvilenti procedure nelle quali inevitabilmente la vittima diventa il colpevole. Ma senza un colpevole, la prossima vittima diventerebbe sicuramente un carnefice a sua volta, e allora Angelo – un nome non certo casuale, il nome del bambino – potrà finalmente odiare ed essere un uomo libero domani.