di Giuseppe Genna

houellebecq_a.jpgComprendo, ma non condivido, le ragioni che conducono Mario Andrea Rigoni a leggere l’ultimo romanzo di Michel Houellebecq come fosse un fumetto male riuscito. Ha ragione Rigoni: è un libro assai sghembo, strabico, che procede attraverso digressioni peggiorative di un tema già pessimo qual è la metafisica nell’epoca di massa. Sembra davvero una parodia heideggeriana male riuscita, un patetico sketch comico sul nichilismo, una specie di avanspettacolo interpretato da un adepto della Fallaci. houelleisola.jpgSembra anche un saggio svogliatamente ridotto a romanzo d’occasione. Sembra una narrazione a chiave, laddove questa è il passepartout per le camere di un albergo, oltre le cui porte al massimo possiamo scrutare i piccoli segreti meschinelli delle coppie clandestine o i bidet dei singoli occupanti. Sembra un florilegio di haiku scritti da un Oreglio o uno Iacchetti d’Oltralpe. Sembra una fantascienza fatta da chi non la sa fare. Sembra un dépliant lungo trecento pagine e da leggersi prima di un volo in aeroporto.
Sembra.
Per me La possibilità di un’isola è, insieme a Estensione del dominio della lotta, il migliore tra gli oggetti narrativi di Houellebecq, un libro che dischiude un futuro immenso per la narrativa europea, uno sguardo cristallino su ciò che sta per succedere e già sta succedendo – non tanto politicamente, quanto letterariamente – nel tempo che viviamo noi.

Chi desideri informarsi circa la trama, lo può fare qui. In questo intervento dò per scontati gli elementi narrativi di superficie e l’allucinante miserevole prosaicità del plot che sostiene La possibilità di un’isola. Desidero qui evidenziare alcuni nuclei che interessano me: idiosincraticamente, senza pretendere ecumenismi di giudizio.
Il primo elemento che mi interessa del libro di Houellebecq è la fantascienza. Con uno stratagemma antico quanto la letteratura (si deve risalire ai primordi dell’epica per constatare l’incipit furioso di un simile apparato retorico, che sviluppa una modalità tipica di qualunque Scrittura Sacra), Houellebecq impernia la narrazione su una narrazione: è il trucco del manoscritto ritrovato. Le radici di un simile sguardo ex-post, che permette uno slittamento multiplo di tempi interni al testo, sono consapevolmente utilizzate da Houellebecq nel richiamo che egli compie attraverso gli indici dei capitoli, che sembrano paragrafi biblici, tutti riferiti alla voce DANIEL, da DANIEL1,1 fino a DANIEL25,17: una serie la cui coerenza viene ribaltata dalle pagine finali, che si sviluppano sotto il segno dell’anonimo EPILOGO, privo di qualunque dicitura, quasi che quell’appendice non rientrasse nel corpus del racconto di vita (come viene tecnicamente definito) di Daniel e dei suoi cloni futuri. Alla fine c’è uno zero del nome, e nonostante ciò si parla.
Che tipo di fantascienza è questa? E’ soprattutto una messa in questione dell’apparato fondamentale della retorica SF: l’ucronia. Un’ucronia ex-post è un’ucronia già stanca in partenza. L’ucronia di Ubik, uno dei capolavori di P.K. Dick, è in atto: si sviluppa sotto i nostri occhi, tanto da causare un colpo di scena finale. L’ucronia di Houellebecq è già data tutta dall’inizio e non causa un colpo di scena. Che l’autore francese sia consapevole di questo anticrisma della sua fantascienza mi pare cosa ovvia. Egli ha infatti pubblicato, ai suoi esordi di scrittore, un formidabile saggio su H.P. Lovecraft, il padre dell’ucronia in epoca contemporanea (H.P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita, uscito per Bompiani). Lovecraft è lo Celan dell’ucronia in narrativa. Il suo fascino perturbante ha indotto emuli a produrre una quantità impressionante di spazzatura sottoletteraria, un po’ come Celan ha causato la surproduzione di trash poetico o Heidegger di rifiuti tossici filosofici. Se sottolineo questa derivazione e questa devianza che da Lovecraft conduce a Houellebecq, è perché la critica continua a leggere l’autore francese come un romanziere veracemente positivista, nichilista in massimo grado o, se desidera stroncarlo, come un supergiornalista assai furbo, che azzecca i temi e vende. Non è così: Houellebecq è un autore che enuncia una poetica sino dagli esordi, e questa poetica è eminentemente lovecraftiana. Questa poetica è una serie di operazioni e trasmutazioni sull’immaginario.
