di Tito Pulsinelli

dollarpart.jpgE’ ormai un segreto pubblico che i malesseri di cui è preda l’economia degli Stati Uniti non sono inquadrabili in una diagnosi di influenza stagionale. Non ci credono più nemmeno gli scrivani tanto-al-pezzo gettonati dalla catena di montaggio del totalitarismo mediatico. E’ finito il ciclo cominciato nel 1997, dopo la crisi asiatica, quando divenne una economia di rifugio per i capitali, grazie agli alti tassi di interesse e alla credibilità globale del modello USA. Allora, l’economia degli Stati Uniti attirava l’80% del risparmio mondiale, e questo costituiva la base reale della loro stabilità ed espansione. Clinton lasciò un attivo di 200 miliardi di dollari, poi sopravvenne la morte prematura della “new economy”, e cominciò il valzer necrofilico di Bush: aumento astronomico del debito, svalutazione, guerra, crescita esponenziale delle spese militari, disoccupazione, imposizione di uno stile di vita impregnato di paranoia, grettezza e blindaggio mentale.

Secondo il Boston Herald, che cita Stephen Roach, economista capo della Morgan Stanley, ora si tratta di evitare un’apocalisse finanziaria, e ci sarebbero solo 10% di probabilità di farcela.
Per finanziare il suo deficit con il mondo, gli Stati Uniti hanno bisogno di 2 miliardi e mezzo di dollari di investimenti diretti provenienti dall’estero, per ogni giorno lavorativo. E’ possibile? Molto difficile, risponde Stephen Roach.
La Riserva Federale, per attrarre capitali esteri e scuotere la stagnante economia, è costretta a svalutare ed aumentare i tassi di interesse del dollaro.
E’ un’arma a doppio filo, gravida di coseguenze negative all’interno e nel resto del mondo.
Tra i pericoli imminenti che vengono segnalati con insistenza, vi è il rischio per il mercato immobiliare che si regge su di una impalcatura dell’85% di debiti.
Molti vedono lo scoppio di una “bolla immobiliare” dietro l’angolo, visto che già non vengono più firmati contratti di vendita a tasso fisso, a vantaggio di quelli ad interesse variabile.
L’aumentato costo del denaro ripercuoterà negativamente anche sui consumi interni, basati sul debito delle “carte di credito”, usate persino per la spesa familiare settimanale. A fine novembre, senza preavviso, in alcuni casi i tassi sono raddoppiati. Il riflesso sarà una diminuzione della domanda e una botta al quasi inesistente risparmio interno.
I mantra di Greenspan dicono che anche i guru non sono onnipotenti e che le frecce al suo arco non sono infinite. Per ammortizzare l’effetto doppiamente deleterio della svalutazione programmata e dell’aumento dei tassi, potrebbe orientarsi ad aumentare l’inflazione. Questo tamponerebbe un pò le cose, ma rimane inalterato un fatto: chi perderà saranno sicuramente i creditori a lungo termine e quelli che prestano a tasso fisso.
Prima di tutti lo Stato: chi continuerà a comprare buoni del tesoro a 30 anni che rendono un modesto 4,83 %?
Non è che le cose vadano meglio in Wall Street, ormai al quarto anno consecutivo di perdite, incapace di aumentare la captazione di capitali.
La ricetta di Bush ha questi ingredienti: un prezzo più basso del costo del lavoro, meno spese sociali da parte dello Stato, meno protezione sociale agli occupati, incremento della disoccupazione e il bingo finale della privatizzazione della previdenza sociale.
Gli effetti più devastanti, però, si sentiranno al di fuori delle frontiere degli Stati Uniti.
I paesi della periferia saranno sottoposti al doppio elettroshoc della polverizzazione del valore delle riserve monetarie in dollari e, contemporaneamente, soffriranno un maggiore dissanguamento per il pagamento del debito estero.
Ne faranno le spese maggiormente quei paesi che non hanno diversificato le riserve monetarie, che non vi hanno introdotto l’euro e, soprattutto, l’oro. Sarà dura per quelli che, cedendo agli incanti del FMI, hanno spinto la licenziosità liberista fino alla rinuncia alla sovranità monetaria.
