heckel.jpg di W.J. Maryson
(tr. Riccardo Valla)

La città-stato di Eurwest.
Dopo la Grande e Nuovissima York, è la più estesa e più importante nazione del mondo. Con una popolazione di novecento milioni. Non novecento milioni e uno, o ottocento novantanove milioni novecento novantanove mila novecento novantanove. No, esattamente novecento milioni di persone stipate in un’area chiusa da cordoni di nano-laser, dove quattrocento anni addietro — prima della Legge delle Quote — si stendevano nazioni come la Germania, la Francia, il Lussemburgo, il Belgio e i Paesi Bassi. Con regioni e centri come la Grande Parigi, Berlino, Nuova Francoforte, Città Fiandre e Delta Olanda Ovest. Siamo nell’anno 2443. Il mondo è dominato dalla Quota, un complesso sistema affidato all’esecuzione e al controllo dei nanocomputer, che collega il valore della moneta, l’euro, alla curva dell’individuo, costituita dai suoi risultati economici e dal suo valore sociale complessivo.

La Quota ha lo scopo di mantenere esattamente al livello stabilito la popolazione mondiale. Se — nel giorno del suo compleanno — la curva di una persona si abbassa fino a quella della moneta, la persona viene messa a morte e compressa fino a farne un mattone che poi è aggiunto al Palazzo dell’Umanità: una struttura sempre più grande, collocata ai margini meridionali di Eurwest, nei pressi del confine con il libero stato di Ostreich-Schweiz, celata alla vista da una parete alta quasi un miglio e spessa dieci metri. Così almeno è scritto nelle Cronache delle Città-stato, di cui ciascuna persona riceve una copia cartacea, alla maniera antica, e che si può consultare mediante la propria console personale per conoscere i successivi aggiornamenti.

*

Era l’Anno del Grifone, il Mese della Beccaccia, il Giorno del Ragno Alfa-alfa. Cencom il computer che monitorava e controllava Eurwest, aveva deciso che questa forma era più accettabile di 03/05/2443.
Una cappa di nubi scure copriva la piazza davanti al Ministero delle Quote. Grosse gocce di pioggia colpivano i ciottoli grigi della pavimentazione, facendoli assomigliare al corpo lucido dei pesci morti. Laggiù, nel cuore dell’antica Parigi, un tempo si stendeva la Place de la Concorde. Gli antichi ciottoli e le facciate di mattoni degli edifici ministeriali mantenevano ancora in vita una parte del mito della vecchia e romantica città. La pioggia aveva allontanato dall’antica piazza la maggior parte degli abituali frequentatori, ma Laïra sapeva di non potersi allontanare di lì, non quel giorno. Si affrettò a raggiungere il palazzo. “La vita è denaro” diceva la facciata digitale, alta come l’originale, ma nel guardare l’ingresso, Laïra trasformò mentalmente il messaggio in “La morte è denaro”. Guardò nuovamente la facciata, ma il testo era cambiato: “Essere riguarda i mattoni viventi di Eurwest, non essere quelli morti del Palazzo”.
— Tutto andrà bene — le aveva assicurato Hinrik, il suo marito a contratto, quella mattina, per cercare di farle coraggio, ma Laïra aveva controllato i propri conti e oggi temeva che l’equilibrio della sua quota pendesse dalla parte sbagliata.
— Lo scorso anno ho ricevuto il secondo avvertimento — gli aveva risposto. Hinrik aveva scosso la testa con decisione, ma nella profondità dei suoi occhi, dietro il suo sguardo benevolo come sempre, Laïra aveva letto i dubbi e la leggera preoccupazione.
— Ho controllato il tuo sedile — le aveva detto all’improvviso, con una strana luce negli occhi quasi neri, dietro gli occhiali all’antica. Hinrik lavorava come nano-tecnico al Ministero delle Quote ed era responsabile del corretto funzionamento dei sedili della Quota. Naturalmente, lui e i suoi colleghi erano costantemente sotto controllo. Di conseguenza, a quanto ne sapeva lo stesso Hinrik, l’ultima irregolarità risaliva a settant’anni addietro.
Hinrik aveva mormorato: — Buona fortuna, amore — per poi darle un rapido bacio sulle labbra. Per qualche tempo, Laïra aveva pensato a quelle strane parole. Con l’occhio della mente l’aveva immaginato mentre fissava il suo sedile. A che cosa aveva pensato? Sapeva che probabilmente lei sarebbe morta, quella volta? Aveva compreso che si avvicinava a grandi passi il suo momento di essere-non essere?