Quando si opera con consapevolezza sull’immaginario, si pensa che si debba operare necessariamente sulle storie. Ciò è vero come è vero che per respirare c’è necessità di aria. Non arrestandosi, tuttavia, a una ricognizione sulla semplice superficie dell’immaginario, bisognerà considerare cosa siano le storie. Quando inizia una storia? E quando finisce? Essa deve compiacere? Deve costituire un buon contenitore per le nostre proiezioni? Le emozioni su cui fa leva la storia sono la verità definitiva e l’unica grammatica della storia? Evidentemente no. Lo stesso Lovecraft continua a deludere chi si attenda una definizione soddisfacente delle storie che si raccontano nel Ciclo di Chtulu. Sono estremamente deludenti, sotto un tale risguardo, i finali di testi fondamentali come Le montagne della follia. Si deve risalire a Poe, anzitutto: uno legge il Gordon Pym, arriva alle ultime pagine e la narrazione si blocca in un loop indefinito. Questo indefinito, che è letteralmente negazione della definizione e di ciò che è definitivo, è anzitutto foriero di delusione. Fa meditare il fatto che il Gordon Pym, cioè il testo che indico quale angoscia d’influenza primaria per questo libro di Houellebecq, è esso stesso una narrazione ex-post, e perfino pre-post, grazie ai due apparati inclusi da Poe nella presentazione della finzione (nell’appendice finale arriviamo addirittura all’esposizione di mappe e caratteri quasi runici, para-linguistici o extra-linguistici, quasi come in certo Zanzotto). Però bisogna risalire ben oltre Poe. La narrazione delusiva è propria dell’epica e del ciclo dei nòstoi. La corruzione dei manoscritti ritrovati espone fisicamente a una delusione che non soltanto non annulla, ma addirittura potenzia il perturbamento indotto dalle storie. Chiedersi come inizia e finisce la Genesi costringe, tra i molti altri effetti, a una simile delusione. L’opera di immaginario non esime dalla delusione, che anzi ricerca e include nel suo cerchio magico. La consolazione è soltanto metà della narrazione, evidentemente.
E’ dunque in questa opera di immaginario che dobbiamo collocare la fantascienza di Houellebecq. Una fantascienza che narra contemporaneamente il nostro presente (Daniel 1), il nostro passato (la formazione e la vita e la morte nonmorte di Daniel 1), il nostro futuro (Daniel 24 e 25, ma anche la fine di Daniel 1). Questa non è più fantascienza: è una narrazione ubiquitaria nel tempo. Inoltre è una fantascienza stanca. L’unico oggetto narrativo che, a mia conoscenza, abbia finora praticato in questi anni questo genere di fantascienza è Lo spazio sfinito di Tommaso Pincio. Il padre più immediato è Burroughs, che ha molto figliato, ma i figli della finta fantascienza alla Burroughs sembrano essere reattivi e in qualche modo privi dello horror vacui. In Italia è forse Havana Glam di Wu ming 5 a costituire il polo opposto a quello di Pincio e Houellebecq. Una fantascienza allegorica che irradia politicamente, da un lato; una fantascienza allegorica che si inabissa nell’allegoria stessa, dall’altro. Apparentemente, una fantascienza vitalista e una fantascienza mortalista. E’ una rozza apparenza. In realtà, Havana Glam corrisponde all’altra faccia della medaglia sul cui verso è Pincio. La medaglia Burroughs è infatti la dualità discussa e messa al centro, fatta implodere nel punto centrale. Un po’ come i raggi della ruota: i raggi sono molto diversi l’uno dall’altro, ma guardano al medesimo perno centrale. Questo centro è laddove la finitudine potente di Burroughs coincide con la sfinitudine potente dello stesso Burroughs.
La fantascienza depotenziante di Houellebecq è dunque più che fantascientifica. Essa è identica al genere storico: parla d’altro. Di cosa?
