di Vittorio Catani

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6.
Sopravvisse.
Per molto tempo non ne fu neanche consapevole. Ada era tornata verso l’alba con amici; vincendo l’orrore gli avevano prestato qualche cura, lo avevano vegliato, nutrito. Perché Giandre si rendesse pienamente conto di essere vivo dovettero trascorrere mesi.
Difficilmente però gli capitava di maledire Truro, o se stesso. Di solito sentiva come se gli avessero prelevato anche il cervello. Trascorreva parte delle giornate con il comp inserito, che però ora gli rielaborava il mondo esterno in AngSenza1.jpguna maniera nuova, strana e banale, tanto che lo accantonò. Cautamente prese a uscire dalla cabina, dalla nave. Ricominciò a pensare.
Pensava specie di notte al buio, ad occhi sbarrati. Noys: se era ancora viva non gli restava che lei. Ada a volte si assentava per giorni, era chiaro che presto avrebbe potuto lasciarlo. Non la rimproverava, lui adesso era un autentico rottame. A parte occhio sinistro e mano destra artificiali, i nuovi denti gli sfiguravano il volto in un mostruoso prognatismo. Si decise: durante un’assenza di Ada scrisse un lapidario biglietto, lasciò metà dei suoi spiccioli, raccattò alcuni oggetti e abbandonò il vecchio porto.


Erano trascorsi mesi, e al suo piccolo appartamento serviva una energica ripulita. Il cortile era invaso da erbacce, topi e lucertole. Tuttavia Vicolo Sette e i suoi meandri conservavano i loro vantaggi: silenzio, tranquillità. Giandre riposava e pensava. Presto qualche creditore dei suoi organi biologici poteva venire a reclamarne il possesso; e lui non aveva più nulla da dare. Evitava di immaginare le conseguenze. Il denaro era praticamente finito, avrebbe dovuto cercarsi un lavoro. La sua nuova mano consentiva attività di precisione o in cui occorresse una forte presa. Doveva allenarsi, studiare…
Da domani, diceva Giandre. Dalla settimana prossima.
L’unica cosa che riusciva a scuoterlo era – quando gli capitava di pensarci – Noys. Lontana, ammalata grave, forse persa per sempre.
Una notte si sorprese a chiamarla nei suoi dormiveglia. E un ricordo emerse, lo aggredì… Un’alba lontana, lui e lei.
Avevano camminato per lo scuro viottolo dei tronchi sotto la foresta di abeti, scendendo al lago. Tutta la notte avevano vegliato in una baita un parente di Noys che si era sparato una fucilata. Stringendoglisi, lei aveva chiesto:
— Sono molti gli uomini che si uccidono, oggi?
— Non so… forse sì. Forse più di prima.
— E le donne?
— Non molte, credo. Comunque, meno degli uomini. — Erano saliti nella barca, Noys seduta a poppa e lui ai remi. Il sole spuntava dietro lo scenario delle colline nella bruma. Un pesce saltò descrivendo un arco e formando cerchi nell’acqua placida. C’era un freddo pungente. Lui aveva messo una mano nell’acqua e l’aveva sentita quasi tiepida. E di una cosa si era sentito sicuro.
Loro due non sarebbero morti mai.
Fu la prima notte in cui Giandre si addormentò sereno, fino a giorno inoltrato.

7.
Trascorse altro tempo. In una delle sue notti intense Giandre fece un sogno.
Usciva di casa per andare da Noys. Lei era in un edificio scuro avvolto da pesanti inferriate. Si accedeva da una vasta scalinata, giù dalla quale rotolavano sferette metalliche con pupille, che ostacolavano la salita. Tuttavia lui raggiungeva la ragazza, giacente a letto in una sala in fondo a un corridoio. Noys gli chiedeva con voce aspra:
— Perché sei stato lontano? Perché hai tardato tanto, non vedi che sono morta?
Le rispondeva: — Cara, se sapessi… Guardami bene: ti accorgerai che sono morto anche io.
Noys urlava: — Non è vero! Bugiardo! — e cacciato un coltellaccio, ripeteva sul corpo di Giandre lo scempio fatto da altri.
Si svegliò grondante.

