di Federica Vicino

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XXIV.

– Sei sicura che ti vogliano addormentare?
– Sì.
– Come fai ad esserne sicura?
– Gliel’ho sentito dire.
– L’hanno detto davanti a te?
– Sì.
Ci fu una pausa: Sara si fece triste, più silenziosa del solito. Continuava a guardare la TV ed io continuavo a guardare lei: i suoi capelli corti, troppo corti per far parte di questo mondo; gli occhi grandi, stessa cosa: troppo grandi per appartenere all’umanità… eppure limpidi. Il tutto immerso in un pallore spettrale: ora sì, era evidente che si trattava di un clone. Bella, bellissima, ma un clone.
La descrizione, certo, è solo questione di convenzioni: in altri tempi, il pallore sarebbe stato candore e lo sguardo vitreo lo specchio d’un cuore sincero.

– Capelli?
Ho il cervello in tilt. La voce di Hipko mi fa sobbalzare. Mi accorgo di respirare a fatica. Ho seguito anch’io il rituale dell’attivazione della macchina: un microscopico computer, un microscopico raggio laser che si aggira per ora nel vuoto, e soprattutto la mano del nippo-germanico guantata e pronta ad entrare in azione.
– Capelli? – ripete.
Capelli…
Che razza di domanda! Capelli?! – Certo, il pittore in 3D, inizia dall’alto il suo “ritratto”… peccato, stupido idiota, che i cloni per regola non abbiano capelli! Non lo sapevi? Nessuno di voi lo sapeva? Nessuno degli eccellenti dotti responsabili di redazione dello UWDN sapeva che i cloni non hanno capelli?!
Beh, signori: i miei complimenti.
Avverto stupore, o forse scalpore, tutt’attorno a me.
– No, non hanno capelli i cloni, – aggiungo – e non perchè i capelli non crescano. Al contrario! Crescono eccome, crescono molto più velocemente che negli esseri umani. Ed è per questo che al Deposito Sanitario li tagliano. E’ una questione di igiene: li tagliano in continuazione, quotidianamente: quintali e quintali di capelli.

Certo, quella sera, al bar, se solo fossi stato più lucido… avrei dovuto capire. O quantomeno insospettirmi.
Mi perdo nel ricordo, che ormai è nebuloso e incerto. Quanto più è nitida l’immagine che il computer ricostruisce, tanto più sfuggenti si fanno i contorni del ricordo.

– Ce ne andiamo da qui?

XXV

– Colore degli occhi?
La mano guantata di Hipko si profonde in voluttuose evoluzioni; il minuscolo raggio laser orbita ora intorno a un’icona, saltata fuori dal nulla. Immagine incompleta eppure impressionante. Ho un tuffo al cuore: a nulla valgono gli occhi ancora vuoti, le iridi incolori, le labbra trasparenti, appena accennate… quella che mi si svela a poco a poco dinnanzi agli occhi è la testa di Sara. Fluttua nel vuoto, quasi fosse schizzata via dalla lama di una ghigliottina: la scena è agghiacciante, mi fa trasalire.
E’ questione di un attimo: la puzza di Behlen mi brucia nelle narici; anche la folla dei redattori UWDN ha avuto un fremito. Mi impongo una calma che non trovo, un autocontrollo che non ho.
– Verdi. – mi affretto a rispondere – Come i miei: verdi.
– Occhi verdi. – digita Hipko sulla tastiera del computer, il guanto esegue, il laser indirizza il messaggio. L’icona ora ha uno sguardo. Verde.
– Passiamo alla corporatura.