Si difenderanno meglio quelli che pervicacemente si sono aggrappati a qualche eterodossia protezionista o che non sono caduti nella trappola di firmare TLC a rotta di collo.
Sarà drammatica la situazione in Panama, Salvador ed Ecuador, micro-Stati dollarizzati dove già ora il 46% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno.
Andrà un pò meglio al Messico, Brasile e Cile che hanno rivalutato mediamente del 5% le loro monete.
Gli Stati Uniti non hanno mai fatto misteri sulla loro intenzione di “internazionalizzare” i costi del disastro. Il ministro del tesoro ha detto olimpicamente che “Il deficit del bilancio è una responsabilità da condividere a livello internazionale…”
Le spese della disastrosa guerra in Iraq, le crepe di una economia chiaramente competitiva solo negli armamenti, devono essere scaricate sul resto dei paesi, blocchi o poli geo-economici.
Chiaro, con flessibilità, con uno schema variabile, secondo l’appartenenza al Nord o al Sud del mondo.
Neppure l’Europa è al riparo degli effetti negativi della politica monetaria di Bush. Al di là delle preoccupazioni mercantili ed immediatiste, circa la difficoltà delle esportazioni, ampiamente compensate da una moneta che si è rivalutata del 30% in un biennio, vi è un dato strategico.
L’euro entra a far parte delle riserve monetarie, e le materie prime e petrolio stanno costando meno.
L’intercambio commerciale tra le due sponde dell’Atlantico è equilibrato: costitusce il 20% degli scambi globali di entrambi i blocchi.
L’Europa è vulnerabile sul fronte degli investimenti. Mentre gli USA sono presenti in Europa con il 45% dei loro investimenti esteri, l’UE ha il 60% dei propri capitali nell’economia a stelle strisciate.
Il vero problema, però, è soprattutto politico. L’Europa deve decidere se rimane il gemello siamese degli USA, unita da un patto di sangue che privilegia l’unità d’azione contro il Sud del mondo.
Oppure decide di accrescere la propria autonomia e sovranità, cioè guardare al più ampio orizzonte multipolare, accantonando l’automatica omertà mafiosa con la NATO.
Secondo il FMI, a medio termine, i danni globali della svalutazione del dollaro e dell’aumento dei tassi, potrebbero ammontare al 3,5% del prodotto Interno Lordo in Argentina, 5,8% in Cile, 14% in Malesia, 10% in Cina.
Questi dati, provenienti dall’unica istituzione internazionale a cui Washington riconosce piena legittimità, rappresentano l’ammontare della fattura che girano al mondo, e che si apprestano a mettere all’incasso.
Le cose, però, non sono così schematiche come appaiono a prima vista, nè la realtà può essere ridotta alla misura del manicheismo puritano in voga alla Casa Bianca.
La svalutazione massiccia del dollaro non cessa di essere una truffa ai danni —soprattutto- dei creditori asiatici che hanno sinora permesso agli Stati Uniti di vivere al di sopra delle proprie possibilità, esportando il 40% meno di quel che consumano.
E’ una misura di corto respiro che non oltrepassa il masochismo di determinare a breve una sicura diminuzione del flusso finanziario in entrata, indispensabile secondo Stephen Roach.
L’eventuale caduta del 10% dell’economia cinese determina una parallela — e contemporanea – riduzione del 20% della base industriale delle economie del G7, quelle che in gergo sono definite “occidentali”.
Sono già stati dimenticati gli osannati flussi migratori di capitali ed imprenditori verso l’economia delle Zone Libere da ogni giurisprudenza del lavoro e sindacati?
ll darwinismo sociale di Bush è elementare nella sua cinica brutalità: se non aumenta la ricchezza globale, allora bisogna diminuire il numero di quanti possono accedervi, sia in casa che all’estero. La via per imporre questa soluzione è quella dell’arbitrio, del potere delle armi, della tecno-guerra preventiva. In questo modo cerca di ottenere le soluzioni più vantaggiose per il controllo diretto delle materie prime, risorse energetiche e prolungamento artificiale del dollaro-centrismo.