Laïra entrò e appoggiò il pollice alla superficie dell’identity detector, in modo che potesse controllare sia la sua impronta digitale sia il suo DNA.
— Ana Laïra Jermina von Fuchs. Novemila, settecento e quindici giorni, tre ore, dodici minuti e sedici secondi — riferì il computer. — Palco otto-tre-tre, sedile due-quattro.
Laïra salì sul trasportatore che doveva condurla al suo sedile. Veniva trascinata al suo destino, lentamente ma inevitabilmente. Nella sua mente lo spazio vuoto che era il suo futuro si trasformò in una distesa di buio.
Il suo palco dell’arena era già pieno per tre quarti. La Ruota delle Quote stava ormai girando a tutta velocità, come in ogni altro momento, giorno o notte che fosse. Il palco 833 sarebbe stato esaminato entro mezz’ora. Laïra notò che le persone vicino a lei sembravano tranquille. Si comportavano come se il compleanno fosse un avvenimento di scarsa importanza, qualcosa di necessario ma non preoccupante, come l’appuntamento con il dentista. Dai loro movimenti trapelava la sicurezza delle persone che avevano un futuro. Laïra si spostò dalla fronte abbronzata e madida di sudore i capelli neri e ondulati. Con i suoi occhi verdi, osservò in fretta i compagni. Aveva i muscoli tesi, rigidi, e sentiva avvicinarsi un feroce mal di testa, ineluttabile come uno schiacciasassi.
— Ah, Laïra, siamo di nuovo al giorno fatidico.
Scorse una faccia pallida e sorridente. Era Smeet, nato lo stesso giorno di Laïra e suo vicino all’interno del palco. Smeet era un quarantenne obeso che trasudava la fastidiosa sicurezza di coloro che sapevano come la loro quota fosse ben al di sopra del tasso di conversione della moneta. Come lei sapeva, era un nano-biologo e aveva pubblicato alcuni articoli molto noti e assai apprezzati. Le sfiorò le dita, con la mano straordinariamente minuta; lei, con riluttanza, lasciò che le stringesse la mano sottile e sudata. Sorpreso, Smeet la guardò. — Nervosa?
Laïra avrebbe voluto negare, ma sentì se stessa rispondere con un roco: “Sì”.
— Ma perché mai? — chiese Smeet, sinceramente sorpreso. — Lei è un’attrice giovane e promettente. La conoscono in tutto l’Eurwest e lo scorso mese ha recitato in alcune parti importanti. Il satellite l’ha resa famosa, persino negli stati al di là dell’Oceano.
— La fama non aggiunge molti punti alla mia quota — rispose Laïra. Stranamente, il suo nervosismo parve ritirarsi nello sfondo. — Nelle altre aree non ho fatto alcun progresso. Molti attori hanno un basso punteggio in valori di economia e coordinazione come l’efficienza e temo che il mio equilibrio emotivo sia crollato nelle ultime settimane. Per non parlare delle mie capacità empatiche.
Smeet aggrottò la fronte, preoccupato.
— Non pensavo che se la passasse così male. Ha un buon contratto?
Si riferiva al matrimonio con Hinrik, ma non attese la risposta; mormorò: — Comunque, può darsi che la situazione non sia brutta come lei teme.
— Penso proprio di sì, invece — rispose Laïra, più bruscamente di quanto non avesse voluto. — Ho già ricevuto due av…
S’interruppe bruscamente. Riferire i particolari della propria quota poteva costare una multa di parecchi punti. Ma dallo sguardo di Smeet comprese che l’uomo aveva capito.
— L’arena è un rifugio — si affrettò a dire l’uomo. — La nostra quota non cambia per le cose che si dicono qui dentro.
— Palco otto-tre-due — li avvertì il computer. — Trenta secondi.
Cento persone presero posto, nel palco accanto al loro, e si collegarono alla console mediante i sottili nano-elettrodi. Gli anelli di metallo si chiusero attorno al loro polso, con uno scatto secco. Qui e là, Laïra scorse occhi che battevano rapidamente, mani che tremavano e movimenti carichi di nervosismo. Evidentemente non era la sola, nella grande arena, a sentirsi insicura.
Un gong di bronzo echeggiò nella sala. La voce del computer cominciò a leggere le curve delle persone sedute nel palco 832. Gran parte dei presenti raggiungeva senza difficoltà la propria quota. A metà dell’elenco, un uomo sui sessant’anni, che l’anno precedente aveva ricevuto un secondo avvertimento, raggiunse un tasso di scambio che era solo quattro decimi al di sopra dell’euro. Quando il display numerico della Ruota si fermò, appena al di sopra del tasso dell’euro, Laïra vide che le nocche dell’uomo diventavano bianche e che tremava.
