di Vittorio Catani

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3 — Le comunicazioni oggi: di alcune influenze su ambiente e individuo

Non a caso, tra gli esperti in comunicazioni citavo uno dei maggiori intellettuali contemporanei, docente a Berkeley in sociologia e pianificazione urbana: il catalano Manuel Castells, autore fra l’altro di una gigantesca trilogia, L’era dell’informazione, in cui egli dipana lo stretto intreccio fra relazioni economiche e sociali nell’era delle reti. Castells si è occupato anche del modo in cui le nuove comunicazioni stanno modificando gli assetti urbani e i rapporti tra i cittadini. Secondo l’autore, la rivoluzione dello spazio “è una dimensione fondamentale del processo complessivo di trasformazione strutturale” in corso nella società. Anzi, è lo specchio di questa trasformazione.

Per esempio: il mercato agricolo si è in gran parte automatizzato, e ne è emersa un’economia globale di interazione fra network produttivi sparsi per l’intero pianeta. Una delle conseguenze è che ormai la maggioranza della popolazione mondiale vive in grossi centri urbani, e secondo Castells la tendenza si affermerà sempre più. Tuttavia il processo di urbanizzazione privilegia in modo sproporzionato metropoli nuove, “costellazioni urbane” ubicate su territori vastissimi. Intanto Internet e i sistemi di trasporto veloce determinano, contemporaneamente, una concentrazione e una decentralizzazione spaziale; una geografia nuova, fatta di “nodi” sparsi nel mondo.
Quali relazioni sociali si formano in un simile contesto? Esse sono contraddistinte contemporaneamente, a loro volta, da un maggiore individualismo e da un nuovo comunitarismo. Comunità virtuali e fisiche sviluppano un’intensa interazione, e tuttavia queste tendenze all’aggregazione sono ostacolate dalla progressiva individualizzazione delle occupazioni, dei rapporti sociali e della stessa vita domestica. In ciò, certamente contribuisce il nuovo modo di “lavoro trasposto a domicilio”. L’ex famiglia patriarcale si è ulteriormente disgregata, trasferendo la socialità dal nucleo familiare ai network di individui, “il più delle volte donne e bambini, ma anche coinquilini non legati da vincoli di parentela”, o spesso separati fra loro da migliaia di km.; le conseguenze si riflettono significativamente anche nell’utilizzo e nelle forme delle abitazioni, dei quartieri, degli spazi pubblici, dei trasporti. Inoltre, le città di tutto il mondo crescono in multietnicità e multiculturalità.
In tale contesto generale, si è venuta a inserire molto saldamente una criminalità che “garantisce” occupazione e reddito alla “cultura dell’illegalità”. Segue un intensificarsi della violenza, che genera un modus vivendi improntato maggiormente all’autodifesa. Crescono, per converso, aree fortemente segregate ma per motivi opposti: comunità-cittadelle ben protette per i benestanti; ghetti per i miserabili. La costituzione di immense aree metropolitane senza nome, senza cultura, senza istituzioni, va contro i meccanismi della responsabilità politica e della partecipazione popolare. Gli Stati si trovano a operare in una situazione di isolamento, sostituiti talora da istituzioni volontarie sorte localmente, specie in favore delle famiglie: siamo a un’altra causa di perdita di sostanza dello Stato tradizionale. In definitiva, e senza volerci dilungare ulteriormente su meccanismi interessanti e complessi, potrei riassumere e generalizzare la visione di Castells asserendo che il trend è per le aggregazioni di network, una comunicazione dislocata che genera spesso maggior isolamento ed esclusioni, soprattutto per chi non abbia la possibilità o la voglia di esserne coinvolto. Per di più le consuete logiche della globalità e del localismo non trovano ancora un amalgama accettabile, resta problematico contemperarle e soddisfarle in modo adeguato. Si verifica una frattura tra individuo e gruppi sociali; torna alla ribalta il problema dell’integrazione. Castells, con altri sociologi architetti, ritiene che ciò possa e debba essere superato anche favorendo adeguate ristrutturazioni urbanistiche; sta di fatto — a quanto si legge tra le righe — che per ora la madre delle comunicazioni, cioè Internet, in casi come questi appare disarticolata, e anziché favorire la comunicazione tende paradossalmente a produrre maggior isolamento, frammentazione, solitudine.