* * *

Un tardo pomeriggio uscì. Non aveva una meta, né aveva ancora ripreso dimestichezza con lunghe camminate. Scese piano per Vicolo Sette e fu al Boulevard Boulle. Si fermò davanti a una vetrina, specchiandosi, e notò che il suo aspetto non era poi sgradevole. Sull’occhio sinistro aveva applicato una lente a contatto del colore dell’iride naturale; poteva infilare nella tasca dei calzoni, celandola, la mano artificiale; e il prognatismo dovuto ai denti era mascherato da un paio di spessi baffi, che si era fatto crescere recentemente, e da un accorto maquillage alla mascella… Sì, poteva andare. Giandre studiò il suo nuovo look quasi con sorpresa, arrivando a giudicarsi un tipo magari insolito, ma interessante.
Era autunno inoltrato, faceva fresco e scuriva rapidamente. Il traffico era intenso. Risalì il Boulevard. Camminò per oltre un’ora a passo spedito, invaso da un’energia che credeva perduta, in uno stato d’animo crescentemente euforico. Finché capì.
Stava andando verso il Grande Ospedale.
Fu fortunato, perché da un lato della cinta muraria notò un crollo… e forse era prudente evitare l’ingresso principale. Giandre scrutò cautamente nel varco, poi vi sgusciò rapido, e proseguì tranquillo. Girò intorno all’enorme edificio. Ecco, in corrispondenza di quel piano rialzato: ricordava bene, là doveva esserci la stanza di Noys… Se lei era ancora lì. Invaso da una montante eccitazione, dietro la porta a vetri vide una figura femminile in vestaglia. Le fece un cenno. L’immagine lontana si mosse! Anche se i suoi connotati erano cambiati, Noys poteva aver riconosciuto il giubbotto, era stata proprio lei a regalarglielo. La figura scomparve.
L’accesso a quel portale risultò ostacolato da sbarre metalliche. Avrebbe dovuto aggirare l’edificio ed entrare dalla porta normale. Non intendeva farlo, era buio e l’ora delle visite era certo terminata. Giandre salì. Strano, come nel suo recente sogno anche qui le scale lo ostacolavano: le scarpe si invischiavano in qualcosa di appiccicoso. Forzò i passi e fu alle sbarre. Aiutandosi con la sinistra e soprattutto con la mano elettronica piegò l’inferriata con estrema facilità, spinse la porta a vetri lasciata socchiusa (da lei!) e fu dentro. Sgattaiolò nel corridoio pieno di ombre.
Nella prima stanza c’erano solo attrezzature, anche se in essa aleggiava un che d’indefinibile che lo respinse. Passò oltre.
Nella seconda stanza c’era un uomo disteso tranquillo, sorridente. Il suo volto era d’un giallastro intenso, spettrale, che a prima vista allarmò Giandre. Poi si accorse che il malato era un giapponese, avrebbe dovuto capirlo subito… In punta di piedi andò avanti.
Noys era nella terza piccola stanza, nel suo povero letto. Lo riconobbe immediatamente. Gli tese le braccia con un gridolino soffocato, e si abbracciarono con impeto.
Non c’erano parole per rendere la gioia di quegli attimi, del ritrovarsi dopo le indicibili traversie di quei mesi oscuri. Lei sussurrò: — Giandre caro, ho sofferto immensamente anche per la tua lontananza. — Scosse il capo. — Ma perché questo silenzio… Bastava anche un biglietto alla tua Noys, un segno. Vedi come sono ora?
Queste parole dapprima spaventarono Giandre. Era inverosimile come a volte i fatti ricalcassero i sogni! Scrutò Noys e la vide devastata dal terribile male, quasi una larva. Ma viva, e questo bastava. Viva, con negli occhi un accenno della grazia di un tempo e la chiara testimonianza del suo amore. Giandre sorrise dei suoi timori, e le disse gravemente:
— Tesoro, guardami bene in viso. Vedi come sono cambiato, come mi hanno cambiato. Non ti ho trascurato per mia volontà… Ma quando avremo più tempo ti racconterò.
Noys sorrise, si scostò e gli fece posto accanto a sé nel modesto letto. Un impeto di gioia incontrollata accese Giandre, come non gli accadeva da una eternità. Noys gli fece la migliore accoglienza che potesse mai fargli, e scherzosamente volle che lui la guardasse bene tutta, col suo nuovo occhio lucente.
E volle che lui le carezzasse il collo esile, dalle vene rilevate e pulsanti, con la nuova poderosa mano che lei sorridendo lodò.
Infine gli chiese di baciarla e di farle sentire la robustezza dei nuovi denti contro le labbra, e sul piccolo seno. Il loro gioco si protrasse a lungo, ed entrambi finalmente godettero di una gioia piena, un’oasi decisamente insperata nella morte di quei mesi solitari.
Il tempo volava. Per Giandre, accomiatarsi da Noys fu come sentirsi devastare da una lama affilata (sorrise ancora tra sé per quest’altra immagine collegata al suo sciocco sogno). Si accorse allora che qualcosa di lui restava, qualcosa che proveniva dal suo mignolo di carne, ferito: non si era reso conto che nel forzare l’inferriata esterna, uno spigolo gli aveva tagliato una giuntura fino al nervo. Per tutto il tempo aveva continuato a stillare sangue, e nel buio non avevano visto che entrambi, e il lenzuolo, grondavano, rossi come un fuoco.
Noys fu presa dal terrore. — Giandre… stai bene? — Lui le sorrise. Un abbraccio, poi si allontanò con gioia e insieme una grande tristezza. Dal corridoio vennero passi concitati.