— Accidenti, c’è mancato poco — commentò Smeet. Aveva la faccia rossa; evidentemente, quel giorno sperava di assistere a un’esecuzione. Nel vedere tanta eccitazione, anche Laïra sentì correre nelle vene un fiotto di adrenalina. Si sollevò in punta di piedi e studiò, sui monitor dei loro computer, le curve degli occupanti del palco 832. Due altri, rispettivamente nei sedili 85 e 97, avevano ricevuto un secondo avviso.
Uno dei due era un uomo magro, di non più di trentacinque anni, l’altra una donna alta sui sessanta. L’uomo pareva indifferente, come se nulla di quanto accadeva attorno a lui lo sfiorasse davvero, mentre la donna era immobile nel sedile e fissava il computer. Poi Smeet passò davanti a Laïra e le impedì di vedere l’altro palco.
— Si è mai chiesta perché le quote non sono applicate all’inizio dell’esistenza?
Laïra si sporse di lato per guardare l’occupante del sedile 85, ma Smeet si spostò con lei. La donna ne aveva già discusso con Hinrik, ripetutamente. Per l’ennesima volta, si accorse di non avere un’opinione propria su quegli argomenti. Per formarsela, attendeva sempre di avere ulteriori informazioni.
— Per secoli, la gioventù è sempre stata favorita — rispose meccanicamente. — Il governo ha scelto di insegnare la libertà all’inizio della vita e la regolatezza alla fine. Io concordo.
Aveva fatto riferimento ai discorsi con Hinrik; solo dopo avere parlato si accorse di avere semplicemente citato l’opinione del marito.
Smeet annuì, con aria pensosa.
— Un’opinione legittima — commentò. — Io ne ho una diversa. Il problema sta nel fatto che l’inizio ha luogo senza la nostra consapevolezza, e la fine quando ne siamo pienamente coscienti, con tutta la sofferenza che s’accompagna a essa…
Sottolineò con brevi, decisi movimenti della mano quelle parole.
— …anche se il momento è breve.
Laïra lo guardò con una leggera ammirazione. L’uomo aveva ovviamente riflettuto a lungo su quei problemi e si era formato una propria opinione. Lei non era mai arrivata a tanto, perché sapeva e — cosa ancor più importante — sentiva che i pro e i contro, quando c’era da prendere quella decisione, erano infiniti. Parole come “risoluzione” e “coraggio” le comparvero nella mente, ma erano irraggiungibili come fantasmi.
— Il momento dell’essere-non essere richiede ben più di un istante — osservò. S’irritò lei per prima nell’udire il tono consolatorio della propria voce.
— Le mie opinioni poco ortodosse mi costano già molti punti — proseguiva Smeet, come se non l’avesse udita. — Devo lavorare molto duramente per compensarle.
Con sorpresa, Laïra comprese che Smeet era vicino al tasso, molto più di quanto non avesse pensato. Negli anni precedenti era troppo preoccupata per sé e non aveva badato ai risultati dei suoi compagni di palco. Curiosamente, il pensiero la consolò un poco. L’uomo era nella sua stessa situazione! Ancora una volta rimpianse non poter vedere dalla propria console le curve dei compagni. A volte, quando una curva era scesa troppo bruscamente, l’esecuzione si effettuava subito, senza un primo e un secondo avviso. A quanto ne sapeva lei, Smeet non ne aveva ancora ricevuto nessuno.
L’uomo continuò a parlare, in tono distaccato e sognante.
— Inoltre, i miei dubbi sulla reale esistenza di un Palazzo dell’Umanità mi sono costati una buona quantità di punti. A volte penso addirittura…
— Sedile otto-quattro — annunciò il computer. Laïra si spostò per spiare nel palco vicino. Anche Smeet smise di parlare e si voltò. La giovane donna che era valutata in quel momento si guardò attorno con aria di sfida. La sua curva saliva ben al di sopra dell’attuale tasso di scambio, formava una bella linea ascendente. Era destinata a una lunga vita. L’uomo del sedile 85 fissava davanti a sé.
— Sedile otto-cinque.
— Attenta — disse Smeet, che ansimava leggermente. — Forse c’è un’…
Anch’egli si fermò prima di dire che l’uomo era minacciosamente vicino a un essere-non essere.
