di Beppe Sebaste
(da L’Unità, 21 settembre 2005)

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Mi è capitato di vedere persone, giovani e meno giovani, in Francia e in Italia, beatamente immersi nei libri di Fred Vargas. Io stesso, dopo il primo che ho letto, non ho potuto fare a meno di cercarli tutti (e sono tanti). L’ultimo – Sotto i venti di Nettuno – un anno fa lo divorai letteralmente mettendo a repentaglio la consegna di un libro che dovevo finire io. Il fatto è che i romanzi di Fred Vargas danno felicità, quel dono di una vita parallela e in qualche modo preferibile che la buona letteratura offre. Alla presunta evasione del genere poliziesco – che lei, controcorrente, riconduce alla formula del giallo a enigma, amplificato a mito – unisce bravura narrativa e dialoghi che incantano per verità e humour.

Fred Vargas è una donna, e il cognome è uno pseudonimo condiviso con la sorella gemella, che è pittrice. Di professione è archeologa, anzi, archeozoologa, specializzata nello studio degli animali di età medievale. Parlare con lei di letteratura è molto piacevole: è una miniera di idee, che spaziano dalla storia alla psicoanalisi, dalla mitologia greca alla biologia. La sua andatura intellettuale ha qualcosa della magia disinvolta del suo personaggio più celebre, il commissario Adamsberg, sorta di Lancillotto contemporaneo, lunare e assorto; dotato, come ogni personaggio epico che si rispetti, del suo secondo, il biondo e grosso ispettore Danglard, via di mezzo tra Watson, Pippo (ma molto colto) e un generoso Sancho Panza.
Offro la descrizione che, dei due, fornisce un clochard in un racconto (inedito in Italia) di Fred Vargas: «Il tuo collega biondo – dice il clochard a Adamsberg – è un rompipalle ma mi piace, e poi è generoso. Si fa domande senza sosta, si inquieta, e fa un rumore di onde. Tu, invece, fai il rumore del vento. Si vede dal tuo modo di camminare, segui il tuo respiro. Il tuo amico biondo vede una pozzanghera, si ferma, esamina lo cosa e ci passa di lato, insomma prepara bene il suo daffare. Tu, la pozzanghera, nemmeno la vedi, ma ci passi di fianco senza saperlo, a intuito. Capisci? Sei come un mago…» Adamsberg è uno «sbadilatore di nuvole» – come è definito nell’ultimo romanzo. È un caso che che questa stessa formula esista nel più antico repertorio rituale del buddhismo zen? Nel linguaggio – e Vargas è esperta di archetipi linguistici e narrativi – nulla è mai per caso. Comunque sia, la sete di giustizia, la mania della verità di cui Adamsberg è portatore, non sono estranee alla sua autrice.
Per oltre un anno Fred Vargas ha preso un’aspettativa dal lavoro per seguire una vicenda politica e giudiziaria da cui si è sentita coinvolta, e a cui si è dedicata: l’estradizione di Cesare Battisti, già condannato per una serie di delitti che secondo i giudici italiani avrebbe commesso negli anni Settanta, rifugiatosi in Francia dall’epoca Mitterrand e attualmente latitante. La vicenda è nota alle cronache, e ha registrato una singolare divergenza tra la mobilitazione civile di intellettuali e politici di sinistra in Francia, e il coro quasi unanime di condanna che nei confronti di Battisti è stato intonato in Italia. A un certo punto in Italia è addirittura parso che il fatto che Cesare Battisti scrivesse dei gialli (una delle sue attività di esule) lo rendesse ancora più esecrabile. «Li ho letti tardi – mi dice Fred Vargas – dopo che mi sono occupato della sua vicenda. E penso che siano dei libri bellissimi, che hanno poco a che fare col giallo o col noir. Cesare Battisti è uno scrittore vero. Quanto al giallo, che in francese, con desinenza peggiorativa, si dice polar (come connard), da sempre è trattato con sufficienza, con tonnellate di pregiudizi. Come se la la tradizione della letteratura dovesse essere per forza noiosa (e infatti Dumas non è mai entrato nei programmi scolastici), e si dovesse evacuare tutto ciò che sa di evasione, di distrazione».