Certamente parla di noi, cioè dell’umano. Quando, però, l’umano è racchiuso in gabbie storiche? Sempre, quindi mai. L’umano che, nel medioevo occidentale, appare inserito in un sistema di credenze e di immaginario è tanto umano quanto l’umano che appare oggi in estremo oriente, inserito in un ordine di credenze e immaginario completamente diverso da qualunque altro. E’ estremamente difficile realizzare una narrazione dove protagonista sia non questo o quell’umano, e nemmeno una tipologia di umano, ma proprio l’umano in sé. Soltanto un’allegoria potente può, e parzialmente, tentare l’opera. Lovecraft destoricizza e depsicologizza i suoi protagonisti, che divengono figurazioni dell’umano in sé. Soltanto in questo modo le sue narrazioni non sono kitsch, ma archetipiche. La psicologia di partenza dei personaggi di Lovecraft è tipicizzata e si realizza solo attraverso la rappresentazione di funzioni psichiche di base: insicurezza, paura, terrore – reazioni basali in quanto appartenenti al repertorio reattivo che permette la sopravvivenza (e non soltanto fisica, ma anche psichica). Esattamente questa è la ragione che permette l’equivoco Lovecraft. Assediato dall’ammirazione di fan perpetui, Lovecraft esce coperto di ridicolo agli occhi dei tantissimi detrattori. La narrazione allegorica (non metaforica, l’algebra non c’entra) di Lovecraft non può che risultare sghemba, strabica e improbabile – per questo viene ridicolizzata dai detrattori, che pretendono un romanzo in presenza di un oggetto narrativo.
La detrazione a cui va soggetto Lovecraft è la medesima che colpisce tanto spesso Houellebecq. Con un’aggravante: pure scrivendo spesso in prima persona, Lovecraft non gioca mai direttamente sull'”io” Lovecraft, mentre Houellebecq lo fa. Di qui, un diluvio di incomprensioni. A cui giustamente Houellebecq ha via via opposto le ragioni che sostanziano l’utilizzo dell'”io” in narrazione: cioè, in definitiva, ha opposto una teoria dell’allegoria versus una teoria della lirica. In La possibilità di un’isola, Houellebecq compie un passo ulteriore, che chissà se verrà visto ed eventualmente apprezzato (io lo apprezzo: tantissimo). Daniel 1, infatti, che è uno dei protagonisti del libro, è un comico che diviene una star europea ed è davvero Michel Houellebecq. Utilizzare l’allegorico per incorporare il lirico è una strategia quasi mai predeterminata: accade. E’ la potenza della letteratura. E’ il motivo per cui non si può leggere sociologicamente la letteratura. Zola può narrarci della finanza, ma non è la finanza che ci narra. I re di Shakespeare non lo sono. I Persiani di Eschilo potranno pure venire dalla persia, ma non sono Persiani. Saffo coincide invece proprio con Saffo che intercetta l’universalità di Amore. Houellebecq non coincide con Daniel 1 che però è proprio Houellebecq.
Non bisogna cadere nella trappola Houellebecq. La sua patetica superficie, che si taccia di polverosa noia, è talmente noiosa da risultare affascinante e quindi cattura: un velo di Maya che raramente viene squarciato dai critici, i quali parlano esclusivamente di questa superficie noiosa, che evidentemente deve sortire effetti superiori alla noia. Prendiamo la critica alle sette: Houellebecq mette in ridicolo i Raeliani; l’esito, a metà libro, è che il futuro è raeliano; l’esito finale, invece, è oltre il futuro del cristianesimo, del buddhismo, del raelianesimo. L’argomento è sociologico, il flusso no. Houellebecq non discute la storia e nemmeno la metastoria: discute la sostanza immaginaria con cui l’uomo racconta la storia. Aggredisce l’ideologia che fa, del senso, un feticcio necessario alla spiegazione e alla narrazione della storia. Il suo racconto è una domanda: di cosa è fatto il senso? Il suo materialismo è radicale e quindi è indifferente dallo spiritualismo. L’alfabeto che utilizza è fatto di singole certezze e apodissi (di qui, l’apparente saccenza), la parola che pronuncia non coincide con l’alfabeto con cui la pronuncia. Il vuoto è sentito, è pensato. Non è vero che Houellebecq fa la parodia di Heidegger: lo invera, piuttosto.
C’è un crisma cristallino, davvero vitreo, che attraversa la narrazione di Michel Houellebecq. La narrazione di questo detestabile francese è opaca, ma sotto è il contrario, è trasparente.
Il presente e il futuro della narrazione europea sono questo: sono, cioè, con precisione, il passato – poiché la letteratura è sempre stata questa domanda, questa apertura, questo cristallino che non sta nelle parole e non sta nelle idee, pur essendoci e nelle parole e nelle idee.

Michel Houellebecq – La possibilità di un’isola – Bompiani – 18 euro