Ho voluto riportare alcuni spunti di questo architetto sociologo perché mi sembra che in essi si racchiudano due elementi portanti su cui — a quanto pare — anche personaggi di alta cultura non sono indotti a riflettere adeguatamente, almeno non nello spazio di una rapida intervista (sappiamo come funzionano queste cose).
Il primo elemento: è falso, come invece lasciato intendere, che le comunicazioni odierne si limitino agli stessi fini ed effetti di quelle esistenti ai tempi di Giulio Cesare, e neanche — aggiungerei — ai tempi delle stesso Goebbels o, per tornare a casa nostra, ai più prossimi anni Cinquanta della famosa “Italietta”, se è vero che perfino gli scenari urbani ne escono stravolti, per non parlare di quelli sociali. Il secondo elemento: non sempre è matematico che più diffuse e veloci autostrade telematiche significhino “maggiore comunicazione interpersonale”.
Ma poi, altri esempi più comuni sono così evidenti che pesa a me per primo doverli stancamente ripetere: il nostro brillante premier, con il suo strapotere mediatico ed economico, artatamente usato, ha sulle masse le stesse potenzialità operative di un Giulio Cesare? Non si vuole dunque neanche tener conto che le nuove telecomunicazioni sono inoltre perfettamente funzionali a un mondo davvero parcellizzato quale quello del nuovo lavoro globalizzato, e quindi stanno sconvolgendo il modus vivendi (e il portafogli) di milioni di lavoratori sballottati qua e là? Né si considera che (sempre grazie alla sofisticata gestione delle Sante Telecomunicazioni) alla delocalizzazione produttiva si contrappone una frattura tra economia reale e finanziaria, la finanziarizzazione (a scopo speculativo) del capitale di rischio, nonché una concentrazione di scambi finanziari internazionali l’80% dei quali avvengono tra una ventina di Paesi la cui popolazione è appena il 20% di quella mondiale?
Iintelligenti pauca; ma qui, insisto, temo non sia questione di sola intelligenza. Non è questa che viene chiamata a rispondere, se non si possiedono validi anticorpi, allorché si vanno a toccare sentimenti profondi. Entrano invece in atto agenti psicologici che nulla hanno a che vedere con la razionalità. È un po’, mutatis mutandis, la verità che ripeteva in tono ironico il mio psicologo: mai sposarsi quando si è follemente innamorati, si rischia di commettere le peggiori cazzate…

4 — Pessimismo culturale?

In un interessante volumetto, Pessimismo culturale (Il Mulino, 2003) Oliver Bennett, direttore del Centre of Cultural Policy dell’università di Warwick, prospetta e passa in analitico esame una questione che mi sembra molto interessante, chiaramente enunciata dall’autore nell’incipit della Introduzione: “Il pessimismo culturale nasce dalla convinzione che la cultura d’una nazione, di una civiltà o dell’umanità stessa sia alle prese con un irreversibile processo di decadenza (…) La tesi qui sostenuta è che nell’epoca postmoderna siano emerse in tutto l’Occidente, in campi estremamente disparati, narrazioni di decadenza con implicazioni profondamente pessimistiche (…) Questo volume esamina il modo in cui si è costituita tale rappresentazione, prendendo in considerazione il suo rapporto con la genesi del pessimismo culturale sia a livello cognitivo sia emotivo”.