Sara mi sorrise. L’avevo creduta angosciata, invece mi sorrise. Le chiesi io di cambiare argomento, per paura… perchè ero io a essere angosciato. Quella parola, terrificante nella sua dolcezza, mi angosciava: “addormentare”. Cercavo di pensare ad altro, ma non mi riusciva. Mi riusciva solo di guardarla, in continuazione: lei così minuta e leggera, nella luce azzurrognola della TV. Soprattutto indifesa; e questo rendeva la mia angoscia ancor più insormontabile. Una sensazione che non avevo mai provato prima, mi invase.
Sara mi sorrise, e nella luce di quel sorriso mormorò:
– Non preoccuparti: mi riaddormenteranno solo se riusciranno a prendermi.
– Ti prego, cambiamo argomento.
Mi venne vicino. Di nuovo avvertii il profumo di fiori recisi.
– Come si chiama quella cosa che facevamo stanotte? – mi chiese.
– Scopare. – mi scappò detto; mi corressi subito dopo, dandomi dell’imbecille:
– Fare l’amore: si chiama fare l’amore.
– Beh, qualunque cosa sia, facciamola di nuovo.

XXVI

Qualunque cosa sia…
Salto sulla sedia. E all’improvvisa mia reazione segue una nuova ondata di stupore.
– Allora? La corporatura? – insiste Hipko.
Taglio corto: niente corporatura, per adesso. Ho bisogno di Behlen, di lui e nessun altro. Al diavolo identikit, giornalisti e sceneggiatori: mi serve solo il mio vecchio, caro direttore-caimano.
– Ti devo parlare. – gli dico – Subito.
E’ tutto fermo, nel più immobile degli istanti. La testa di Sara vibra nell’atmosfera carica di tensione. Partono come razzi le proteste di Hipko:
– Non possiamo interrompere il lavoro ora! – gracchia – Ora che abbiamo iniziato, si deve per forza completare!
– E’ un identikit, testa di cazzo, – gli ringhio contro – non un rito satanico. E se io dico che dev’essere interrotto…
Behlen interviene prontamente. Gli animi si sono surriscaldati oltremisura, la redazione ribolle di sciocche aspettative deluse, la testa di Sara fluttua ancora nel nulla, ed è quella la più insostenibile delle visioni. Hipko se la prende, ora, col mio linguaggio scurrile, i redattori mugugnano, gli sceneggiatori rumoreggiano… nella bagarre generale c’è un solo imperturbabile: Behlen. Chiede e ottiene il silenzio con un solo scarno gesto – nemmeno Dio arriverebbe a tanto.
E’ il momento giusto per pungolarlo, così gli soffio contro:
– E’ un’altra delle mie stronzate, direttore.