Comparvero i singoli valori dell’uomo. Lentamente, ma con certezza, si comprese che l’uomo era pericolosamente vicino alla morte. La voce del computer proseguiva: — Equilibrio emotivo 38,435, contenuto comunicativo 59,161, coordinazione 67,320…
— Gli occorre almeno un 80 di efficienza — sussurrò Smeet. Anche l’uomo lo sapeva. S’irrigidì e premette la schiena contro la spalliera.
— Efficienza…
Dalle labbra di Smeet uscì un gemito.
— …73,266.
Era passato solo un secondo, prima che il numero venisse letto, ma Laïra ebbe l’impressione che ne fossero passati dieci.
— Esecuzione.
Gli occhi dell’uomo parevano voler uscire dalle orbite. Dalla sua console si levò una nota acuta.
A Laïra, tutt’a un tratto, tornò in mente una frase che le aveva detto Hinrik. Qualcosa sul fatto che era l’anno del do diesis. — Di conseguenza i mattoni dell’Anno del Grifone sono collocati nei punti più alti del Palazzo — aveva detto. A quel tempo, lei non aveva dato molta importanza alle parole, perché non aveva compreso che rapporto ci fosse tra il Palazzo e le note musicali.
Le dita dell’uomo cercarono di afferrare i nano-elettrodi. La sua disperazione trovò una via di uscita, la sua gola emise un urlo primordiale che terminò all’improvviso.
I nano-elettrodi si arroventarono. La pelle dell’uomo divenne bianca come calce, mentre tutto il sangue veniva estratto dal suo corpo. Il suo cranio implose, il sedile si ritirò e il corpo privo di vita sparì sotto il pavimento, fuori della vista.
Un’onda di mormorii eccitati corse per l’arena.
— Accidenti! — ansimò Smeet. — Tutte le volte mi fa questo effetto.
Gli occhi gli brillavano.
Laïra non guardava. Era come radicata al pavimento, aveva serrato gli occhi. Non era riuscita a guardare.
— Un cuore pauroso muore di mille morti, prima di infine morire a sua volta.
Laïra spalancò gli occhi e vide la donna accanto a lei, che aveva sussurrato le sagge parole un tempo scritte dal poeta cittadino Birlem, pronunciandole in modo che le potesse udire soltanto lei. Il battito del suo cuore tornò più normale. Ringraziò la donna, con un breve cenno della testa.
Poi il suo sguardo corse lungo il palco. Tutti erano presenti, eccetto una persona. Laïra non ricordava chi mancasse. Più o meno consapevolmente, cercava di occupare il cervello con pensieri vacui e futili.
Nel palco vicino al loro, la donna del sedile 97 superò con un ragionevole margine la propria quota.
— Palco otto-tre-tre — giunse l’annuncio. — Trenta secondi.
La voce del computer entrò nella mente di Laïra come la lama di un coltello. Rigidamente, si accostò al sedile e collegò i nano-elettrodi. Le manette si chiusero attorno ai polsi con uno scatto irrevocabile. Cercò di occupare la mente con pensieri futili, innocenti. Dal fondo della sua console, notò, usciva un sottile filo rosso, che faceva una spira e poi spariva nella colonna tra la console e il pavimento. Curioso; non l’aveva mai notato.
Suonò il gong e la voce del computer cominciò a leggere le curve del sedile numero 1. Tutti i suoi compagni di palco erano abbastanza lontani dal tasso corrente. Quando giunse il turno di Smeet, Laïra si accorse a malapena che riceveva il primo avviso.
— Sedile due-quattro.
I suoi muscoli erano tesi come corde. Serrò gli occhi e cercò di non ascoltare l’enumerazione dei propri valori. All’inizio ne fu capace, ma infine i numeri riuscirono a entrare nella sua mente, come virus dell’udito.
— Ambizione 42,558.
Molto meno dell’anno precedente. Cominciava ad andare male. Sentì i rivoletti di sudore scendere lungo la fronte alla ricerca degli occhi.
— Equilibrio emotivo 33,310.
Una perdita di più di dieci punti!
— Contenuto comunicativo 64,927.
Be’, questo era leggermente salito.
— Coordinazione 65,531.
Praticamente identica. Cercò di ricordare quanta efficienza le occorresse. Circa 73, le parve.
— Efficienza…
Che il tempo si fosse rallentato? Le sembrava che la voce non arrivasse mai.
— …71,879.
Insufficiente!
— Esecuzione.
Un odore bruciante le ferì le nari. Si aspettava che il sangue le venisse aspirato dal corpo e, tutto all’improvviso, provò una stranissima calma. Nello stesso istante di durata infinita, vide arroventarsi il sottile filo rosso.
