di Federica Vicino

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IV

– Il senso di disagio accentua le difficoltà di elocuzione. La colpa è un po’ di tutti noi: dovremmo riuscire a trasmettere a questa creatura maggiore sicurezza.

Disagio. D – i – s – a – g – i – o. So dirlo. Già da ieri so dirlo. E quel che è peggio: so cosa significa.
Questa dottoressa mi osserva con più freddezza degli altri. Mi guarda fisso, come se mi cercasse qualcosa dentro. Di lei ho paura; di lei che si finge mia amica, e continua ad invitarmi a parlare, ho paura.
E’ così da due giorni, ormai; da quando mi sono svegliata. Vogliono ad ogni costo che io parli: non so perchè, ma fanno di tutto perchè io parli.


– Non le starà parlando troppo in fretta, dottoressa Fenner?
– Il linguaggio si apprende in un solo modo: per imitazione. Non ci sono tecniche. Se le funzioni cerebrali del clone sono pari a quelle di un essere adulto, come ho ragione di ritenere, basterà farle osservare delle persone che parlano, e in breve sarà in grado di imitarle.

Imitazione. Tecniche. Disagio. Funzioni. Cerebrali.
Saprei dirlo, se volessi. Lei, la dottoressa Fenner, non aspetta altro. Forse ha ragione: ci riuscirei a parlare, se solo la imitassi; potrei ripetere tutta la frase. Non dovrei far altro che catturare un po’ di quella luce bianca che si è dissolta, ma continua a pesarmi sul petto, che va dentro e fuori, senza posa e senza che io riesca in alcun modo a fermarla. Quella che loro chiamano respiro. Anche questo saprei dire: “respiro”. E’ vero: se provassi riuscirei a parlare. Ma qualcosa mi trattiene. Ho paura. L’ansia dei medici mi spaventa, la loro insistenza: non chiedono altro che sentire la mia voce; dicono che sia “l’ultima fase dell’esperimento”.
“Ultima” è una parola che ho imparato quasi subito. Vuol dire che dopo non c’è più niente: l’ho scoperto ascoltando quello strano aggeggio pieno di omini colorati oltre il vetro; quello mi sta insegnando a parlare molto di più e molto meglio della dottoressa Fenner. Chi sa che faccia farebbe, la dottoressa, se glielo dicessi!
Le infermiere di notte la chiamano televisione, e stanno lì a guardarla ininterrottamente, per ore e ore. Credo lo facciano per non guardare me. Le infermiere di notte hanno paura di me; dicono che hanno l’impressione di stare a tu per tu con un cadavere che respira e le guarda.
Allora io mi domando: cos’è un cadavere? Sono io il cadavere? Io?

V

– Signor Drexter, si rende conto della portata delle notizie che lei mi sta dando?

Il tono del bastardo s’è fatto febbrile: segno che sono vicino alla meta. Segno che la storia l’ho saputa raccontare; l’ho condita di qualche ghiotto particolare scandalistico, come la mia mediocre esperienza di redattore-schiavo-factotum di redazione mi ha insegnato. Ma l’interesse manifestato è troppo e i dubbi troppo pochi: il direttore ha mollato il sigaro ed ordinato alla segretaria personale di non passargli nessuna telefonata. Ora trascina il suo lardoso addome su e giù per l’ufficio, impensierito. Molto impensierito.
La “portata delle notizie”, come lui la chiama, per me non ha alcun valore. Anzi, questo suo serioso rimuginare mi irrita e mi insospettisce. La droga mi ha fritto parte del cervello, ma non ancora abbastanza da rendermi un idiota completo: il direttore mi nasconde qualcosa.
Così scopro che non ho scampo: sono con le spalle al muro, credevo di condurre io il gioco; invece sono una pedina. Una pedina con l’acqua alla gola. Devo far venire il direttore allo scoperto, e devo farlo in fretta. Mi gioco l’unica carta che ho a disposizione; mi fingo ingenuo e distratto; mi fingo ignorante. E dico, fra me, ma a voce ben alta, perchè lui senta (e soprattutto perchè il suo cogitare monetario senta):
– Mi domando perchè accanirsi tanto sulla storia della voce.
Il direttore abbocca, e risponde:
– Non lo sa, Drexter? Le corde vocali sono uniche ed irripetibili nella mappa genetica di un essere vivente. Solo un clone può avere la stessa conformazione di un altro essere, e quindi la stessa voce.