* * *

— Dov’è ora?
— Chiuso in una stanza, sorvegliato dai sistemi d’allarme.
— Arrivo — disse il primario. — Chi ha avvisato, oltre me? — A quell’ora della notte c’era poco personale nel Grande Ospedale, quasi del tutto automatizzato.
— Una volante. Sono qui a momenti — disse l’assistente.
Quando il primario fu alla stanzetta chiusa sbirciò dallo spioncino e vide un uomo giovane, magro, dai capelli chiari. Era seduto al centro del locale su uno sgabello metallico, chino su se stesso, e si teneva lo stomaco con una mano. Pareva inebetito. Gli abiti erano inzuppati di sangue scuro, come il volto, le labbra protese mostruosamente in fuori come la caricatura di un coniglio. Per terra c’era una scia di gocce annerite.
— Aveva addosso il comp quando è entrato? — chiese il primario.
— Sì. Gliel’ho prelevato per tenerlo da parte… eccolo qui.
Il primario prese il collare psicoelettronico. Aveva un diametro di circa venti centimetri, uno spessore di alcuni millimetri ed era zeppo di nanocircuiti. L’involucro pareva di ottone lucido. Rigirandolo tra le mani notò un’incisione:

NOYS A GIANDRE
Che il mondo ti appaia sempre rosa

— Ignoro le caratteristiche di questo particolare modello, deve essere recente — osservò pensieroso il primario.
— Le conosco io. È tra i più sofisticati. Gli input provenienti dal mondo reale, in entrata, e quelli psichici provenienti dal cervello in uscita, sono rielaborati dal campo psi del comp in due fasi d’onda che si alternano veloci. Chi lo porta al collo agisce e parla rispondendo in modo del tutto logico alle sollecitazioni esterne, che percepisce però solo a livello profondo. In pratica riscrive soggettivamente gli stimoli esterni, con una sovrapposizione quasi perfetta alla realtà.
Il primario esitò, perplesso, poi si riscosse: — Spero almeno che le microcamere in cui si è imbattuto sul percorso da quando si è introdotto nell’ospedale funzionassero tutte.
— Funzionavano — lo tranquillizzò l’altro. — Si tratta solo di visionare la registrazione, e credo che potremo farlo subito.
— E la paziente?
— È andato il medico di guardia. Anche se purtroppo… Oh. — Si interruppe. Nel corridoio sopraggiungevano di corsa quattro uomini in divisa.