Nella preservazione di una ONU in cui il voto dell’isola di Palau, o di qualsiasi paradiso fiscale, vale quanto quello della Germania o Indonesia.
La bufera in arrivo in tutte le latitudini, di cui la corsa all’oro e l’abbandono del dollaro come mezzo di scambio unico e l’aumento del prezzo del petrolio, sono solo i primi sintomi premonitori.
Il gioco si fa duro e, nello stesso tempo, è più comprensibile il suo schema tattico. La stabilità del dollaro dipende in gran misura dalla decisione cinese di mettere sul mercato —e con quale ritmo- i dollari della sua riserva.
Gli Stati Uniti, per ora, non se ne preoccupano affatto, ed hanno programmato un altro aumento massiccio dell’indebitamento, investendo fortemente in tecnologia bellica.
E’ chiaro, quindi, che il dollaro si reggerà sempre più sulla dissuasione militare, la minaccia della guerra e la guerra combattuta.
L’alternativa alla vista per i tutti gli altri paesi pare che sia quella di disfarsi ora delle proprie riserve, con un dollaro svalutato, o aspettare e rischiare di convertirlo quando varrà parecchio di meno. La Cina e i paesi dell’OPEC hanno tra le mani i bandoli più consistenti della matassa e —tra questi- l’Iran ha le carte più importanti da giocare.
Significativamente, le ultime crisi internazionali arrivate al punto di esplosione sono state in Sudan, dove la Cina è il primo compratore di petrolio e leader negli investimenti per l’esplorazione di nuove aree estrattive.
L’altro punto critico è l’Iran che soddisfa il 13% del fabbisogno energetico cinese ed ha ricevuto 200 miliardi di dollari per le forniture dei prossimi dieci anni (1).
Attaccare militarmente l’Iran o destabilizzarlo vistosamente, significa che —inevitabilmente- si attaccano anche i capitali investiti dall’India, Germania, Russia e Cina, che sono una sorta di polizza di assicurazione per gli ayatollah.
Vanno messe in conto, inoltre, le necessità produttive delle aziende e dei capitali emigrati in Cina, che dipendono fortemente dagli afflussi esterni di energetici, accentuati dalla carenza di elettricità che ha portato a razionamenti e interruzioni.
La partita che si è aperta è sulla tenuta del diktat con cui Nixon abolì Bretton Woods e la parità cambiaria con l’oro. Lo scontro di civilità, e le altre impertinenze retoriche della propaganda bellica, si riducono a questo: il soldato può di più del banchiere, del mercante e del produttore? (2)
In realtà, a Washington sembra che stia prevalendo una struggente nostalgia che cede al richiamo atavico degli avi, del pirata Morgan e della sua confraternita, veri padri fondatori dell’accumulazione primitiva del capitalismo anglo-sax.
Una nostalgia irrefrenabile per gli embarghi, gli assedi con le cannoniere ai porti delle città-Stato costiere, gli arrembaggi, i saccheggi e le monete di paccottiglia “courrency board”. Insomma, le avventure virili permeate dallo “spirito della frontiera” che, disgraziatamente, ormai si è estesa dilatandosi a tutto il mondo terracqueo. Compreso gli abissi marini e lo spazio siderale.
Il sospetto che la carne sulla graticola possa essere troppa, è ben lontano dalle menti che hanno partorito l’ultima delle ideologie residuali, quella dei neocons e del miraggio della Nuova Roma.

Tito Pulsinelli, autore di questa analisi che abbiamo ripreso da SELVAS.ORG, è collaboratore di Radio Onda d’URTO di Brescia e vive in Venezuela.

Note.
(1) Asia Time, 6/11/2004
(2) Si può trovare qualche risposta all’enigma in un libro di Samuel Huntington, “Il soldato e lo Stato”, pubblicato nel 1957.