Qualunque cosa sia…

XXVII

Non so se la strada che ho imboccato è quella giusta. In ogni senso: metaforico e non.
So solo che non si torna indietro. So solo che, nonostante tutto, continuo a sentirmi soffocare. Unico sollievo: il tifone, ormai imminente. Lo si avverte nell’aria: il cielo s’è fatto scuro e ferrigno; il caldo è ancora insopportabile, ma è questione di poco, i tuoni sono già nell’aria con tutto il loro peso. Mi inerpico per le stradine dismesse, col respiro impiastrato di polvere di metallo: non avverto alcun sollievo; non c’è sollievo, nei sobborghi, nemmeno quando sta per scatenarsi il tifone. Anzi, a dire il vero sono nel posto sbagliato, nel momento sbagliato: non c’è da rallegrarsi, nei sobborghi. Altrove, in città, l’arrivo del tifone è salutato come una benedizione del cielo, che spazza via l’afa annegandola nella pioggia e nel vento; nei sobborghi il tifone è solo tifone. Il vento scoperchia i tetti, svelle le baracche, sfonda porte e finestre; la pioggia ingolfa i letamai a cielo aperto, nelle strade la terra battuta si fa pantano – un pantano dal quale domattina, col nuovo caldo, si leveranno nugoli di nuove voraci zanzare.
Ancora un tuono, paurosamente vicino. Mi guardo attorno, ma in fondo sto solo esplorando il mio cuore – è l’unico paesaggio in continuo mutamento.
Non faccio che domandarmi perchè ho preso per di qua. Le risposte sono due: primo – perchè ho la netta sensazione che Behlen mi stia facendo pedinare (nei vicoletti è più facile, anche se più rischioso per uno come me, far perdere le proprie tracce); secondo – perchè mi piacerebbe reincontrare il vicino di sgabello dal cappottone scuro. Proprio qui: in questi vicoli pieni di vita fino a scoppiare. Nei sobborghi la vita pullula nelle sue più disparate manifestazioni: vecchi, cani, donne, galline, bambini… sono tutti uguali, tutti ugualmente riversati in istrada, costretti ad abbandonare durante le ore del giorno le baracche di latta arroventata per cercare refrigerio là dove non c’è refrigerio: all’aperto. E all’aperto succede tutto, nei sobborghi: si mangia, si dorme, si vive – si muore, si consumano amori e malattie. Ho in mente un chiodo fisso: quella storia del lottare, saltata fuori fra un boccone e un altro, col mio saggio vicino di sgabello. Lotta per la sopravvivenza… non è forse lotta per la sopravvivenza, questa?
(Altro tuono). Da queste parti sono una specie di animale raro: mi tiro dietro sguardi inquieti e sfuggenti; mi lascio dietro orme con tanto di marca e misura… scarpe, un bene raro quanto prezioso. Dimenticavo che nei sobborghi sono capaci di ammazzare, per un paio di scarpe. I gatti sventrati ed arrostiti non mi fanno meno impressione dei bimbi che corrono scalzi; peggio ancora sono i piedi rincagnati e callosi dei vecchi. Eppure il vociare è ininterrotto, il gioco, per quanto crudele, è sempre gioco e qui non termina mai. Solo il mio passaggio strappa qualche istante di rapito silenzio. L’unico a continuare a strillare è l’ennesimo gatto preso al cappio: ha gridato, poco fa, nonostante il felpato frusciare delle suole sulla terra battuta, nonostante la camicia bianca e i pantaloni di lino. Ha gridato di schianto tutto il macabro orrore della morte: gatto sei preso, gatto sei morto. Qui l’orrore non è questo: qui l’orrore ha un’altra faccia e un altro nome: si chiama fame. FAME. Di questo mi stupisco: di tutti coloro che sono azzittiti al mio passaggio, non uno – nè anziano nè bambino- che mi abbia chiesto l’elemosina.
Di là dai vetri dei grattacieli la chiamano “dignità”… Nemmeno sanno cos’è.
Il gatto rantola nel cappio e io devio bruscamente il mio percorso, giù per una stradina ancora più impervia. Non so chi sia, ma sono certo di avercelo alle calcagna. (Ennesimo tuono: non si contano più, ormai). Torno bruscamente ai miei pensieri. Penso ai bimbi che esultano dinnanzi al soffio disperato dell’animale; penso alla morte dell’animale che per i bimbi senza le scarpe significa la vita; penso alla lotta per la sopravvivenza ed all’ economia che regola i livelli della lotta. Penso che non ci sono cloni, per gli abitanti dei sobborghi: nessuno ha un clone qui, nessuna vita di ricambio. Questo avrei dovuto chiedere al vicino di sgabello; questa è la domanda che ho clamorosamente dimenticato di fargli – questa: “Come ci si sente, senza il clone?”
Com’è… com’è la vita, se non si ha un clone?
Sto esplorando un deserto: quello che ho al posto dell’animo. Spero solo che il tifone riesca a squassarlo ben bene, sicchè dopo sia irriconoscibile persino a se stesso. Ultimo pensiero, prima di iniziare a correre: se dovessi procurarmi del cibo come si fa qui nei sobborghi, se dovessi catturare, uccidere, sventrare, spellare prede per poi mangiarle… Dio mio, se dovessi far questo, morirei di fame! La mia solidarietà col gatto condannato a morire impiccato senza alcuna dignità è totale.