Ma, insiste Fred Vargas, «Cesare Battisti – pochi lo dicono – si proclama innocente di delitti commessi quasi trent’anni fa, e i suoi sostenitori francesi invocano la legislazione del loro paese che impedisce l’estradizione per i condannati in contumacia». A questa vicenda Fred Vargas ha dedicato un pamphlet, a cui rimandiamo i lettori. «Un quasi scoop legale – mi dice Fred Vargas – sarebbe la dimostrazione che alcune presunte lettere del 1981 e 1982 a firma di Cesare Battisti, e che dimostrerebbero la conoscenza dei processi a suo carico – unico argomento contro la contumacia – si sarebbero rivelate false e apocrife». Lei è tra coloro che hanno depositato una memoria difensiva sul caso Battisti presso la Corte europea, e ha speso le sue competenze e la sua passione di scrittrice, studiosa, archeologa ed esperta grafologa, per mostrare, quanto meno, l’illegalità di un’estradizione. E questo non possiamo ignorarlo anche parlando dei suoi libri. «Non ce l’ho con l’Italia – dice – ma con la Francia, che nega la propria civiltà giuridica. Lotto perché le leggi francesi siano rispettate, perché non si arresti un innocente, e quanto meno si ascolti chi si dice innocente, e non lo si condanni in contumacia».
Torniamo al romanzo poliziesco, che sembra oscillare tra i pregiudizi della letteratura «noiosa», come dici tu, e la retorica editoriale del romanzo noir. Qual è la tua idea?
«Penso che la letteratura gialla, o poliziesca, sia un genere che non deve essere negletto né dimenticato. La mia idea è che si tratti di un genere arcaico, che tocca la letteratura epica dell’antichità e cose come il concetto greco di “catarsi”, e l’angoscia vitale della mitologia – il Minotauro, il labirinto, ma anche il Drago, la quiete medievale dei cavalieri senza paura, tutto un universo di storie in cui conta la scoperta, la risoluzione finale, dove si uccide mostro e si salva la fanciulla, oppure si trova il tesoro, cioè la conoscenza. Conoscenza che è soprattutto scoperta e cognizione del pericolo, ciò che permette di continuare a vivere, vivere in modo nuovo, rinnovato. Anche la storia della pittura funziona così, in un attraversamento dell’angoscia verso forme di vita nuova. Oggi si dice che il giallo – o il, noir, appunto – è il nuovo romanzo sociale, testimonianza o riflesso della società. Il pregiudizio oggi è questo. Ma se la letteratura è da sempre testimonianza della società – insieme agli archivi, ai documenti, ai giornali ecc. – essa è soprattutto simbolica, cioè è molto più complessa. Così come non si può riassumere la complessità di Orfeo ed Euridice nel suo riassunto, non si può ridurre la complessità sinbolica del romanzo poliziesco e dei suoi archetipi. Io scrivo dei romanzi a enigma, nei quali non è possibile imbrogliare, e questo è importante».
Eppure il fascino dei tuoi romanzi è anche nei personaggi, come i tre giovani storici disoccupati che, inventandosi la vita in epoca di lavoro precario, diventano anche detective. C’è nelle tue storie una verità in presa diretta dei nuovi soggetti marginali che pochi autori sanno offrire.
«Sì, anche se il romanzo poliziesco è una mitologia, io devo raccontare il contemporaneo. Anche l ‘Odissea era contemporanea per i suoi lettori. Quindi, anche se simbolica, riflette la nostra società. I miei personaggi sono gli umili, io li chiamo i trasparenti, alle prese con i nostri stessi problemi, col desiderio di giustizia, con i nostri idealismi contemporanei. Sono dei marginali, ma non dei perdenti, sanno cavarsela e districarsi. Nei miei libri non si vede che sono politicizzata, preferisco mostrare l’umanità e la disumanizzazione che incombe, questa è la mia prima preoccupazione. Credo in un’umanità singolare, senza semplificare, dove ognuno, anche un clochard, ha una grande ricchezza di estrinsecazioni».