Il volume è quindi, credo, estremamente attuale. Nell’introduzione l’autore riporta peraltro pareri di notissimi personaggi del passato, in una specie di “girandola pessimistica” che ruota a ritroso nel tempo sul tema della “decadenza dell’oggi” (o se vogliamo, sul “com’erano belli e sani i vecchi tempi”), e sarebbe addirittura una lettura divertente se essa non mostrasse un substrato inquietante. Sull’argomento infatti si sono espressi con veemenza, spesso con sdegno, personaggi quali lo storico statunitense Henry Adams (inizi del ‘900), anticipando Spengler: “Come possiamo sperare di vedere un nuovo ordine mondiale, una nuova civiltà, una nuova vita?” Spengler in persona poi, si sa (1918), riteneva che ogni civiltà durasse all’incirca un millennio passando dallo sviluppo all’invecchiamento, come un corpo vivente: e per lui l’Occidente era prossimo al capolinea. Quanto a Freud, nel Disagio della civiltà (1929) vedeva, più che un peggioramento progressivo, un accumulo di frustrazioni culturali che rischiava a ogni istante di esplodere in aggressività e autodistruzione. Horkheimer e Adorno ritenevano a loro volta che il progetto illuminista di liberare l’umanità da schiavitù e superstizione avesse miseramente fallito lo scopo, producendo anzi miti più potenti e forme di dominio assolute (Dialettica dell’Illuminismo, 1944). Si può pensare che le due guerre avessero a ragione portato a riflettere; ma se andiamo nell’Ottocento la musica non cambia. Max Weber, Nietzsche (che attaccò ogni forma di razionalità), Schopenhauer, lo stesso Marx, esprimevano — ciascuno alla propria maniera — la ferma convinzione di una civiltà giunta a un punto terminale di decadenza. Più indietro ancora, ai primi dell’Ottocento (1829), lo storico scozzese Thomas Carlyle apprezzava i vantaggi dell’“era meccanica” ma, al contempo, denunciava come il meccanicismo fosse tracimato in molti aspetti del sociale, delle leggi, dei rapporti personali, del sentire individuale. Prima ancora, nel 1795, Schiller scriveva che “il carattere del tempo deve anzitutto risollevarsi dalla sua profonda degradazione”; mezzo secolo indietro Jean Jacques Rousseau aveva affermato nei Discorsi che “la moderna civiltà mette in mostra un livello di corruzione ignoto alle società primitive”.
Nel Rinascimento sarebbe stato difficile sostenere una visione progressiva della storia (l’epoca medievale veniva considerata un periodo barbarico, nettamente inferiore alle civiltà romana ed ellenica); tuttavia Giambattista Vico (1668 1744) vedeva nella storia il perpetuo rinnovarsi di tre cicli; nel ‘400 Machiavelli aveva individuato a sua volta nella storia infinite sequenze di alti e bassi (i “ricorsi”). E già nel I secolo d.C. Seneca aveva contrapposto la decadenza morale di Roma al mondo senza crimini di un’Età d’Oro primigenia. Otto secoli prima di Cristo, il poeta Esiodo aveva invece suddiviso la storia del mondo in cinque fasi che andavano da un’Età dell’Oro a un’Età del Ferro, ciascuna delle quali peggiore della precedente…
Il fatto è che, risalendo ancora, si giunge a un evento chiave mitico della tradizione giudaico cristiana: la cacciata dal Paradiso. Da cui visioni apocalittiche e profezie di catastrofi. E comunque va detto che il mito del Paradiso e della sua perdita, sia pure con varianti, non è appannaggio della sola cultura cristiana: i più antichi riferimenti a un evento del genere sono stati reperiti presso i Sumeri, e risalgono a circa 4000 anni a.C.
Ovviamente non per questo l’autore di Pessimismo culturale perde la bussola: “La questione delle influenze non sarà ignorata, ma concentrerò l’attenzione sulle narrazioni di decadenza come reazione alle realtà materiali del mondo postmoderno”, assicura Bennett. Usando un po’ l’ascia, sintetizzo per il lettore informando anzitutto che il testo è suddiviso nei seguenti capitoli: l’attuale “decadenza” dell’ambiente; la decadenza morale (guerra, diritti umani, criminalità); intellettuale (scienza, arte); politica (il “nuovo” capitalismo). E in vero, le deduzioni — peraltro saldamente ricche di documentazioni, cifre, statistiche — di Bennett sugli argomenti trattati non possono, ciascuna, non giungere a una conclusione “pessimista”. Da sottolineare peraltro che l’ultimo capitolo, titolato appunto Il pessimismo culturale, sottopone poi l’intera materia trattata, o forse sarebbe più corretto dire “i criteri usati”, a una serrata analisi di tipo sociale psicologico: un po’ come se l’autore si dissociasse da se stesso per guardare alla propria opera con altri occhi o, semplicemente, sulla base di differenti parametri. E qui si fanno scoperte interessanti.