XXVIII

Lasciai Sara addormentata nel letto: avevo un disperato bisogno di prendere una qualsiasi sostanza allucinogena. Dovevo procurarmene, e alla svelta, così uscii di casa. Mi ritrovai proiettato in un mattino torrido, nel rigore asettico di un traffico ordinato di onesti lavoratori. Fare di nuovo l’amore con Sara era stato stratosferico; fare l’amore di prima mattina -l’avevo dimenticato, o forse non l’avevo mai saputo- è stratosferico. Ma lo sguardo continuava a cadere su quel tatuaggio, su quelle cifre agghiaccianti, che mi riportavano alla mente ciò che Sara era, o meglio, ciò che non era. Nel drugstore spesi tutto quel che avevo, per scoprire poco dopo che non avevo affatto voglia di farmi: mi rassegnai all’idea di fondare le mie forze sulla consapevolezza dell’effetto placebo che la bustina, ora rigorosamente a portata di mano, mi avrebbe dato. Il resto importava poco. Avevo una sola necessità: Sara.
Tornai a casa.
Non era trascorsa nemmeno un’ora da che ero uscito. Il rituale – portone, scale, ascensore, pulsante dell’ascensore – s’interruppe bruscamente sul pianerottolo. Ero frastornato, ma non abbastanza da non notare l’esile ombra del primo sciacallo, che già approfittava della situazione. Si dileguò per le scale – lo ignorai. Lo ignorai decisamente: non erano gli sciacalli il vero pericolo, lo sapevo bene. Mi precipitai in casa. Mi ritrovai di fronte una scena che diceva già tutto: la porta aperta, ma non forzata (non ladri, dunque, ma qualcuno che aveva regolarmente bussato e atteso – o preteso- che gli venisse aperto); la casa in subbuglio (nei cassetti ancora il segno delle mani abili, ma delicate, dello sciacallo; altrove l’orribile scempio di poltrone e tavoli rovesciati). Col cuore in gola mi precipitai in camera da letto: anche lì trovai la scena che mi aspettavo di trovare… scaraventati a terra, senza alcun riguardo, le lenzuola, le coperte, i cuscini, il materasso, e più nessuna traccia di Sara; i segni inconfondibili della violenza sui poveri resti del nostro amore.
Con la schiuma alla bocca uscii sul pianerottolo, pestai pugni e calci su ogni porta, urlai tutta la mia rabbia nella tromba delle scale. Il miracolo avvenne: qualche porta timidamente si aprì, qualcuno dei miei finti vicini di casa si affacciò; alcuni accettarono addirittura di parlare: raccontarono d’aver sentito, d’aver visto… uniformi nere, armi spianate, grida – la Polizia di Regime, e anche quelli in bianco, quelli del Deposito Sanitario, gli agenti del servizio AC! Nell’appartamento s’era sentito un gran trambusto, ma per pochi attimi. Tutto era avvenuto nel giro di pochi secondi. E a tutti gli inquilini del palazzo era stato impedito di uscire di casa.
– Polizia: rimanete nelle vostre abitazioni! – era echeggiato per le scale. Poi nient’altro, per più di mezz’ora: il tempo di dimenticare e tornare alla tranquilla quotidianità.

(Ultimo tuono, e finalmente la pioggia. Torrenziale). Il coltello affonda nel ventre del gatto; fortunatamente non ho orecchie per sentire lo scricchiolìo della pelle che si strappa. Quel che è stato, è stato.
E quel che è successo dentro casa mia quel mattino posso solo immaginarlo (e con orrore): ne parlo al passato, e non mi accorgo che invece è storia recente, recentissima. Parliamo di giorni, ore, istanti… secondi, pochi secondi. (Come sa essere ambiguo, il tempo, quando si tratta di vivere o morire).
Il direttore ha ascoltato l’ennesima mia “stronzata” e, contrariamente alle mie aspettative, stavolta s’è ben guardato dal ridere. Mi ha congedato, che ancora rimuginava sulle mie parole.
Per me non è cambiato nulla: io non posso più aspettare.
– Sono disposto anche ad uscire allo scoperto. – gli propongo prima di sparire – Sono disposto a concedervi un’intervista: in video. Naturalmente in esclusiva. Sarebbe un altro bel colpo, no, direttore?
Mi risponde con un mugugno.
– Rischiamo di tirare troppo la corda. – confessa, masticando il mozzicone del cubano Luxury.
– E perchè? – protesto.
– Perchè è un’idiozia, Drexter, lo sai meglio di me.
– E’ la verità.
– Rischieremmo di scadere nel paternalistico!
– Sei tu quello che vuol fare di questa storia una telenovela, non io!
– L’opinione pubblica è una bestia strana.
Mi spazientisco.
– Io me ne fotto dell’opinione pubblica, Behlen! — soffio — Tu vuoi fare audience. Io voglio che la notizia venga fuori. E verrà fuori, con o senza di te.
La mia affermazione non ammette repliche. E, lasciatemelo dire, in questo frangente mi sono proprio piaciuto! Sono riuscito a mettere paura a Patrich Behlen; così tanta paura che ora mi ritrovo due equivochi scagnozzi che mi inseguono per le viuzze sconnesse dei sobborghi, sotto una pioggia scrosciante. Ho un’urgenza assoluta: seminarli.
– Manca un quarto alle 4 – ha concluso il direttore – Va’ al Dipartimento Sanitario.
Lancia ordini verso la persona sbagliata, Patrich Behlen. Ma era quello che aspettavo di sentirmi dire: scatto sull’attenti e mi dileguo. Definitivamente, spero. Il direttore è troppo furbo per non aver spedito nello stesso posto almeno altri tre giornalisti, tutti più abili e scaltri di me. E io ho altro per la testa: Jordan al Dipartimento Sanitario vuol dire astronave marziana priva del suo comandante, e quindi incustodita. Ho in mente un piano diabolico, che dovrà riuscirmi.

