di Lucio Angelini
[I ricordi di Andersen non sono inventati da L.A., ma tratti di peso dalla sua stessa autobografia. Qui tutte le puntate di questo romanzo on line]

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“Uno dei miei primi ricordi, in sé trascurabile, ma che si impresse con grande forza nella mia fantasia di bambino, fu una festa familiare tenuta… indovina dove!”
“Dove?”
“Nella prigione di Odense, proprio l’edificio cittadino a cui guardavo con il massimo orrore, lo stesso, immagino, con cui i ragazzi di Parigi dovevano guardare alla Bastiglia. Per me era come il covo dei malfattori nelle storie dei banditi e masnadieri: spesso mi ero fermato a contemplarla, benché da distante, e ad ascoltare i canti dei detenuti e delle detenute intente a filare all’arcolaio. I miei genitori conoscevano il guardaportone, che li aveva invitati a una festa di famiglia, e io dovetti accompagnarli.”
“Che età avevi?”
“Ero molto piccolo, tanto che, finita la festa, mi riportarono a casa in braccio.”
“E come andò?”

“La grande porta ferrata venne aperta e richiusa con le chiavi di un grosso mazzo tintinnante, dopodiché salimmo per una ripida scala. I grandi mangiarono e bevvero, con due detenuti che servivano a tavola, ma nonostante ogni insistenza io non toccai nulla, scansando anche le cose piú dolci. La mamma disse che mi sentivo poco bene e cosí venni adagiato su un letto, ma udivo l’arcolaio ronzare poco lontano, accompagnato da allegre canzoni. Non saprei dire se ciò fosse fantasia o realtà. So solo che provavo un’angoscia sottile, non disgiunta da una sensazione piacevole, quasi fossi penetrato nel castello delle storie dei masnadieri. Tornammo a casa a tarda ora. Ricordo che il tempo era brutto e che la pioggia mi sferzava il viso.”
“Com’era Odense a quei tempi?”
“Una cittadina piuttosto arretrata, con abitudini e costumanze già scomparse da un secolo nella capitale. Quando le corporazioni mutavano sede, si recavano in processione con le bandiere al vento e le spade adorne di limoni e nastri di seta. Davanti a loro, fra mille lazzi, correva un arlecchino tintinnante di campanelli e munito di spada di legno: uno di questi personaggi era un certo Hans Struth, un vecchio che aveva avuto molto successo con la sua gaia parlantina. Girava con il volto dipinto di nero, salvo il naso, sul quale splendeva un genuino rosso naturale. Mia madre ne era rimasta incantata, tanto che cercò di scoprire se per caso non fosse nostro parente, ma io respinsi con aristocratico sdegno l’idea che potesse esserlo.”
“Per via di tuo nonno, suppongo.”
“Appunto. Il lunedí grasso i macellai conducevano per le strade un bue ben pasciuto, ornato di ghirlande floreali e cavalcato da un fanciullo in camicia bianca e con delle ali sulle spalle. Nello stesso tempo i marinai percorrevano le strade con musica e bandiere. Alla fine di tutto, i due piú spavaldi si sfidavano a lotta su un asse teso tra due barche. Quello che riusciva a non cadere in acqua era il vincitore.”
“Avevi tanti amici a Odense, da piccolo?”
“Con gli altri ragazzi mi trovavo di rado. A scuola non prendevo quasi mai parte ai loro giochi e il piú delle volte restavo in aula. A casa mi bastavano i giocattoli fabbricati da mio padre. Avevo pupazzi che si trasformavano tirando un filo, e un mulino in cui, quando era in movimento, si vedeva il mugnaio ballonzolare intorno. Avevo anche il gioco della prospettiva e altre cianfrusaglie curiose. Provavo un gran piacere a costruirmi delle marionette, proprio come fai anche tu, o a sedere nel cortile sotto l’unico cespuglio di ribes. Ricordo che, spesso, tendevo il grembiule di mia madre tra il muro e due bastoni, e quella diventava la mia tenda, di dove mi divertivo a sbirciare tra le foglie illuminate dal sole. Ne seguivo la crescita da piccoli germogli verdi fino a grosse foglie gialle che si staccavano. Ero talmente portato a fantasticare che, spesso, giravo a occhi socchiusi. A un certo punto i miei genitori finirono per credere che avessi qualche difetto alla vista, ma io sapevo che, invece, era perfetta.”

IV

“Posso leggerti una fiaba?”, gli chiesi un giorno.
“Certo!”, mi incoraggiò Hans Christian. “Come si intitola?”
Il bel bambinoccolo.”
“Mi prendi in giro?”
“No, si intitola davvero cosí. Naturalmente il titolo fa un po’ il verso al tuo Il Brutto Anatroccolo… mi prometti di non arrabbiarti?”
“Prometto.”
Mi schiarii la voce e iniziai.