Perché non succedeva nulla?
Poi la botola sotto il suo sedile si aprì e Laïra si sentì cadere. Lontano, udì che qualcuno si lasciava sfuggire un grido di sorpresa.
Che fosse Smeet?
Era ancora viva! Come era possibile? Lentamente, aprì gli occhi. Il suo sedile scivolava lungo una guida, in un corridoio buio. In lontananza, su uno sfondo di luce verde, si scorgevano altri sedili, tutti occupati da corpi privi di vita. Cercò di immaginare che cosa sarebbe successo, ora. Le manette continuavano a impedirle i movimenti. Dove venivano disintegrati, quei corpi, e ridotti in mattoni? Solo ora, infine, il terrore irruppe come un’onda di marea e sfondò la sua parete subconscia di difesa. L’avrebbero schiacciata viva!
Urtò leggermente contro il sedile davanti al suo, quello dell’uomo numero 85 del palco 832. Venivano trasportati lentamente verso una sala dove si scorgeva una piattaforma piena di macchinari lucenti; laggiù un uomo in tuta bianca controllava i sedili.
Che fare? Provò a sforzare le manette, ma i cerchi di acciaio non si mossero.
L’uomo ispezionò il sedile davanti a lei e passò oltre. Poi il suo sguardo incontrò quello di Laïra; fece un passo verso di lei, in fretta.
— Hinrik? — esclamò lei, con voce stridula. Non credeva ai suoi occhi.
Il marito prese di tasca un piccolo strumento nero e lo accostò ai cerchi di metallo, che si aprirono con uno scatto. Poi sganciò i nano-elettrodi.
— Vieni via, in fretta — le disse, in un soffio.
Gli avvenimenti si susseguivano troppo in fretta. Laïra non aveva il tempo di capire che cosa stesse succedendo. Pensava solo al filo rosso che aveva visto arroventarsi: doveva essere opera di Hinrik.
Si alzò dal sedile come se fosse un robo. Aveva i muscoli indolenziti, ma non prestò attenzione al dolore. Hinrik sparì entro una nicchia e fece ritorno con il corpo senza vita di una donna. Aveva una faccia nota e all’improvviso Laïra la riconobbe: era la donna che mancava dal palco! Hinrik collocò il cadavere sul sedile di Laïra; con uno scatto, le manette si chiusero attorno ai polsi e il sedile proseguì lungo la rotaia.
Poi Hinrik prese Laïra per il braccio e la portò nella nicchia. Appena in tempo, perché dall’altra parte della piattaforma giungeva una seconda figura vestita di bianco. Hinrik si portò alle labbra l’indice destro. Dietro lo specchio dei suoi occhi, lei lesse tutta una costellazione di emozioni: paura, speranza, soddisfazione e collera.
Dopo qualche tempo, Hinrik si voltò a guardare dietro l’angolo.
— È sparito — annunciò. — Vieni con me.
Lei avrebbe avuto un’infinità di domande, ma Hinrik accostò la mano alla sua bocca.
— Non dire nulla finché non ti avvertirò che possiamo parlare senza pericolo. —
Nelle ore successive attraversarono porte, corridoi, spazi di lavoro e alla fine una sala immensa dove i corpi dei morti venivano disintegrati e compressi a formare mattoni. Videro alcuni controllori dal camice bianco, ma riuscirono a non farsi scorgere.
I mattoni rossi erano sollevati da una gru e caricati in capsule aperte in alto. Si chiudevano automaticamente e viaggiavano verso una galleria.
— Qui c’è la nostra sola possibilità di salvezza — sussurrò Hinrik, con la voce roca. S’infilò sotto la gru e cominciò a svuotare una delle capsule.
— In fretta, entra dentro. Cerca di respirare con la maggiore calma possibile. Dovremmo avere aria sufficiente a raggiungere il Palazzo. Io sarò nella capsula dietro la tua. Non farti spaventare dalle accelerazioni.
Lei cercò di rendersi piccola piccola e di controllare il respiro. Dopo qualche scossa in avanti, l’aggancio della capsula scattò; Laïra si accorse di un movimento. Passò qualche tempo e l’accelerazione cominciò a premere sul suo corpo. Sentì montare il panico. Con un estremo sforzo di volontà riuscì a vincere la paura. Un successo che le avrebbe fatto ottenere parecchi punti di autocontrollo, lassù, si disse. Avrebbe voluto sorridere, ma l’accelerazione stava ancora aumentando e non glielo permise. Il tempo perse ogni significato. Laïra pensò che la capsula, probabilmente, aveva raggiunto la velocità massima. Cercò di svuotare la mente e si concentrò sulla respirazione. Nonostante gli sforzi, però, si sentì pian piano scivolare nell’incoscienza.