Uno a uno.
Adesso ci guardiamo e ci capiamo. Il direttore torna a sedersi alla scrivania; la poltrona di pelle sbuffa, ma ancora di più sbuffano le sue labbra livide, segnate dal tabacco. Io mi gioco l’ultima chance: il silenzio. Non riprenderei a parlare nemmeno sotto tortura; il silenzio è uno stadio di sublime rarefazione del pensiero, nel quale personalmente vivo nel più completo agio, godendo dell’imbarazzo altrui. E’ questione di poco: nessuno sa stare in silenzio dinnanzi ad un’altra persona, e lui, il direttore, sta già cedendo.
– Ebbene, signor Drexter, lo ammetto: lei mi sta raccontando una storia che in parte già so. E non le nascondo di aver scoperto con una certa sorpresa che lei ne è al corrente.
Ora, cerchiamo di essere chiari e di venire al dunque: io ho degli indizi parziali; lei, evidentemente, ne ha altri. Dove vogliamo arrivare?

VI

Può sembrare assurdo ma proprio mentre raggiungevo l’orgasmo, ho pensato al mio clone. Ho pensato a quell’inerte duplicato del mio corpo, tenuto in vita artificialmente nel Deposito Sanitario – e mi sono domandato se sia giusto che quell’essere non arrivi mai a provare ciò che si prova nel momento in cui si possiede una donna.
Sara era silenziosa: avevo udito solo gemiti flebili flebili mentre le ero sopra; così avevo deciso di essere delicato. Delicato in tutto. Delicato anche nel momento magico. Ma così lei non aveva goduto – e me ne rammaricai. Le proposi di salirmi lei sopra. Rise. Le pareva tutto un gioco. Ed obbedì. Anche questo mi eccitava: obbediva. Faceva tutto quello che le dicevo di fare. Ricominciammo. Era minuta, e bella; e per nulla scontata, nemmeno nel fare l’amore. Per nulla volgare. Meritava qualcosa di più, meritava di essere abbracciata e stretta a me – lei, minuta e indifesa, stretta fra le mie braccia. Così l’abbracciai e la strinsi. Allora sentii qualcosa sulla spalla sinistra: la pelle si increspava improvvisamente, si faceva ruvida. Mi insospettii; toccai meglio, stavolta non con la mano, ma con le dita, con i polpastrelli.
– Cos’hai qui? – le chiesi – Una cicatrice?
Poi divenni insistente.
– Fammi vedere che cos’hai qui.
Divenni insistente perchè in realtà già sapevo; avevo intuito. Inorridivo al solo pensiero, ma avevo intuito. Le dissi di allontanarsi da me, e lei si allontanò; le dissi di voltarsi di spalle, e lei si voltò. Si fece silenziosa, ma di un altro silenzio; un silenzio diverso da quello che l’aveva accompagnata fino ad allora.
Vidi il Tatuaggio di Origine, cifra su cifra. Lo vidi ed ebbi una reazione di schifo. Mi ritrassi, inorridito. Mi sentivo improvvisamente sporco ed infetto; lei non capiva, mi interrogava con gli occhi. Non capì finchè non le soffiai in faccia, con tutta la crudeltà di cui non sapevo di essere capace:
Sei un clone.

Ecco, ecco la verità: Sara è un clone. Credevo fosse una donna, e invece è un clone. E se c’è una storia da raccontare, è da qui che dovrebbe iniziare.