…Chi non ha conosciuto la solitudine, da giovane? Per Cigno fu tremendo. Pensate che era ridotto a parlare con gli oggetti. Salutava la tazza, parlava col tetraedro del latte o con i prodotti Kelloggs. Se guardava il bidone della spazzatura, gli veniva fatto di chiedere mentalmente: “Rifiuti, amici, non è vero che la bellezza esiste?Lo neghereste?”. Aveva il pallino della bellezza, non faceva che tirarsi a lucido, massaggiarsi i capelli, incorniciarsi il collo con foulard color cobalto, selezionare allo specchio le espressioni piú accattivanti… “Cara giacca di renna”, le diceva, “ti spazzolerò. Ci spazzoleremo, vuoi? E tu, lampadina del lampadario, fulminarti cosí!”
Gli battevano le tempie. Era incredibilmente solo. Non aveva un amico. Questa era la verità. Comunicare con gli altri lo spaventava. Con le cose era piú facile, perché erano discrete, non giudicavano. Se ne stavano lí dov’erano, appagate dall’essere ciò che erano.
“Se tu mi facessi meno male, brutta pellicina vicino all’unghia!”
Perdeva tempo a rimproverare la scatola del frumento soffiato. Metteva una cialda di carboyogurth in una tazza d’acqua e, passando davanti allo specchio, ne approfittava per lanciarsi una strizzatina l’occhio. A volte, quasi obbedendo a suoi comandi mentali, ante di armadio si aprivano da sole.
“Mi servirebbe un cotton-fioc”, decideva all’improvviso. E cosí aveva una scusa per uscire. Sceglieva un negozio lontanissimo e, facendosi coraggio, chiedeva: “Scusi, lei vende bastoncini per pulire le orecchie?”.
Si svegliava nel cuore della notte e afferrava al buio i biscotti sul comodino. Quando accendeva la luce, la bocca era serrata dietro l’ultimo di essi. La stanza gli appariva finta, sorpresa come in sua assenza. Il giornale era a terra, con sopra una babbuccia nera. Zia Viscarda, dalla stanza attigua, lanciava rantoli spaventosi. “Domattina”, decideva, “metterò di sicuro la camicia a righe.” Si sedeva al centro della stanza. “Sí, con i capelli lavati si è sempre piú carini”, concludeva di fronte allo specchio. Spesso sentiva la testa vorticargli. Correva nudo fino alla doccia, in fondo al corridoio. “Okay, acqua calda, schiaffeggiami un po’. E soprattutto non diventare fredda prima che abbia finito di sciacquarmi.”
Lavava le calze e le metteva ad asciugare sul termosifone. Se si affacciava, anche in piena estate, vedeva solo un cielo bigio, in cui oscillava un campanile bigio, al di sopra di bigi tetti di case. Ore d’aria. “Impazzirò. Sento che impazzirò. No, no, devo spendermi meglio”, si suggeriva,“fisicamente e spiritualmente!” Masticava un panino sul letto. Le tendine erano bianche, ma cominciò a vedervi chiazze gialle. Lucidava gli stivaletti fino a farli quasi brillare di luce propria.
La porta era chiusa. Doppio giro di chiave. Nessuno avrebbe potuto sorprenderlo in lacrime. Nessuno l’avrebbe visto. Tutto sarebbe rimasto, per sempre, fra lui e lui. “Muro, muro, tu che sei dipinto di rosa, beato te. Accidenti. Credi che io sia sciatto, misero, pavido? E tu? (Follia, parlo col muro!)”
“Esiste un serio rischio di… impazzire? Uffa… sí! Certo che sí. Ma qui come ovunque, per me come per chiunque.”
D’accordo, non era a Persepoli, né a Samarcanda, ma in fondo, che gliene importava?
Afferrava le forbici e si sistemava le unghie dei piedi.
Roselline?
Altro che roselline!
“Mi comprerò un uccello”, decise un giorno. “E lo sveglierò di soprassalto all’una di notte, scuotendolo per la gabbia. Accenderò la luce, mi mostrerò a lui sul letto, irritato nei capelli e nel volto. ‘Ti piaccio?’ gli chiederò. ‘Ti piaccio dunque? Non vedi che sono solo? Perché dormi stupidamente?”
Sarebbe stata una scena pazzesca. E se zia Viscarda vi avesse assistito, allora sí!
In certe giornate, lo si vedeva circolare per i viali con le orecchie infaticabilmente ritte. Al ritorno, scaraventava la camicia nel lavandino, furioso perché nessuno l’aveva fermato per dirgli che era bello, che voleva conoscerlo e fare amicizia con lui. La teneva in ammollo per ore, col detersivo, poi, prima di avvoltolarsi nel letto, la appendeva al termosifone. Ma per gli stivali nessuna pietà. Tutta la notte sparsi a terra, senza un solo colpo di spazzola.