*

— Laïra!
Hinrik le parlava all’orecchio, a bassa voce, seccamente. La prese per il braccio e la aiutò a uscire dalla capsula. — Mi fai male — lei riuscì a dire.
— Siamo stati scoperti — rispose il marito.
Lei si guardò attorno; era ancora stordita. Si trovavano in un’ampia sala, molto simile a quella da cui erano partiti. Poi echeggiarono alcune voci brusche.
— Fermatevi! Siete in un luogo vietato. —
Tre uomini in tuta bianca correvano rigidamente verso di loro: robi. Hinrik trascinò Laïra fino a una doppia porta, dalle cui fessure giungeva una debole luce. La porta si aprì — i pannelli scivolarono di lato — e i due fuggitivi corsero verso un’alta rampa di scale che portava alla luce del giorno.
Quando furono in cima agli scalini, dovettero battere gli occhi, abbagliati da una forte luce a cui non erano abituati. Un enorme edificio rosso, ricchissimo di particolari, bloccava loro il cammino; dovettero fermarsi. Di lato, al di là della folla in movimento, si scorgevano le cime delle Alpi.
— Il Palazzo dell’Umanità — mormorò Laïra, sopraffatta da un’emozione che non avrebbe saputo definire. Allora, esisteva davvero.
— Verstummte Musik — musica silenziosa, sospirò Hinrik, altrettanto colpito da quella vista. Abbassò rispettosamente la voce. — “Il Palazzo si manifesterà come verstummte Musik, ogni nota silenziosa una vita, ogni armonia non suonata una famiglia, ogni partitura soppressa una nazione.” —
Erano parole di Joachim von Schöppen, padre spirituale delle Leggi della Quota, inventore e fondatore del Palazzo.
Le statue barocche, i tendaggi, i ponti, le finestre ad arco, le mensole e le complicate decorazioni che costituivano le torri e gli edifici centrali non si lasciavano cogliere in una singola occhiata. A Laïra tornò in mente l’immagine di un’antica cattedrale che aveva visto un tempo. Le tornò in mente anche il nome della struttura, la Sagrada Familia, che sorgeva in qualche punto del Sud dell’antica Europa. Il Palazzo, bagnato dalla luce del sole, era grande come cento Sagrada Familia, dieci volte più alto e mille volte più complesso. E ogni giorno se ne aggiungeva un pezzo.
— Milioni di vite — mormorò Hinrik. Laïra si voltò verso di lui e vide le lacrime del suo salvatore e marito.
Involontariamente, anche nei suoi occhi brillò una lacrima. Quando si accorse che si erano fermati, Laïra si voltò a guardarsi alle spalle, spaventata. Con stupore notò che i loro inseguitori erano scomparsi. Anche Hinrik staccò lo sguardo dalla struttura e si osservò alle spalle. Annuì tra sé, come se i suoi sospetti avessero avuto conferma.
— Questa zona è proibita — mormorò, con un nodo alla gola.
— Puoi ben dirlo — confermò una voce dolce.
Quando si voltarono da quella parte, scorsero una donna anziana. Aveva occhi di un verde profondo, faccia dai lineamenti regolari, piena di rughe. Aveva la pelle quasi trasparente; un tempo doveva essere molto bella. Indossava una lunga veste di seta verde; fece segno di avvicinarsi, con una mano dalle dita sottili. — Venite, vi mostro il mio Palazzo.
Si voltò, senza attendere la risposta, e li precedette; il suo passo era ancora straordinariamente leggero.
Hinrik e Laïra la seguirono.
— Il suo Palazzo? — chiese Laïra, leggermente sorpresa.
La donna si strinse nelle spalle e rispose senza rallentare il cammino: — Quando passi settant’anni da sola in una struttura come questa, cominci a pensare di esserne la padrona. Inoltre, il mio titolo ufficiale è Custode del Palazzo dell’Umanità.
Si avviò lungo un sentiero coperto di lastre di pietra che portava a una piccola porta, in alto.
— Il peggio di tutto sono le notti — confessò all’improvviso, mentre apriva la porta ed entrava.
All’interno c’era un leggero odore di legna che bruciava. La donna parve dare per inteso che Laïra e Hinrik avessero capito.
— Negli ultimi anni è diventato ancor più difficile — continuò lei. — I ritratti delle persone che amavo sono sbiaditi nella mia mente. La sola cosa che mi resta sono i miei lineamenti allo specchio, sempre più affilati; ogni giorno vedo avanzare la vecchiaia sul campo di battaglia della mia pelle.