“Come si ammette nell’Introduzione” nota anzitutto Bennett “una rappresentazione culturale nel senso più generale (la cultura come modo di vivere complessivo) sarà sempre destinata a essere parziale, data l’impossibilità di rappresentare tale modo di vivere complessivo, specie se definito in riferimento a un periodo storico anziché a una specifica civiltà, nazione o gruppo.” L’autore ammette che il criterio d’esame potrebbe essere costruito diversamente, e quindi, mentre la logica di base di questa sua concezione del culturale può facilmente essere compresa, la rappresentazione che ne emerge può suscitare forti resistenze da parte di alcuni lettori. Insomma il gioco riuscirà solo a condizione che si verifichino tutte insieme le seguenti condizioni: 1) le narrazioni di decadenza e i relativi pessimismi siano accettati in toto; 2) le descrizioni siano considerate nell’insieme un’adeguata descrizione della cultura postmoderna; 3) non si aderisca a posizioni più positive o ottimistiche; 4) nonostante le intrinseche difficoltà, vengano formulati giudizi su una vasta gamma di temi specializzati, complessi e spesso altamente tecnici.
La faccenda pare complicarsi e non trovare una facile soluzione; il rischio è, ovviamente, che questo “pessimismo” vada bene solo… ai pessimisti, ma escluda tutti gli altri, diventando una sorta di ossimoro senza significato. Per saltare tali forche caudine, e affermare la validità non relativa delle sue elaborazioni — credo che alla fine Bennett ci riesca — l’autore tira in ballo un ragionamento che parte da alcuni studi di psicologia cognitivista, in particolare di Aaron Beck (ideatore della terapia cognitivista della depressione; 1976) “in cui troviamo interessanti parallelismi tra il modo di pensare di cui sopra [pessimismo culturale] e alcune tendenze cognitive associate a disturbi legati all’ansia e alla depressione. Il problema connesso è che, ovviamente, gli individui adattano i propri pensieri alle emozioni che avvertono, per cui i pensieri negativi diventano una sorta di razionalizzazione dei timori o della tristezza dell’individuo medesimo”.
Ma qual è la ragione per cui i pessimisti restano attaccati alle loro convinzioni? “Esse servono da baluardo contro il dubbio. Il dubbio, o l’incertezza, è ciò che gli esseri umani temono più d’ogni altra cosa. E dunque la depressione è costruita dal depresso per servire i propri scopi — di solito nascosti o inconsci — e per rafforzare i propri miti, contrapposti a un mondo spaventoso e incomprensibile (…) Esistono periodi storici, o tipi di società, particolarmente favorevoli alla depressione e all’ansia? È estremamente difficile rispondere…” Qui Bennett riporta una serie di dati dell’Oms, dai quali è possibile farsi almeno un’idea delle tendenze in epoca più recente: tendenze che evidenziano in effetti un significativo incremento di depressione e ansia in vari Paesi a partire dalla seconda metà del XX secolo. (In Usa e in Europa le depressioni gravi interessano il 3% della popolazione. Previsioni per il futuro sono peggiori e variano tra il 10 e il 15%; ma nei Paesi in via di sviluppo, sostiene l’Oms, la depressione dal 1990 è divenuta “il quarto principale problema sanitario, e si prevede che diventi il primo problema nel 2020”).
Secondo alcuni studi condotti dallo psicologo clinico Oliver James, prosegue Bennett, quattro sono i fattori principali di questa evoluzione: 1) l’individualismo dilagante, divenuto il valore politico economico dominante dell’Occidente; 2) i confronti in materia alimentati dai mass media con la loro visione fortemente idealizzata della realtà; 3) il fatto che i bambini passano sempre più tempo a scuola e sono sottoposti a una competizione troppo intensa, che può lasciare tracce incancellabili; 4) la crescente competitività sul mercato del lavoro e la valutazione fortemente competitiva dei lavoratori assunti. “Tutti questi fattori possono contribuire a produrre un senso profondamente radicato di fallimento. Per non dire dei temi della famiglia sempre più disgregata, e delle aspettative comuni sempre più irrealistiche.” L’impatto sociale del nuovo capitalismo sta producendo epidemie di “impotenza appresa”, di “confronto sociale non adattativo”, di “attaccamento ansioso”. In definitiva viene da dire, con Beck, che “nel mondo postmoderno il pessimismo culturale sia non solo un giudizio sulla nostra cultura, ma anche una struttura del sentimento che costituisce sempre più un prodotto della nostra stessa cultura.”