Aveva ammonticchiato i prodotti Kelloggs sull’armadio, poi li aveva colpiti con l’ombrello. Zia Wisky, dalla stanza accanto, lanciava versacci spaventosi. “Le mie orecchie sono puro trifoglio, puro trifoglio”, si sussurrava, dandosi dei ganascini sulle guance. “Povero Cigno, mio piccolo Cigno! Dovrei comperarmi un foulard color olio e farmi i capelli a ruote altissime, che mi raddoppino in altezza. Cosí, finalmente, qualcuno si accorgerebbe di me.”
Zia Viscarda apparve con un gattino fra le braccia.
“Ha la tosse, povero tesoro”, si lamentò. “Che si può fare?”
Aveva la stanza piena di gatti finti, quasi tutti gonfiabili. L’unico gatto vero aveva ormai la tosse. Brutti tempi. Brividi lungo la schiena. Aveva bisogno di una vacanza. Ma come chiederlo a zia Viscarda? Lei, tendendo il collo affinché non precipitassero i lineamenti, lo squadrò torvamente.

Andava a piedi fino alla stazione, col profilo purissimo luccicante fra le luci al neon. Poi tornava a casa, fra le sue piccole cianfrusaglie, a scandire brevi, disperati gesti. Il pigiama era ormai rotto davanti, e il coso gli penzolava tristemente fuori. Tagliava delle brioscine per spalmarle di cioccolata. “Care vettovaglie, con molto dolore ora debbo mangiarvi”, diceva loro, prima di congedarle davanti all’orifizio boccale. “Ma che cosa mi metterò domattina? Devo fare in modo che sembri io abbia un guardaroba sterminato.” (In realtà si trattava di combinare ogni volta diversamente i non molti capi fra loro). Accendeva la radio a volume bassissimo. Pensava alle briciole sul tavolo.

“Questo è zio Oliva”, disse un giorno Viscarda, stranamente gioiosa. E si ritirò con lui rapidamente nella sua stanza.
A Cigno venne in mente di scappare, per fare il giro del mondo. Zainetto a tracolla, denti spazzolati, profumo di gelsomini nelle tasche… ma rimandava continuamente la partenza. Cominciò a sovvertire gli orari, dormendo di giorno e vegliando la notte. E a spostare gli oggetti dal loro alveo abituale, creando mostruosette combinazioni.
Del tempo cominciò a non avere piú cognizione. “Che ore saranno?”, si chiedeva sgomento, di tanto in tanto. Cosí inghiottiva, a seconda delle volte, un piccolo salame, un insetto, una tazza d’acqua. Non aveva piú umori, né cattivi, né buoni. Meno che mai buoni. Agguantava alla cieca una pasticca d’orzo sul comodino, le usava violenza con la lingua. “Pasticca”, le diceva con voce ferma, “compagna della mia notte, sto per succhiarti, ma ti amo. Sia chiaro che ti amo. Forse è per questo che ti succhierò.”
Dal cortile giungeva il passo di zio Oliva, ormai installato definitivamente in casa loro. Tornava ubriaco e zigzagante dall’osteria.
Il mondo taceva. L’infanzia era lontana, non poteva essere quella.
Poiché tutti disdegnavano il suo amore, si faceva avanti, pieno di formicolii, l’ amore smisurato per se stesso.

Era un bellissimo gelato. L’aveva chiesto per favore. “Datemi un bellissimo gelato. Dai bei colori.”
Il barista, che lo spiava, se ne andò.
“Sono definitivamente pazzo.”
Ma finse di non preoccuparsene e lasciò che tutto si svolgesse.
Si era recato in spiaggia, sovrappensiero.
Lo leccarono leggermente, lui e la luna.
Lei era tutta abbronzata e si cullava appena sulle spume, rotolava indietro e tornava a leccare con lui quel meraviglioso gelato.
Era buono. Oh, lo sapeva che era buono e la pregò di restare.
“Resta”, le disse, “vedi che sono solo?”
Ma lei non capiva. Capiva solo che non era il suo posto, quello. Aveva fretta di tornare e stava quasi già volandosene via, quando disse semplicemente:
“È buono, il tuo gelato”.
“Prendilo tutto, allora. Io ne ho mangiato abbastanza.”
Lei non poteva piú restare. In alto era tutto nero e la chiamavano.
“Se ti copro”, disse, “non ti vedranno.”
Ma non serviva buttarle sopra la sabbia, perché la sabbia si inargentava, ed era tutta un chiarore.
Cosí rimase, ancora una volta, solo.
Non aveva nemmeno piú il suo bellissimo gelato.
“Che faccio?”, si chiese. E pianse un poco.
“Addio”, si diceva. “Addio, mio piccolo Cigno, pazzo bambino maturo. Io solo ti ho voluto bene, io solo ti ho capito! Addio, addio.”
Sentiva di stare invecchiando rapidamente.
“Addio, bellezza.”
Si pizzicò le guance. Si asciugò delicatamente le lacrime con la mano.
Fu un chiudersi e un aprirsi di finestre e anni, e volti, e pensieri sempre piú vasti. Camminò tutta la notte, ubriaco piú di zio Oliva.
Una palla rossa sorgeva laggiú, tra cielo e mare.
“È una cosa viva”, pensò. “Sono certo! È una cosa viva.”
Galleggiava, perché era viva. E aumentava leggermente, come un ricordo.
Ma lui affondava.
“Affondo”, disse. “Sono certo che affondo.”
E il mare si richiuse, stringendolo nella sua mano fresca.