Laïra aveva l’impressione di udire una musica in lontananza, una complessa composizione di armonie, ma il suono non superava la soglia della sua percezione. In una sala grande come l’arena, Laïra e Hinrik sedettero a un tavolo lungo venti metri e largo due. La donna aprì uno stipetto, prese due bicchieri e versò un liquido rosso da una bottiglia verde e sottile.
— Vino — spiegò. — I robi sono coltivatori eccellenti, le valli delle Alpi sono molto adatte alla coltivazione della vite. Tra l’altro, io sono Eleonyra. Sono fuggita da Eurwest nel 2373. Di tanto in tanto, qualcuno sfugge alla Ruota delle Quote. Naturalmente, sanno che siete fuggiti. Questo significa che nei prossimi anni nessuno riuscirà a uscire.
Si alzò e mosse il braccio, come per indicare tutto ciò che li circondava.
— Uno di voi sarà il padrone di tutto questo.
Laïra e Hinrik la guardarono stupefatti.
— Solo uno di noi? — chiese infine Hinrik.
Eleonyra gli rivolse un cenno d’assenso.
— Così ha stabilito von Schöppen. Domani io lascerò il Palazzo e uno di voi prenderà il mio posto come suo abitante, come Custode del Palazzo dell’Umanità. Questa notte potrete decidere chi rimarrà.
— E l’altro? — chiese Hinrik.
Eleonyra non rispose immediatamente.
— Morrà — disse infine, in tono privo di emozione. — Uscirà dalla porta nera. — Indicò una porta stretta, accanto allo stipo dei liquori. — Per fortuna i robi aiutano a porre termine alla vita senza inutili sofferenze.
Laïra si stupì di riuscire ad accettare quelle parole. Forse la successione di emozioni da lei attraversata in quel giorno — il giorno del suo compleanno! — l’aveva resa insensibile.
Eleonyra offerse loro una cena straordinaria e li tranquillizzò con la sua presenza. Poi un robo li accompagnò alla loro camera da letto, grande e lussuosa.
Si svestirono e, senza dire una parola, fecero disperatamente l’amore nel grande letto a colonne, consapevoli che era l’ultima notte che avrebbero passato insieme.
Laïra guardò Hinrik e cercò di trovare qualche parola.
Hinrik evitò il suo sguardo e, poco più tardi, si addormentò.
Lei rimase sveglia ancora a lungo e prese una decisione. Quando mancavano ancora parecchie ore alla luce del giorno, scivolò giù dal letto, posò i piedi nudi sulle mattonelle del pavimento e in punta di piedi si avvicinò alla porta. Quando si guardò attorno, vide che Hinrik non era nel letto. Un brivido le corse lungo la schiena. Corse nella sala, dove trovò Eleonyra ad attenderla.
— Ha visto Hinrik? — le chiese, con il cuore in gola.
La donna era ferma accanto alla porta nera. Con un sorriso mesto, indicò dietro di sé.
— Ha pensato la stessa cosa che hai pensato tu — le disse. — Però ha capito che doveva arrivare prima di te.

*

Laïra pianse la morte del marito per un giorno e una notte e minacciò di soffocare nell’autocommiserazione e nel senso di colpa. Poi Eleonyra la raggiunse. Indossava una veste nera e profumava come i fiori di una seconda Primavera.
— Vieni, Laïra, Custode del Palazzo dell’Umanità. Mi hai costretto a rimanere qui un giorno più di quanto non intendessi. Daremo al tuo Hinrik un bel posto davanti al Palazzo, vicino alla scala che porta alla galleria. Dovresti rallegrarti: il suo corpo resterà intatto, non sarà disintegrato e compresso fino a farne un mattone.
Laïra non aveva più lacrime. Il funerale di Hinrik le diede qualche piccola consolazione. Mentre tornavano al Palazzo, udì nuovamente la musica; ossia, la musica era quasi alla soglia dell’udibilità: pareva aleggiare fino a lei su una leggera brezza e provenire dai giardini del Palazzo.
— La musica? — chiese a Eleonyra. — Da dove viene la musica?
La donna sorrise.
— Musica? Non sento nessuna musica.
Raggiunsero la sala.
— Il mio compito è finito — disse Eleonyra. All’improvviso, pareva avere fretta.
— Perché? — chiese Laïra, con la voce roca. — Perché le cose devono andare in questo modo? Perché devo svolgere il mio incarico da sola?