XXIX

Il tifone affonda i suoi colpi; assesta bordate nell’inferno dei disperati, mentre io allungo ancora il passo; cambio continuamente direzione, per confondere i due inseguitori; ora il fango mi risucchia fino alle caviglie, la fuga s’è fatta faticosissima, disperata. Un’altra raffica di vento rigonfia le pareti delle piccole baracche, spalanca porte e finestre; l’ultimo fulmine piovuto dal cielo ha mandato in corto circuito la centrale elettrica che serve legalmente l’Agglomerato Sud e, abusivamente, i sobborghi 54, 16 e 59 (io sono nel 59): il colpo d’occhio mi svela come per incanto il Re Golem che scompare in un guizzo di luce blu. Provo stupore (per quanto è ancora possibile provarne, in mezzo a quest’ira di dio): televisione? Una televisione, qui? Nei sobborghi? Fra bimbi senza le scarpe e pranzi a base di gatto randagio, una televisione?!
Poi si interrompe tutto: l’universo è tagliato in due da un fulmine che evoca lo spirito dannato di Giove Pluvio in persona; mi s’è fatto tutto bianco, dinnanzi; sono cieco, e forse anche sordo; sono paralizzato, incapace di muovermi; avverto solo un remoto strattone, alle mie spalle, la camicia… qualcuno mi ha afferrato per la camicia e mi trascina. La pioggia mi impedisce di spaventarmi: la sensazione è quella della cattura; ma non ho la forza di reagire. Sono preso, come il gatto nel cappio, e nemmeno riesco a gridare. C’è fango dappertutto, addosso a me, sopra di me, dentro di me; non vedo più nulla. Ancora uno strattone: l’universo si fa gelido d’ombra; altre raffiche di vento mi paralizzano, ma almeno qui non piove – il rumore è infernale, il freddo, il buio, tutto infernale. Sono disteso in una palude che emana un odore inammissibile.
– Sei pazzo ad andartene in giro con il tifone!
Chi ha parlato? Chi?
– Nei bassifondi, poi! Uno come te!
Mi è tornata la vista; spero di riacquistare nel giro di pochi attimi anche la capacità di ragionare, altrimenti non riuscirò a dare alcun senso a ciò che ho davanti agli occhi: una bambina, arrampicata in cima a uno sgabello, con le gambe nude e le ginocchia ritratte al petto, per non affondare i piedi -scalzi- nella fiumana inammissibile di pioggia, fango e lerciume che scorre sul pavimento della baracca. Non può essere la sua, quella voce. Era una voce femminile, quella che mi è parso di udire, ma di donna adulta.
– Se hai deciso di suicidarti, fallo come si fa dalle tue parti: imbottisciti di barbiturici e addormentati.
“Addormentarsi”… questa parola mi perseguita.
Mi scuoto; riacquisto i sensi e la consapevolezza: c’è una baracca e qualcuno mi ci ha trascinato dentro, c’è una bambina che mi guarda fisso e c’è una donna che parla, da qualche parte qui intorno. La cerco con lo sguardo, e me la ritrovo alle spalle, arrampicata sopra un tavolino scalcagnato, anche lei per evitare di stare a mollo nella pozza congelata del tifone. Il vento fa vibrare spaventosamente le lamiere.
– Non preoccuparti! – mi rassicura la donna – La baracca regge: l’importante è tenere porte e finestre aperte, così il vento entra ed esce come gli pare.
La furia dell’uragano scaraventa sul pavimento i primi indizi sacrileghi della vicina discarica: è un torrente in piena che trascina immondizia di ogni specie, poi arrivano le penne candide di un gabbiano e l’immonda carogna d’un topo. Lancio un urlo ed arranco fino al tavolino, suscitando un’ilarità senza termine nella donna. La bambina non si scompone: mi guarda, immobile. Mi mette in imbarazzo. Arrampicandomi sul tavolino ho notato ciò che non si può non notare, la donna non indossa le mutande; un enorme cuore nero ed arruffato pulsa sotto la gonna fradicia; lo sguardo mi è andato lì, per tutta la durata di un lunghissimo istante, e per tutto questo tempo la bambina ha continuato a fissarmi. Adesso mi sento quasi in colpa.
Mi accomodo sul tavolino, accanto alla donna che ancora sogghigna; mi stringo più che posso nelle spalle.
– Fa un freddo boia. – sussurro. Non mi risponde nessuno. Riprendo a parlare, anche se non so con chi: la bambina ha l’aria di ascoltarmi, ma senza capire; la donna sembra completamente distratta.
– Mi inseguivano. – provo a spiegare – Mi inseguivano e ho preso per di qua. Pensavo che nei sobborghi sarebbe stato più facile…
Lo sguardo mi cade sulla TV: ora ricordo. Sobborghi — scagnozzi — Behlen e il suo sigaro putrescente — fulmini tuoni e gatti — cocomero e pioggia — tempo e tempo — straccioni e cloni — giapponesi e computer – polizia e astronavi — donna e mutande — un quarto alle quattro — piano diabolico. Ora ricordo. Ho un piano diabolico, che dovrà riuscirmi.
– Ma quanto cazzo dura questo tifone!?
– Per sempre, spero.