* * *

La verità era molto più ampia di quanto avrebbero potuto mostrare nastri di tv a circuito chiuso (e il Grande Ospedale ne aveva molte). Giandre non era stato segnalato all’entrata regolamentare. Aveva forzato alcune crepe nella cinta sud, in restauro. Complice l’oscurità, si era introdotto fra le aiuole pervenendo a una delle scalinate. I gradini erano assurdamente inondati di sangue, defluente dall’interno in un largo rivolo. Nella fretta l’uomo era scivolato due volte. Fu nel corridoio in penombra e corse come una lepre. Si fermò alla prima stanza, la Medicheria. Il lago di sangue veniva da lì. Per terra giaceva uno scatolone di flaconi aperti, appena giunti per le trasfusioni tramite via pneumatica dal padiglione della emobanca. Una bacheca, urtata dallo scatolone, si era a sua volta rovesciata. Ne erano fuoruscite buste sparse per terra, ma il sistema di sicurezza non aveva segnalato l’anomalia. Avvicinandosi, Giandre ne riconobbe il contenuto: arti e organi umani. Emise un urlo roco e fuggì.
Fu alla seconda stanzetta. Lì c’era il Paziente 212. Aveva un intenso colorito giallognolo e gli occhi stralunati. L’incisione alla carotide e il filtro selettivo apparivano in ordine: ne usciva un lentissimo rivoletto rosa fitto di puntini bianchi. Leucociti, abnormemente metamorfosati. L’uomo era un megaleucocitico all’ultimo stadio. Giandre passò oltre.
Alla terza stanza c’era la Paziente 213, immobile sul lettino. Esile come un fuscello, la pelle grigio scuro e gli occhi rovesciati. — Noys — sussurrò lui.
Il capo della Paziente 213 si levò lento sul collo tubiforme. — Sei… tu — disse stupita, con voce incespicante e aspra. La bocca viola era contratta in una smorfia. — Tu… Solo ora vieni da me. Sei un ingrato, Giandre. Stai capendo in che stato mi trovo?
Lui taceva. Sia pure a livello non conscio, il suo cervello aveva registrato la realtà. La Paziente 213 non era più viva. Si continuava a prescriverle la terapia biotanatica, tenendola attaccata alla macchina-dei-defunti per qualche settimana, come di rito. Perché era doveroso, perché esisteva la sia pur estrema possibilità di un miracolo. Anche per un’ex megaleucocitica.
— Tu — scoppiò Giandre — sei una… mezzamorta! Noys, vorrei che mi perdonassi. Guardami, guardami bene, Noys! Anche io sono…
— Ti sto guardando, Giandre, e vedo solo che io sono ormai una mezzamorta mentre nonostante tutto tu sei ancora vivo e vegeto. Vattene! Non potrò mai perdonarti la solitudine in cui mi hai lasciato marcire!
Giandre le urlò con ferocia: — Non mi vedi da oltre un anno, potresti non aver potuto vedermi mai più, e mi accogli così? Stupida megera imputridita! Sta’ zitta e convinciti che per te non c’è più niente da fare, tu sei già morta, capisci? Dallo stadio in cui ti trovi non si torna indietro, si prosegue verso il nulla e io ne sono felice, cagna!
Noys lo fissava con occhi vitrei nei quali cornea e iride si confondevano in un’unica pallottola traslucida. Sussurrò: — Mio Giandre…
Di colpo l’uomo fu preso da una frenesia incontenibile e si precipitò al capezzale, abbracciando la Paziente in un mare di lacrime e singhiozzi.
Come accecato, riassaporò la gioia del loro rapporto, durato poco, troppo poco. A dispetto di tutto essi, benché al limite estremo, si ritrovavano ancora insieme. Lui era un rottame, ma nessuno avrebbe più dovuto depredarlo di questa gioia. Neanche la morte. Era troppo bello.
Noys doveva sopravvivere.
Guardò la donna col suo nuovo occhio, e ne vide il corpo a un vicolo cieco. Lui doveva appropriarsi per sempre di momenti come questo, conservarne in sé il ricordo felice.
Poi l’abbracciò con trasporto e con la sua nuova, possente mano le prese il collo e con uno scatto violento glielo troncò netto. Il sangue della Paziente 2l3 non sprizzò rosso perché era il sangue di una mezzamorta. Era scuro, semicoagulato, e scendeva anche un icore filante da ghiandole congestionate simili a palle da tennis. I muscoli facciali di Noys ebbero una lenta contrazione. Tenendolo ben saldo, sollevò il capo di Noys dai sottili capelli radi; lo avvicinò a sé tremante, e ne baciò a lungo le labbra.
Infine coi suoi nuovi, robusti denti le morse le labbra e la lingua livide e tirò, tirò fino a stracciargliele. Con la micidiale mano squarciò vestaglia e corpo; e in un ardore che lo fece mugolare ebbe finalmente dentro di sé Noys, per sempre. Quanto più possibile della sua Noys.

* * *

I quattro uomini in divisa ascoltarono il resoconto dei nudi fatti constatati; visionarono i nastri e li sequestrarono unitamente al comp. Infine si recarono dall’uomo. In preda a spasmi violenti, stava vomitando lentamente per terra qualcosa d’innominabile. Non oppose la minima resistenza. Lo portarono via.
— Ci sono tracce di violenza sessuale sulla Paziente? — chiese il primario al medico di guardia.
Questi borbottò corrucciato: — Probabilmente sarà arduo rilevarle. Proverò.
L’assistente disse: — Se permettete, provvedo a spedire in obitorio ciò che resta della Paziente.
— Vada pure — rispose il primario. — Ci risentiamo dopo.

8.
Se vi inoltrate verso il lato sud di Boulevard Boulle e risalite la zona dei vicoli, giungete a una piazzetta da cui si dipartono a raggiera cinque stradicciole. A sinistra c’è un polveroso bazar di articoli casalinghi. Vi si vende e affitta di tutto, da stoviglie plastiche a piccoli attrezzi computerizzati. Il proprietario è un vecchietto cadente e lamentevole di nome Rebo; se gli chiedete degli affari, farfuglierà la solita litania sui tempi duri e sulla merce che ammuffisce. La zona è nei paraggi di Vicolo Sette, ma da anni ormai nessuno dei pochi che lo conoscevano si ricorda di Giandre.
Di un unico articolo il vecchio si mostra sempre soddisfatto. È una mano artificiale, che – col semplice accorgimento di un motorino interno – sviluppa una forza sorprendente e un alto grado di precisione. Alla base della protesi è ancora incrostato un tratto incartapecorito d’avambraccio, unica traccia del precedente proprietario; sul palmo risulta incisa una rozza G. Il vecchio l’acquistò a un mercatino. Qualche volta Rebo la chiama “la mia terza mano di seconda mano”: l’oggetto gli comunica momenti di buonumore, perché egli l’affitta sovente e ne ha abbondantemente ammortizzato il costo. Vorrebbe che ogni suo articolo fosse, come quella mano, una buona merce.