VII

Oltre il vetro opaco della mia cameretta stanno bruciando i riflessi di un mezzogiorno qualsiasi, ma per me questa è una giornata speciale: oggi ho scoperto cosa sono.
Ci, elle, o, enne, e. Clone: strana parola, fra le ultime che ho imparato a ripetere, e priva di significato, per me, fino a poco fa. Adesso so anche cosa vuol dire.
Sono appena rientrata dall’ultima visita, che non è stata come le altre. La dottoressa Fenner non mi ha invitato a parlare, come fa sempre. Gli altri medici non mi hanno visitato; non mi hanno fatto stendere sul lettino, non mi hanno infilato aghi nel braccio o nella mano, nè passato i loro strani arnesi freddi sui polsi e sul petto. Ero seduta su di una sedia e ho visto qualcuno: c’era una ragazza accanto ai medici, l’ho notata subito; appena sono entrata ho sentito subito che c’era. Mi è parso di cogliere il battito del suo cuore – rimbombava. Il cuore degli altri non fa alcun rumore, il suo rimbombava. Ho sentito un fremito: avevo una gran voglia di avvicinarmi a quella ragazza, di toccarla – sentivo che con lei avrei potuto parlare! Sì, con i medici non l’ho fatto mai, ma se me l’avesse chiesto lei, avrei parlato!
Ero confusa; eppure in quella confusione ho colto quella strana parola, clone.
Adesso non riesco a pensare ad altro. Clone.
Io sono un clone. Sono il clone di quella ragazza.
Fuori faceva un gran caldo, ma qui si può pensare. La porta è chiusa a chiave, la finestra difesa da enormi sbarre; oltre il vetro ci sono le infermiere di giorno, con i loro aghi e le loro cinghie… guardano la televisione, ma ogni tanto si volgono verso di me, loro nel loro gabbiotto, io nella mia stanzetta.
Dolore. Di, o, elle, o, erre, e. Anche questa parola ho imparato. Quasi subito. L’ago nella mia mano mi provocava dolore, il giorno che mi sono svegliata; gli infermieri che mi portano ogni volta dalla dottoressa Fenner, tenendomi per le braccia, mi provocano dolore. Mi fanno male le iniezioni e le cinghie, quando me le mettono, per paura che scappi…
Ma adesso… adesso non mi fa male un bel niente, eppure lo sento, il dolore. Più forte delle altre volte.
Lo sento se ripenso alla ragazza, a come mi ha guardato: distrattamente, come se io non fossi nessuno. Ecco che cosa significa essere un clone: essere un clone significa non essere nessuno. Questo fa male; non tutto il resto. Non il fatto che abbiano deciso di riaddormentarmi, stavolta per sempre – perchè non somiglio alla mia origine. Era lei, la ragazza, la mia origine. Si chiama Sara Bestern: dicono che non somigliamo affatto, perchè io ho gli occhi verdi e lei azzurri, ma si sbagliano. Una cosa in comune ce l’abbiamo; l’ho scoperto quando le ho sentito dire:
– Avete il mio consenso: potete sopprimerla.

VIII

– Vorrebbe dire che…
– Un esperimento, signor Drexter: i medici del Deposito Sanitario hanno voluto tentare un esperimento, tutto qui. Un esperimento ai limiti della legalità, e soprattutto ai limiti della moralità, ma comunque un esperimento. Sembra che quel clone, crescendo, abbia evidenziato delle anomalie rispetto alla sua origine.
– Anomalie?
– Sì, se preferisce possiamo chiamarle differenze, ma la sostanza delle cose non cambia. Da un certo momento in poi si è notato che il clone non somigliava più alla sua origine: la signorina Sara Bestern, per l’appunto. E siccome, all’infuori del gruppo sanguigno, non c’era altro organo del corpo della sua Sara compatibile con quello della vera Sara, il Direttore Sanitario ha autorizzato i primari a risvegliare il clone per effettuare l’unica prova il cui esito sarebbe stato indiscutibile: il confronto delle voci.
– Che però non è stato fatto.
– Il medico che mi ha raccontato questa simpatica storiella, signor Drexter, non è uno qualunque; si chiama Ektor Brauler, è un giovane rianimatore del Deposito Sanitario cittadino, il migliore sul campo, a detta dei suoi colleghi. Credo che sperasse in questo esperimento per imprimere la svolta definitiva alla sua carriera – ma evidentemente qualcosa nelle ultime ore è andato storto… Tanto che l’egregio dottorino si è chiuso ora in un granitico silenzio, e minaccia querele se rendo pubblica anche solo una virgola dell’intera vicenda.
– Il confronto delle voci non è stato fatto! Non possono sopprimerla! Loro non l’hanno sentita la voce di Sara, di questo sono sicuro!
– E lei invece, signor Drexter? L’ha sentita, lei, la voce di Sara?