XXX

La fiumana si ingrossa: se ora provassi a scendere dal tavolino, l’acqua ce l’avrei alle ginocchia. Mi sento come un animale selvaggio preso in una sadica trappola, nella quale per giunta mi sono andato a cacciare da me! Inoltre sto morendo di freddo: è tutto gelido in questa maledetta baracca, il tavolino, le lamiere di cui sono fatte le pareti, il cadavere del topo, che si è arenato fra le cianfrusaglie domestiche, il vento che continua a ululare e dimenarsi, gli sguardi di queste due donne… L’ansia si fa irrequietezza, e nel breve spazio del tavolo c’è ben poco da nascondere, sicchè la donna rompe l’amaro mutismo in cui è precipitata da troppi minuti.
– Non ti preoccupare per il tempo. – mormora – Quando c’è il tifone tutto si ferma: anche il tempo.
Vorrei poterle credere.
– Sto cercando qualcuno, – le confesso – un uomo.
Le descrivo, come posso, il vicino di sgabello: ho pochissimi elementi, ma così caratteristici che mi sembrano sufficienti. Capelli grigi e cappottone di lana scuro. La donna riprende a ridere, e fra le risa, aggiunge cantilenando:
– E se ne va in giro parlando del collasso climatico del pianeta e della lotta per la sopravvivenza.
– Lo conosci?! – mi entusiasmo.
– Se lo conosco? – e ancora risate – Tesoro mio, quello che hai appena descritto è l’ abitante – tipo di questi sobborghi!
– Che cosa!?
– Dove l’hai incontrato, in un bar?
– Al self service.
– Al ristorante, certo. E naturalmente gli hai pagato il pranzo.
– Sì…
Ride ancora.
– Lo so che è un trucco. – spiego, in un rigurgito d’orgoglio.
– E’ un vecchio trucco! E ringraziando il cielo, funziona sempre. Non sei il primo, e nemmeno l’ultimo, a caderci.
– Era un tipo in gamba! – esclamo, come se dovessi convincere me stesso, più che qualcun altro – Uno che sapeva un sacco di cose! Uno che diceva un sacco di cose giuste! O comunque… condivisibili!
Dinnanzi al mio accanimento, la donna si fa seria. Terribilmente seria.
– Per questo vuoi ritrovarlo? – mi domanda.
Annuisco. Ci penso un po’ su; guardo di nuovo lo schermo vuoto e bagnato della TV. Se il Re Golem è anche qui dentro, allora vuol dire che è proprio dappertutto.
– Voglio ritrovarlo anche perchè… ho bisogno di lui. – confesso – Deve aiutarmi.