“Non è una vera fiaba”, osservò Hans Christian, dopo qualche secondo di imbarazzo, “ma non mi dispiace. Sai bene che non sono un patito del ‘lieto fine’.”
“Sí, conosco ‘La piccola fiammiferaia’.”
“Io stesso ho provato piú volte la tentazione di farla finita e lasciarmi morire. Ma mi sono sempre fatto forza e ogni volta ho ripreso a guardare con fiducia al futuro.”
“Nella speranza che il brutto anatroccolo finisse per trasformarsi in uno splendido cigno, vero?”
“Certo. Ricordi? ‘In fondo era contento d’aver patito tante miserie e avversità, perché adesso poteva meglio apprezzare la felicità e la bellezza che lo salutavano. I grandi cigni gli nuotavano intorno e l’accarezzavano col becco.’
“Ah, se l’esistenza di tutti gli uomini seguisse davvero questo schema!”
“Per me fu cosí. Dopo tante sofferenze la vita mi si dispiegò davanti in tutta la sua bellezza consolatrice. Compresi che anche dal male può venire il bene, e dai dolori la gioia. Per quante ingiustizie avessi creduto di subire, ogni duro colpo finí per rivelarsi benefico… Ma a proposito di luna, voglio leggerti anch’io un testo, in parte autobiografico, che la riguarda.”
Usò la parola “leggerti”, in realtà non apparve nessun libro, ma udii comunque:

Sono un povero giovane, abito in una delle strade più anguste, ma la luce non mi manca perché abito molto in alto, con la vista sui tetti. I primi giorni dopo il mio arrivo qui in città mi sentivo chiuso e solo: invece del bosco e delle verdi colline avevo ora come orizzonte solo i comignoli grigi. Qui non avevo nemmeno un amico, nemmeno un volto conosciuto mi salutava. Una sera me ne stavo piuttosto triste davanti alla finestra, la aprii e guardai fuori. Ah, quanto fui contento! Vidi un volto che conoscevo, un volto tondo e amichevole, la mia migliore amica di quando era a casa: era la luna, la cara vecchia luna, la stessa, immutata, proprio con l’aspetto che aveva quando mi sbirciava fra i salici sulla palude. Le lanciai un bacio sulle dita e lei illuminò la mia stanza e promise che ogni sera, quando era fuori, sarebbe venuta un po’ a trovarmi; e da allora lo ha fatto, onestamente, peccato che possa rimanere così poco. Ogni volta che viene mi racconta qualcosa che ha visto la notte precedente, o quella sera stessa. ‘Dipingi ciò che ti racconto’ disse alla sua prima visita, ‘e avrai un bel libro illustrato’. E io ormai lo faccio da molte sere. A modo mio potrei creare un nuovo ‘Le mille e una notte’ illustrato, ma certo sarebbero troppe; quelle che raccolgo qui non sono scelte, vengono come le ho ascoltate. Un grande pittore geniale, un poeta o un musicista, possono tirarne fuori qualcosa di più, se vogliono: ciò che mostro io sono solo contorni sparsi sulla carta, e di tanto in tanto i miei pensieri, perché la luna non veniva ogni sera, spesso capitava in mezzo una nuvola o due.”

Tacque.
“Carino, ma finisce così?”
“No, è solo la premessa a una serie di raccontini — quelli della luna, appunto — divisi per ‘sere’ e usciti poco prima di Natale nel 1839 sotto il titolo ‘Libro illustrato senza illustrazioni’.”
“Libro illustrato senza illustrazioni… che buffo!”
“Già, per una volta desiderai esplicitamente che il libro restasse senza figure.”

[Lucio Angelini, uno dei migliori autori italiani per ragazzi, ha pubblicato per EL, Emme, Panini Ragazzi, Il Capitello, Loescher, Flammarion-Castor Poche eccetera]