Dobbiamo allora respingere il pessimismo culturale come semplice illusione di un sistema cognitivo contaminato? Il problema rischia di farsi filosofico; qual è la verità, potremo mai sollevare il velo di Maya che offusca la realtà, potremo mai definire una sua rappresentazione vera o falsa?
Proviamo a guardare a un’altra tipologia di individui, propone Bennett: le persone cosiddette “normali” (ovvero non depresse). Orbene: da analoghi studi emerge che le psicologie di tali individui sono a loro volta caratterizzate da tre principali tendenze: “1) mostrano opinioni irrealisticamente positive di se stesse sovrastimando costantemente i propri punti di forza, sottostimando i proprio punti deboli, 2) nutrono una fiducia esagerata nella loro capacità di controllare il proprio ambiente; 3) alimentano una visione del futuro irrealisticamente ottimistica.” Tali “illusioni” non sono solo pervasive e sistematiche, quanto soprattutto rispondono alla (speculare con la depressione) condizione di mantenere il benessere psicologico del soggetto, specie in periodi di avversità. “Tenendo a bada depressione e ansia, aiutano a mantenere un senso di felicità e appagamento.” (Come dice T.S. Eliot nei Quattro quartetti: “L’umanità non può tollerare troppa realtà”…)
La conclusione, per Bennett, è dunque che dovremmo guardarci dal presupporre che un’inclinazione al pessimismo culturale implichi maggiori probabilità d’errore rispetto a una inclinazione verso narrazioni più ottimistiche del futuro. Anzi: i recenti studi postulerebbero l’esistenza di un “realismo depressivo”, sulla base dell’evidenza per cui proprio le persone depresse, rispetto alle non depresse, valuterebbero con maggiore realismo “sia il proprio grado di controllo sugli eventi che le proprie probabili circostanze future (…) Se questo modello è attendibile, significa che coloro che si trovano in condizioni di lieve depressione tendono a vedere se stessi e il mondo con la minore possibile distorsione cognitiva (si vedano studi di L.B. Alloy e L.Y. Abramson)”.

Così l’autore salva capra e cavoli, anche se io personalmente, magari solo empiricamente o d’istinto, già convenivo pienamente con lui sulle ragioni addotte capitolo per capitolo dal testo circa la giustificazione del pessimismo in questione, basandomi: 1) per l’ambiente, sull’evidenza scientifica non di parte; 2) per le altre questioni, sull’evidenza della logica (anche se qui realmente le prove potrebbero essere troppo soggettive); 3) per il resto, e comunque per “tutto”, sulla evidenza di una contrapposta visione di governi che si dimostrano “nei fatti” oggettivamente razzisti, mafiosi e integralisti. Per dirne una, si pensi a quando Rocco Buttiglione, ricoprente un prestigioso incarico al vertice dell’Unione Europea, ribadì di fronte al Parlamento europeo di considerare l’omosessualità un “peccato” e un “segno di un grave disordine morale”, nonostante nella Carta dei Diritti Europei fosse inserita una norma che vieta ogni discriminazione in base agli orientamenti sessuali dei singoli.
Ma tornando a Bennett, chiudo in modo più “leggero” il tema che egli ha voluto affrontare ricordando che, magari, le sue argomentazioni trovano una rispondenza anche in più prosaiche riflessioni, rievocando cioè frasi frutto della bistrattata (ma non sempre qualunquista) “saggezza popolare”, tipo: “Il pessimista è colui che porta la cintura ai calzoni e anche le bretelle”; ovvero: “Sono i pessimisti che lavorano anche per gli ottimisti”; o perfino la celebre frase andreottiana “A pensar male si fa peccato, ma non si sbaglia mai”…

5 — Considerazioni finali, con “fantastico”

Uno dei più (giustamente) noti racconti fantastici di Howard Phillips Lovecraft, L’estraneo (1921), narra di un individuo che ha vissuto anni in una zona rischiarata da una persistente luminosità crepuscolare, completamente isolato, cibandosi di erbe e piccola selvaggina locale. Di colpo è come se si risvegliasse: si osserva intorno stupito, il tempo trascorso sembra un sogno o un incubo strano e distante, si meraviglia di esser sempre rimasto lì ignorando quanto non fosse ogni sua personale necessità contingente. Ora deve sapere. Scopre, guardando in su, che il “cielo” sembra un lontano soffitto in forma di torre o camino chiuso. L’individuo, improvvisamente tormentato dalla curiosità, azzarda una faticosa salita arrampicandosi sulle pietre. Giunto al “tetto” lo solleva come fosse un coperchio, scoprendo “fuori” un panorama assolutamente nuovo. Esce, intuendo di trovarsi solo ora al livello del suolo: dunque prima ha vissuto per anni sepolto, lontano dalla realtà. È notte fonda e il chiarore argentato della luna lo stupisce. Gli giungono sprazzi di una musica dolce, lontana: calamitato, si avvia verso il richiamo. Giunge a una sorta di castello. Si inoltra di nascosto: dalle finestre a livello del suolo scorge persone ridenti vestite a festa, che danzano in un salone riccamente arredato. Decide di unirsi alla comitiva, dimenticare, recuperare i decenni perduti in un’ibernazione insensata. Attraverso un finestrone mette piede nella sala.
