Genealogia fantastica di un serial killer
di Silvia Arzola

salvatoricover.jpgIn un panorama abituato a scambiare l’originalità con l’artificio e a innalzare la forzosità (allegorica, linguistica e quant’altro) al rango di filosofia, Il sorriso di Anthony Perkins di Claudia Salvatori (Alácran, € 13.80), costituisce una novità.
Quel che intendo dire è che siamo di fronte a un romanzo naturalmente eccentrico, privo di quell’artificiosità che spesso avvelena, in Italia, la narrativa dotata di ambizioni scopertamente teoriche o metanarrative.
Forse sembrerà eccessivo, ma Salvatori, pur non rinunciando al genere, riesce in un’impresa a cui pervengono i poeti di rango o gli scrittori schiettamente visionari: quella di farsi superare dalle proprie intenzioni per dare vita a una ‘fantasia’ autonoma, un’allegoria irriducibile alla propria referenzialità semantica.

Le vicende di Anthony, narrate dal suo alter ego e amico, partono all’insegna dell’iperbole: un padre sterminatore seriale involontario, un’infanzia perseguitata da maestre gravide e ottuse, su su, fino all’epifania della sua vocazione da assassino. Il tutto gravato dal fato misterioso che lo condanna, nonostante i sui talenti, ad essere invisibile. Sempre, persino quando le sue imprese di sangue reclamerebbero quel tantino di morboso orrore cui ha diritto anche l’ultimo dei serial killer. Niente da fare, Anthony è consegnato all’invisibilità, un destino che condivide col cantore delle sue gesta: quell’io narrante che gli è alter ego e amico o che forse è Anthony stesso, se non altro per inverare la doppia identità di Perkins in Psycho e dar giustificazione al titolo.
Una storia esile, in definitiva, sostenuta da un’ironia acidissima, dal gusto del paradossale e da una rara felicità di scrittura; eppure, non sono queste la ragioni per cui il libro si ricorda.
Quello che ‘resta’ è la forza dello sfondo: uno sfondo che interagisce ‘emotivamente’ con l’azione, nutrendo con la sua luce equivoca la figura del protagonista fino a costituirne la fibra stessa.
Anthony è letteralmente intessuto degli immaginari che attraversa e ne riverbera, dapprima, la luminosità sgargiante e mortuaria tipica di una fotografia anni Sessanta, poi, via via sfumando, i timbri opachi di un tempo sempre più vicino, più indefinito e decomposto.
Invisibile, Anthony, attraversa il tempo della ‘nostra vita’ in un’imbarazzante familiarità, ed è questa la ragione per cui provoca, almeno in alcuni, un istinto di nostalgia e di ripugnanza.
E’ il parente che vorremmo dimenticare, quello che se ne sta addormentato come un virus latente nella memoria.
Naturalmente non sono le sue imprese criminali ad attivare il virus, ma quella prima esperienza del vuoto – la figurina mancante sull’album delle elementari, la figurina di una città magica – destinata a gonfiarsi in modo bulimico di altre speranze, altre prospettive, altre immagini, altre frustrazioni.
E, più la luce – quella luce da eterna provincia che è l’Italia – si conferma panorama senza chance di redenzione estetica, più Anthony prova a sognare l’America: prova a rinfrescarsi in una luce da film o dentro un fumetto, danzando al ritmo sentimentale del valzer di Lara.
Disgraziatamente, l’eterna provincia non perdona e beffandosi di ogni pulsione verso l’infinito ne mette a nudo l’intima vocazione velleitaria, sfornando maschere grottesche del desiderio, parodie del sogno: caricature del mito.
Sono questi i soggetti di cui Anthony farà giustizia, quelli che sembrano parodiare, involontariamente, il suo bisogno di Un’Altra Vita, quelli che gli assomigliano troppo ma non abbastanza: i testimoni del fallimento della sua, ma non solo sua, immaginazione.
Anthony, l’ho già detto, ci assomiglia (se non a tutti almeno ad alcuni) e lo sviluppo della sua coscienza mima in maniera così precisa il rapporto di una generazione (e forse più di una) con certo immaginario da far sospettare che, con Il Sorriso di Anthony Perkins, Claudia Salvatori abbia voluto consegnarci un’autobiografia intellettuale: il diario mimetico delle sue frustrazioni di scrittrice, sedotta da un immaginario altro (l’America come categoria dello spirito) e immersa suo malgrado in un panorama refrattario a ogni genuina trasfigurazione.
Un diario o forse la ‘confessione’ di chi ritiene che uno dei pochi compiti che restano a uno scrittore sia quello di fare giustizia di tutti gli stereotipi di profondità, eliminando senza rimorsi le inarrestabili parodie del mito.