VESTITI PER UCCIDERE

di Danilo Arona

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Ci sono fatti di cronaca che sembrano scritti da sceneggiatori di film horror. Altri che sostano sul confine dell’inspiegabile, quasi sospesi fra due mondi, uno solo dei quali visibile ai nostri occhi. Così è la cronaca di un delitto, avvenuto a Roma pochi anni fa nel quartiere di Nuovo Salario. Pensate: un uomo di 73 anni che aspetta all’uscita del suo studio lo psichiatra che lo ha in cura, travestito da donna, con parrucca e gonna nera, armato di pistola e lo uccide insieme alla signora che lo accompagna, dopo averla inseguita in un negozio in cui si era rifugiata. Un tizio che, solo sulla base di queste modalità omicide, altro non potrebbe essere che un folle.


Ma anche la vittima sembra appartenere al regno dei diversi: un originalissimo psichiatra novantenne, quasi cieco, docente di biopsicopatologia e che dirige un istituto privato dove si curano Aids e cancro con il magnetismo. Tra i due, inutile far finta di non accorgersene, c’è un’opposizione/attrazione che regala a tutta la vicenda un sapore “magico”. Oppure grottesco, dipende da chi guarda.
Cesare Frattazzi, l’anziano uomo che spara al suo medico curante, Emilio Dido, lo accusa da molti mesi di essere la causa della sua malattia e di avergli prosciugato il conto in banca per far finta di guarirlo. Tutti i giornali, all’epoca dei fatti, sottolineano che, pur non essendo più una novità, la follìa abita — e continua ad abitare — in mezzo a noi. Pochi, però, per fretta o per non stare a sottilizzare, ricordano che il termine “follìa” non ha più alcun corso nel linguaggio medico (de iure, aggiungerebbe una avvocato), ma trova ormai il suo senso solo più in contesto antropologico, filosofico e letterario. Dato che la malattia mentale non la si può dedurre più dagli esami clinici o di laboratorio, come dimostrano le più recenti scuole di psichiatria, ecco che il vocabolo-titolo (Patrick McGrath) diventa solo più un’ipotesi o un giudizio. E la diagnosi è affidata ai “sintomi”, a partire dai comportamenti cosiddetti “tipici” o “devianti”. I paradossi risultano evidenti: sulla base di una presunta prevenzione che non è affidata ad alcuno (ma poi chi controllerebbe chi?), non esiste in realtà nessun vero discorso di prevenzione, e la cronaca nera ce lo conferma quotidianamente. Nel caso Dido/Frattazzi, però, non sembrerebbero sussistere dubbi: la premeditazione, il travestitismo, la crudeltà, l’accanimento paiono proprio quelli della “follìa”. Se non fosse che la vicenda, per alcuni suoi particolari — compresa la vendita ai passanti di un certo numero di santini di Padre Pio prima dell’inizio della mattanza -, ricorda più un rito magico conclusosi con un sacrificio rituale, dove lo psichiatra curante, nella visione del paziente, è uno stregone dotato di poteri soprannaturali in grado di guarire ma anche di provocare malattie incurabili.
Così, in questa veste primitiva, da pensiero magico saldamente radicato nelle infrastrutture mentali delle masse nel terzo millennio, con influssi a distanza e guerre psichiche stregonesche, ci si può illudere di spiegare anche l’incomprensibile. Qualche giornalista pure lo ricordò ai tempi: la tendenza naturale di noi tutti è quella di espungere i fatti della follìa dal nostro orizzonte, a trasformarli in malattie, cioé l’attribuire loro dei nomi e delle sintomatologie, e magari delle cure. Ma giustamente si rammentò quanto diceva Basaglia al proposito, ovvero che “la follìa può essere tutto o niente, perché è una condizione umana, che esiste ed è presente in noi tanto quanto la ragione”.
Allora, facciamocene una ragione: ci troviamo in quella zona franca e buia dove tutto può essere, una “interzona” che siamo soliti scartare, perché, come scriveva Oscar Wilde ne Il ritratto di Dorian Gray, è proprio nella mente umana che avvengono quelli che, una volta concretizzati, appaiono come i più grandi e crudeli peccati del mondo. E tornano alla mente molti altri delitti, mai veramente spiegati, se non — appunto — con il paravento linguistico della “follìa”. Molti degli omicidi attribuiti al serial killer dei treni, Donato Bilancia. L’uccisione di una ragazza in Puglia che si chiamava Nadia, strangolata senza motivazioni (se non quella di un fantasma apparso in sogno!) dalle sue più care amiche. O il delitto di Cogne, ancora troppo lontano dalla razionalità della gente comune. O le irregolari sequenze della madre di tutti i misteri italiani, ovvero la vicenda del cosiddetto “mostro di Firenze”. Sembrano proprio, tutti quanti, dei “cerimoniali magici” che si concludono con un sacrificio rituale.
Il Nuovo Salario non è Bassavilla, ne convengo. Ma in posti di pianura, da “gotico padano” per intenderci, linfa e serbatoio di un genere letterario borderline tra il nero di provincia e il thriller rosso sangue, l’incomprensibile non è veramente tale. In qualche modo secoli di oscure ritualità che occhieggiano nella cronaca di ogni giorno (fateci caso, leggete fra le righe) hanno creato un callo. Nelle terre di Unabomber, anni fa, un ventenne sciagurato, assieme a due suoi amici sciroccati, uccise per soldi i genitori. Si chiamava, e si chiama ancora, Pietro Maso, e divenne persino nel delirio mediatico dell’epoca un modello da imitare, cui spedire dichiarazioni d’amore. Maso e i suoi accoliti, se qualcuno se lo ricorda, si “vestirono per uccidere”, con maschere da demoni e altri ammennicoli da film horror di serie Z. All’apparenza per simulare la rapina da parte di sconosciuti. Ma, nella sostanza, dato che non dovevano fare prigionieri, per indossare la “divisa” più congrua.
Allora, senza che si debbano tirare in ballo per certi fatti di cronaca spiegazioni sensazionalistiche e posticce (una per tutte, le sette sataniche), forse non è azzardato ipotizzare che il ritualismo omicida, grazie al quale ci si veste per sparare o sgozzare, sia già scritto da migliaia di anni nel DNA umano. Scrive l’evoluzionista britannico Richard Dawkins che il gene, dal brodo primordiale, è sopravvissuto passando attraverso un gran numero di corpi individuali successivi, conservando tracce di vite antichissime, dove il rito della morte violenta si celebrava quotidianamente per quietare l’ira degli Dei e della natura.
Questi geni vivono in noi. Ci hanno creato, corpo e mente. Ragione e follìa.