Ma ecco, tutto cambia: la musica tace, i festanti si bloccano con una smorfia atroce sui volti, arretrano urlando. L’individuo intravvede in lontananza un essere d’una mostruosità assoluta che pare voglia anch’essa infiltrarsi nella festa. Forzando il disgusto, avanza verso il mostro. Il silenzio è divenuto tombale. Anche il mostro va verso di lui. L’individuo tende una mano per toccarlo, il mostro lo imita. Solo allora, al tatto, si rende conto sconvolto di trovarsi di fronte a qualcosa che non aveva mai visto: uno specchio, riflettente la sua immagine.

Perché descrivere dettagliatamente, forse pedissequamente, questa storia? Perché essa mi sembra abbia più d’una analogia con la “nostra” attuale condizione. Per anni abbiamo tutti dormito sonni malati, in realtà sapendo nel nostro intimo più riposto della nostra condizione anomala, ma rimandando sine die il momento della verità. Alla fine qualcosa ci svegliato bruscamente: le nuove telecomunicazioni, l’emergere del Villaggio Globale, il poter essere contemporaneamente compresenti — sia pure virtualmente — in ogni zona del mondo attraverso resoconti e immagini. Il flauto magico dei cavi telefonici, della grande rete, delle tecnologie wireless, ha mostrato l’altro volto: ha scoperchiato la pietra sotto cui avevamo rimosso il magma verminoso che ora improvvisamente ci aggredisce, e nel quale rispecchiamo il nostro autentico essere: la mostruosità. Impossibile per tutti noi, dopo il risveglio, ignorare ancora la reale condizione del mondo, soprattutto ignorare i motivi per i quali il mondo rispecchia la nostra mostruosità: abbiamo vissuto per secoli, viviamo tuttora, in una eterna festa danzata vampirizzando ricchezze altrui, avendo ucciso o provocato la morte di milioni di persone, avendone ignorate le necessità, non spostando un dito per intervenire concretamente, depredando, devastando irreversibilmente ambienti, sostenendo mafiosi governi fantoccio, compromettendo masochisticamente il nostro stesso futuro e quello dei nostri figli, imponendoci al mondo con quella che definirei “la ragione della forza” (parafrasando qualcuno che pubblica libri, “la maggiore scrittrice italiana” che inveisce dal suo eremo ma difficilmente si risveglierà).
E penso non occorrano speciali facoltà speciale per intuire il percorso psicologico di chi “non voglia credere”. Generalmente, se ci poniamo dinanzi a situazioni implicanti estremo disagio (se non vita e morte) di miliardi d’individui, situazioni delle quali — se abbiamo l’onestà di scrutare in noi stessi — ci intuiamo ampiamente corresponsabili sia pure a livello collettivo, la reazione più spontanea, quella che ci evita di impazzire all’istante, è la fuga, il rifiuto, la chiusura, la rimozione, con conseguente ribaltamento di cause ed effetti sull’“altro”. Una reazione biologica, d’altro canto, questa davvero naturale, nel senso che si tratta della difesa più primitiva, spontanea e “animale” possibile; poco adatta cioè a venire mediata da stratificazioni culturali, che tuttavia ogni persona civilizzata e con minimo allenamento dovrebbe saper padroneggiare. In precedenza sottolineavo come vi siano casi critici in cui l’intelligenza non ha gioco se non sappiamo contrastare le “passioni”; senza il discernimento del raziocinio “sposiamo” per la vita il primo amante che ci capita nel letto.