XXXI

Le mie parole si perdono nello scroscio dell’ultima pioggia. La sublime possanza del tifone ha ceduto il passo alla mediocrità di un comune temporale. Le strade dei sobborghi sono ancora un torrente in piena – una specie di specchio per il mio cuore – e in un istante ritrovo tutta l’ansia che mi disarma il pensiero.
Ester, così si chiama la donna che mi ha salvato dalla furia della tempesta, mi sconsiglia di riprendere subito la fuga.
– E’ il momento più pericoloso, questo. – blatera, ma intanto balza giù dal tavolino e affonda i piedi duri nella melma.
Si dirige verso la bambina, che se ne sta immobile, intirizzita, sullo sgabello; la afferra, portandola al petto, senza alcuna grazia, ma con una sicurezza di belva che suggerisce tutta la forza dell’affetto. E’ un’immagine in qualche modo suggestiva. Gli abiti della donna sono fradici e le si appiccicano addosso, svelando il profilo segreto di un corpo massiccio ma rigoglioso. La osservo meglio: è bella, questa prosperosa Ester. Somiglia in tutto a un animale: sguardo crudele, arti saldi, ed un bacino prominente e discreto che dà da pensare. Riporta alla mente il senso dell’inevitabile, il bisogno della riproduzione (mera esigenza dell’istinto piuttosto che del corpo o della ragione), il principio della continuazione della specie. Quanto al resto, non saprei descriverla: l’età è indefinibile, potrebbe avere trent’anni portati molto male o cinquanta portati benissimo, e ugualmente indefinibile è la razza, pelle non meno scura di occhi e capelli, lineamenti marcati ma regolari, a delineare un insieme che dice tutto e niente.
– Il momento più pericoloso? – domando.
Mi risponde pestando con forza i piedi nel pantano.
– Non è terra buona, questa. – afferma – Viene giù come niente fosse, specie quand’è bagnata.
Impreco. Ci mancavano solo gli smottamenti! (Lontane tragedie delle quali pure avevo sentito parlare, talvolta: dati di cronaca, di quelli che tanto piacciono a gente come Behlen – “quanti morti l’ultima volta?”).
Mi scuoto: ho chiamato in causa demoni e dèi, senza pensare alla bambina, che da quando sono entrato nella sua baracca e nella sua vita non fa che fissarmi.
– Non preoccuparti… – interviene Ester – lei non può sentirti.
E’ un’altra doccia fredda: ho capito benissimo, ma forse stento a convincermene, e quindi insisto:
– Non può sentirmi?
– No. Non ci sente e non parla, dalla nascita.
– E’ tua figlia?
Ester fa un mugugno, che vuol dire “sì”; con la mano nuda afferra il cadavere irrigidito del topo e lo scaraventa fuori; poi, con la stessa mano, riavvia i capelli alla bambina e la mette a sedere sul tavolino, accanto a me.
– Il difficile viene ora. – sospira – E’ adesso che si deve riuscire a sopravvivere al tifone.
Non ho nessuna paura, merito dell’inconsapevolezza. Piuttosto rimango colpito dalla bimba sordomuta.
– Come si chiama? – domando.
– Nikla.
Bel nome, Nikla.
Con la stessa mano del topo e dei capelli della bambina, Ester apre una cassapanca: con un cenno mi invita a guardarci dentro. Sorpresa: è piena di libri. Libri vecchi e sbiaditi, malconservati, divorati dall’incuranza e dall’oblio – ma libri.
– La discarica ne è piena. – spiega Ester – Ne ho centinaia.
– E cosa te ne fai?
– Li tengo per me. Per me e per lei. – indica con un cenno la bambina.
– Li tieni per farne cosa?
– Per leggerli.
– Tu… sai leggere?