Torniamo al giallo come racconto di conoscenza. Penso a Allan Poe, che ha inaugurato in epoca contemporanea un tipo di racconto dove l’eroe è qualcuno costretto a interpretare, sia che finisca male (come nel «Gatto nero», o bene, come nello «Scarabeo d’oro»…
«Il giallo partecipa di un sistema narrativo mitico, nel cui schema c’è la quête (ricerca) e l’enigma, cioè l’identificazione del pericolo. L’enigma è necessario, anche senza fare un giallo classico: enigma su qualcuno o su qualcosa, per esempio l’identificazione del movente (se sappiamo già chi è l’assassino), in tutti i casi per costruire una ricerca di conoscenza. Dove magari si tratta di scoprire la tirannia o l’ingiustizia, svelare gli eccessi del potere, eccetera. In questa ricerca, o avventura, ci possono essere varie tappe, come nella storia di Ulisse, oppure un solo dramma. Le forme possono essere diverse, come nella varietà di leggende, miti, religioni. Anche in Cappuccetto rosso c’è l’identiticazione del pericolo, e come ricordavi tu a proposito di Poe, la quête della conoscenza esiste sia che la soluzione sia buona o cattiva. Può anche non essere rassicurante, come in certi noir. Ma pensa a Edipo! In genere il personaggio lascia la situazione ordinaria per un certo tempo, lascia la propria dimora, e come nelle favole della ragazza cui alla fine escono dei gioielli dalla bocca, trova le pietre preziose, cioè la saggezza. Trova insomma un sapere superiore. Ecco quindi che anche se finisse male – e nei miei romanzi non è mai l’apoteosi, non finisce mai davvero bene in senso banale – al lettore rimane comunque questo, l’iniziazione a un sapere superiore, come nei miti greci. Anche un finale triste può dare un insegnamento. Ecco cos’hanno in comune un romanzo noir e un mito greco: la catarsi. Anche se fare storie tragiche è più facile, per me è molto importante riportare il lettore a casa sano e salvo. Nonostante via sia sempre alla fine della storia un po’ di tristezza e di insoddisfazione».
Conoscenza e consolazione…
«La vita è già molto dura, e il dolore è tanto. E poi si sa, è più difficile scrivere “ti amo” che “non ti amo”, per lo scrittore è un inferno. Il negativo risulta sempre più facile del positivo, per questo mi ci accanisco. Tenendo ferme le regole del gioco della leggenda».
Parlami ancora di Adamsberg, lo «spalatore di nuvole». Davvero non sapevi che negli antichi testi cinesi è une definizione dell’illuminato?
«È un espressione del Quebec, in Canada (dove è ambientato Sotto i venti di Nettuno, ndr), dove il francese continua a vivere. Dice qualcosa di inutile come lo scrivere, perché le nuvole sono i sogni. È naturalmente una critica del funzionalismo, della tecnocrazia, in nome dell’inconscio. In nome soprattutto di quella sintesi delle due parti del cervello di cui gli eroi, a partire da quelli greci, fanno uso. Razionalità e intuizione insieme, ovvero la circonscience, qualcosa di più ampio della sola coscienza. È il proprio dell’eroe classico e mitologico, se ci pensi, il cui carattere semidivino si accompagnava ad un’imperfezione fisica, oltre alla solitudine (anche sessuale) e alcune ossessioni: segni di una condizione a metà tra l’umano e la nuvola. La circonscience è necessaria per risolvere a buon fine una quête. Ah, vedi com’ è complicato il romanzo poliziesco! E chissà se anche Agatha Christie, che ha chiamnato Ercole (Hercules) il suo ispettore Poirot, e in un romanzo ne presenta il fratello, che si chiama Achille, fosse consapevole del suo rapporto del giallo con i miti, o si fosse solo divertita inconsciamente…».