In questo magma di orrore rifiuto si scopre tutta la debolezza della cultura occidentale, già segnata da disgregazioni familiari, solitudine, alienazioni, suicidi. Anzi si riscopre, temo, soprattutto la debolezza dell’uomo in sé. Non molte generazioni fa vivevamo ancora sugli alberi: ora uno shock violento ci riporta a comportamenti ferini, ci fa intuire che acqua ancora deve passare sotto i ponti perché l’uomo sappia dominare passioni come ingordigia, terrore di perdere uno status comunque acquisito come “diritto” (non importa sul sangue e sudore di chi), incapacità di riconoscere le proprie gravi corresponsabilità, la tentazione di addebitare al povero e al malato la colpa d’essere tale, l’incapacità di capire davvero la “diversità” (culturale, in questo caso) in barba a proclami sbandierati, l’inettitudine a percorrere vie che davvero aiutino chi sta peggio di noi a risalire il tunnel del disagio, della miseria, dei soprusi.
Il che ovviamente non significa non riconoscere le responsabilità di ciascuna delle parti. Significa, spero sia chiaro, non saper riconoscere “anzitutto” quelle proprie.
Il resto è retorica, travisamento, letteratura che si crogiola nella peggiore pornografia, istigazione all’odio, al razzismo, alla pretestuosità, pura ipocrisia, e insomma quanto di peggio si possa raschiare dal fondo del nostro inconscio, ma che ogni benpensante pensava (e pensa) di aver definitivamente cancellato. Per usare un’altra metafora legata alla narrativa fantastica, la situazione mi richiama lo Herbert George Wells de La macchina del tempo: siamo ancora noi gli imbelli Eloi, ci trastulliamo con i nostri giocattoli tecnologici o con le migliaia di boutiques d’ogni genere mentre rischiamo di essere divorati dai Morlock, “mostri” del sottosuolo che noi stessi abbiamo creato.

Eppure in tanto scempio qualcosa si salva e dà forse speranze. Un solo piccolo ma significativo episodio. Leggevo tempo fa che esiste a Brescia — ma ve ne sono anche altrove — una scuola elementare in cui gli operatori si impegnano nella familiarizzazione di bambini di differenti etnie sollecitando in essi una parità, una solidarietà, una concordanza di intenti e una esplosione di creatività esemplari, risultati ottenuti certo non tramite programmi scolastici “ufficiali”. “Ognuno porta la sua cultura, e l’inserimento non è un problema” dichiara la direttrice Angelina Battagliola, “soprattutto se questo avviene in tenera età. Sono bimbi svegli e imparano subito… È un arricchimento per tutti”. Al progetto partecipano i genitori, con entusiasmo e con intuibili sacrifici di tempo e denaro. I risultati appaiono più che incoraggianti: direi che sono strepitosi. Quando si è bambini la “differenza” non esiste, ed è da lì che occorrerebbe partire per evitare che diversità artificiali, di origini demagogico culturali, si ingigantiscano e incancreniscano in età adulta, sfociando in pretesti che sono non solo inciviltà, ma espressione di autentiche nevrosi.
Certo questo non basta; certo occorrerebbe lavorare in molte altre direzioni, e non sto qui a insistere oltre. Restiamo a queste scuole: se anche se ne aprissero migliaia in Italia, se ne esportassero milioni in tutto il mondo, la gente sarebbe poi disposta a vincere un’altra “nevrosi”, quella della inevitabile mescolanza delle razze, della relativa perdita di identità, del superamento dei fondamentalismi religiosi, e così via? Sorgono problemi che non si possono sottovalutare. D’altronde le razze esistono non perché “naturali”, ma perché gruppi di individui nei millenni sono rimasti geneticamente isolati. Ritrovare (per tornare al “fantastico”) fra secoli una Terra popolata — al limite — da una razza unica o quasi, che magari conservi, perché no, usi e testimonianze dei propri vecchi “localismi” e le proprie convinzioni, ma che viva ormai liberata da pretesti come guerre di religione o scontri di civiltà o speciosi sofismi sulla democrazia, che realizzi insomma più compiutamente la vecchia triade libertà uguaglianza fratellanza, sarebbe — per me, almeno — la più emozionante delle scoperte.