La Custode la guardò con un insieme di sorpresa e di divertimento.
— Non so rispondere. La vita è piena di domande, ma le vere risposte sono rare. Perché von Schöppen ha voluto così? Mi chiedo se egli stesso l’abbia mai saputo. Ha lasciato un gruppo di diari, tu dovresti leggerli. Probabilmente avrai tutto il tempo che desideri.
S’incamminò e disse ancora, parlando senza girare la testa: — Sono contenta che sia finita. Settant’anni da sola, insieme a milioni di anime umane imprigionate nelle pietre che mi circondano… Mi chiedo come sono riuscita a non impazzire. Forse è stata la musica a salvarmi.
S’interruppe, con l’aria sorpresa.
— La musica — sospirò. — Oh.
Non diede altre spiegazioni. Un attimo più tardi era scomparsa oltre la porta nera, scomparsa dalla vita di Laïra.

*

Laïra cercò di adattarsi alla solitudine della propria vita nel Palazzo. Piangeva per la morte di Hinrik, si recava ogni giorno alla sua tomba e infilava fiori freschi in un vaso dorato. Scriveva poesie, trascorreva gran parte del tempo in biblioteca e leggeva i diari di von Schöppen, senza capire perché avesse voluto toccare così drammaticamente la vita delle persone più coraggiose. Si lasciò viziare dai numerosi robi che effettuavano la manutenzione del Palazzo e delle aree circostanti. Cercò di trovare una via di uscita, per rifugiarsi nell’Ostreich-Schweiz, ma non riuscì mai a trovarla. E soprattutto trascorse molti anni a cercare l’origine della musica che sempre indugiava sulla soglia della sua percezione.
Resa insensibile dalla malinconia, dopo venticinque anni smise di cercarla; ma qualche anno più tardi tornò di nuovo a percorrere i passaggi e le sale del Palazzo e i suoi interminabili giardini, senza mai scoprire l’origine della musica. Molti anni più tardi cominciò a considerare la ricerca come un rito, al pari di tante altre azioni della giornata. Poco prima di scordare l’idea che la musica fluisse dal Palazzo e dai giardini, che le pietre emettessero suoni che l’orecchio umano non riusciva a percepire, ricordò con stupore un particolare. Le tornò in mente la nota acuta che aveva udito nel corso dell’ultima esecuzione a cui aveva assistito nell’arena. Il do diesis. Fissò a occhi sgranati i mattoni rossi. Che fosse il Palazzo stesso la fonte di quella musica celestiale e inudibile?
Subito dopo, il pensiero svanì dalla sua mente.

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La solitudine tornò a stringerla con le sue braccia gelide. Un senso di lutto per un amore perduto, che non era Hinrik, le entrò nel cervello come un debole, persistente mal di testa. Sulla sua faccia comparvero le rughe, ma lei non si sentiva realmente più vecchia. Cominciò a spostarsi sempre di meno e lasciò che fossero i robi a svolgere la maggior parte del lavoro. Una volta la settimana si recava in visita alla tomba di Hinrik e in seguito si aggirava per i giardini, alla ricerca di qualcosa che si rifiutava sempre di lasciare la profondità della memoria e di affiorare alla coscienza.

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Poi, un giorno, durante il cinquantasettesimo anno della sua permanenza nel Palazzo, un giovanotto dall’aria stupefatta comparve in cima alle scale, e lei gli affidò il Palazzo con un enorme senso di sollievo. Il ragazzo — non poteva avere più di vent’anni — si chiamava Joachim, dal nome dell’inventore delle Quote.
Le chiese subito da dove provenisse la musica e lei gli rispose, con un sorriso benigno: — Musica? Non sento nessuna musica.
Poi gli occhi di Laïra si accesero per un attimo. Un ricordo affiorò: la voce di Hinrik.
— Verstummte Musik — sussurrò tra sé. Posò gli occhi sul Palazzo e nella sua mente si accese la comprensione.
Un attimo più tardi, il ricordo svanì e Laïra tornò a sorridere serenamente a Joachim. Gli chiese di continuare a mettere fiori freschi sulla tomba di Hinrik e — finalmente tranquilla — scomparve dietro la porta nera.

W.J Maryson (pseudonimo di Wim Stolk), poco o nulla conosciuto in Italia, ha 55 anni, pubblica romanzi da 10 ed è forse il maggior scrittore olandese di fantasy. La sua saga di “Meester Magier” ha già riscosso un grande successo in molti paesi europei. I neerlandesofoni possono consultare il suo sito all’indirizzo http://www.meestermagier.com .