– Sì.
– E come fai a saper leggere, tu?
– L’ho imparato. – il tono si fa improvvisamente sarcastico – L’ho imparato ogni volta che lo Stato s’è preso cura di me: quand’ero all’orfanotrofio, da bambina, e in prigione.
– Sei stata in prigione?
Stavolta non ottengo risposta. Meritatamente. Ho fatto una domanda inutile (e idiota).
Eppoi Ester sta cercando di dirmi qualcos’altro. La discarica è piena di libri… avrei dovuto immaginarlo. Non è cosa da poco: tutti dovrebbero prendere coscienza del fatto che non tutto il “sapere” è stato iscatolato. Perfino il Regime salterebbe sulla sedia, se solo si rendesse conto del misfatto: (non è come si credeva) le masse non sono ignoranti. Un principio su cui sarebbe possibile fondare le radici di una oceanica ribellione.
Non so, non ricordo bene, ma credo che sia stato il Sistema a voler trasferire tutto nei computer: titanica operazione di censura culturale, colpo mortale al fatuo universo del “sapere librario” e manovra dalla geniale perversione se davvero lo scopo era sancire una netta divisione delle classi sociali. L’imperativo fu: “tutto in rete”, sicchè TUTTO fu inquadrato in uno schema di virtuali spazi conglobati; con una sola, tragica dimenticanza: le parole! Le parole, quelle scritte nei libri, da qualche parte dovevano pure essere andate a finire!
Che faccia farebbero all’Ufficio Cultura, se qualcuno dicesse loro che tutte quelle parole sono finite nei sobborghi!
– Ecco da dove venivano le “cose giuste” che l’uomo col cappottone ti ha detto. – conclude Ester, che, contrariamente a me, non ha mai perso il filo del discorso – Qui, nei sobborghi, siamo pieni di libri. E di gente che li legge. Non c’è di che meravigliarsi.
Le ultime parole si perdono in un tonfo sordo: un tuono senza eco, che fa tremare tavolino, televisore spento e pareti. Ester annaspa, ma senza paura: è scivolata nella melma; arranca per riuscire a richiudere la cassapanca coi libri.
– Ecco, ci siamo. – esclama – Dammi la mano.
Il fiume di melma si fa improvvisamente corposo, scuro, denso, insormontabile: incrosta la stradina, attaccando le molli pareti della baracca; striscia dentro rigonfiandosi viscido sulla soglia. Improvvisamente tenere la presa e riportare Ester fino al tavolino diventa un’impresa disperata. La melma fluisce compatta, lentissima; compatta e lentissima cresce fino a lambire il bordo della nostra quadrupede zattera. Ester è imprigionata fino alla vita; io sono sull’orlo di una crisi di panico, lei sorride.
– Che ti dicevo? – ripete – Il difficile viene ora!
Non c’è scampo: il fango ha reso il corpo della donna così pesante che non riesco a trattenerlo; in breve la fiumana inghiotte nel gorgo domestico della baracca anche il tavolino, che fluttua via, rovesciandosi. Mi ritrovo così schiacciato contro un improbabile muro di latta con la bambina avvinghiata addosso e la madre definitivamente perduta. E’ l’inferno, questo è l’inferno. Forse dovrei pensare che è ormai vicina la morte – e che morte! Una morte lenta e atroce, che dilania più della fretta che poco fa mi spingeva a raggiungere il Deposito Sanitario. Invece mi ostino a gridare alla salvezza. Ce la dobbiamo fare! Ester, Nikla, Sara, ce la dobbiamo fare!
E’ pura illusione: la bambina non può sentirmi, la madre non la vedo più… quanto a Sara – dio mio, Sara…
Sara…

(12-CONTINUA)