Dovevo aspettarmelo. Il direttore gioca sporco, e io sono così idiota da mettere in campo i sentimenti: paura, affetto, amore, non so nemmeno quali… Tutto questo mi rende vulnerabile. Dovrei essere più cinico, più astuto. Dovrei…
Gli occhietti del direttore hanno una caratteristica: non stanno mai fermi. Iride e pupilla continuano a fluttuare nel breve spazio della cornea, da destra a sinistra, da sinistra a destra, in un moto ininterrotto ed ossessivo. Questo contribuisce a rendere il personaggio tragicamente ridicolo. E ancora più ripugnante. Immagino sua moglie, o la donna che gli sta accanto – perchè un uomo così ricco e potente una donna ce l’ha di certo! Una donna ingioiellata e strafatta, che sopporta sudore e adipe purulento pur di mettere le mani, a fine mese, sulla sfilza di zeri del suo conto in banca. Questo è il frutto del pensiero fabbricasoldi: le donne hanno un intuito speciale per coglierlo; e sono capaci di dimostrargli una dedizione quasi religiosa, più forte della più forte delle tentazioni.
Immagino questo ammasso di lardo, peli e sudore scaraventato su un corpo metallico di donna; immagino la sua spinta pelvica (violentissima – la immagino così: da far ribrezzo); il suo ansimare di bestia, le urla di piacere, il coito che si perde nelle pieghe di chi sa quale corpo. E immagino il suo clone, fatto apposta per salvargli la vita ogni volta che la vita gli si rivolta contro; tirato fuori da una sua stessa cellula, quando ancora gongolava nel ventre di sua madre; un essere vivente fatto a sua immagine e somiglianza solo per porre riparo ai danni della follia umana, droga, cibi transgenici, inquinamento, stress… “A ciascuno il suo clone – in nome della vita!” – “La vittoria più importante dell’uomo sulla natura! “.
Una volta pensavo fosse giusto così. Anzi, non ci pensavo affatto. Il Senso Comune dice che va bene così, e allora va bene così. Senza stare a rimuginarci sopra: a ciascuno il suo clone, a me il mio, a Sara Bestern il suo, al direttore il suo.
“Sa qual è la differenza fra scopare e fare l’amore, direttore? – questo mi verrebbe voglia di dirgli – Io sì, io lo so. L’ho scoperto l’altra notte, quando credevo di aver rimorchiato in un bar una donna da scoparmi e invece mi sono ritrovato nel mio letto a fare l’amore con un clone!”
Strana, la vita. Prima di allora avevo sempre scopato; sempre in mezzo a un mare di insulse, inutili, insopportabili parole! In fondo è la condicio sine qua non: nella vita per riuscire a scopare bisogna chiacchierare – parlare, parlare ininterrottamente, per ore e ore, dire stupidaggini di ogni genere, svuotarsi cuore, polmoni e cervello, per riuscire finalmente anche a svuotare l’uccello. Alle donne piace così: prima si deve parlare, parlare e ancora parlare; poi si può andare a letto.
Sara mi guardava; dall’altro lato del bancone del bar. Aveva un’aria smarrita e nessuna voglia di rispondere: nè al cameriere, nè al bellimbusto che le si faceva sempre più vicino e le sussurrava nell’orecchio.
“Carina, quella! Chi è?” – sentii dire (forse ero in compagnia di qualcuno, non ricordo); un attimo dopo ce l’avevo davanti, quella. Mi guardava con un’insistenza imbarazzante: la fortuna volle che mi fossi appena imbottito di anfetamine e avessi sconfitto così la mia patologica timidezza. Questo mi permise di ricambiare lo sguardo, e subito dopo anche il sorriso. Quella era Sara.
– Ce ne andiamo da qui? – le dissi. Annuì, sempre sorridendo.

(8-CONTINUA)