di Vittorio Catani

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1 — Stralci dal “nuovo che avanza”

Ciò che dal primo momento mi ha maggiormente colpito (dovrei forse dire “spaventato”) di quanto sta accadendo è che in pochi anni pare mutata — per noi occidentali — l’intera concezione di una vita che per me durava senza particolari scosse da sei decenni. C’è stato, si è detto, più cambiamento nell’ultimo secolo che negli ultimi millenni. Ma certamente c’è più mutamento nell’ultimo decennio che nell’ultimo secolo.

Facile sarebbe rispondere che tutto o quasi è legato a un certo uso delle nuove tecnologie — specie delle telecomunicazioni e delle bioingegnerie. Vi sono studiosi, come il filosofo Umberto Galimberti, i quali assegnano alla tecnologia in sé un ruolo quasi dotato di una volontà meccanica propria, insomma trascendente, secondo cui noi non saremmo che gli schiavi e i pedissequi esecutori servitori di uno sviluppo tecnologico senza più freni, massiccio come mai prima, e che ora penetra nella nostra carne e nelle nostre vite vampirizzandoci e modificando l’universo in modo sostanziale (vedasi Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica; Feltrinelli 1999). Il fatto è, immagino, che sia pur sempre l’uomo che agisca in prima battuta, per quanto condizionato da media e mercati; e che l’esistenza d’una simile entità tecno metafisica dotata (sembrerebbe) di volontà propria resti alquanto teorica, anzi fuorviante.
Ad ogni modo, quali che siano le cause dei cambiamenti, ciò che ne risulta lascia francamente interdetti.

Anzitutto, mai come in questo periodo la società occidentale è stata così ricca e opulenta: eppure, mai forse come prima (o almeno da qualche decennio) nonostante il progressivo accrescimento del famoso Pil, si moltiplica lo scarto tra ricchi e poveri. Segno, anzitutto, che sono completamente saltati i meccanismi, faticosamente conquistati, di una più equa — seppure insoddisfacente — distribuzione della ricchezza. Inoltre: dagli inizi del XX secolo, se non dalla fine dell’Ottocento, l’avvento di varie generazioni di macchine ha alleviato enormemente il lavoro umano; molte incombenze pesanti d’un tempo non esistono più e se ci sono nessuno vuole accollarsele. Si pensi alle attività tradizionali della campagna, oggi in gran parte trasferite in serre e laboratori. Quanto ai lavori “contadini” che residuano (o a quelli degli infermieri negli ospedali, degli operai nei vari comparti manifatturieri dell’abbigliamento, degli assistenti sociali, delle colf ex “donne di servizio”, degli operai alle catene di montaggio eccetera), se resistono e funzionano ancora è perché si reclutano in larga misura gli extracomunitari, se non si ricorre al rinato schiavismo. Il lavoro meccanico, materiale, defatigante di un tempo, è quasi del tutto scomparso. Domanda: se tale evenienza si fosse verificata a fine Ottocento, avremmo forse noi realizzato la allora vagheggiata società ideale, dove le macchine svolgono tutto il lavoro e noi uomini finalmente ci dedichiamo esclusivamente alle attività ludiche o creative? Perché ciò non è accaduto? Se l’utopia può ancora attendere nonostante le attuali radicali trasformazioni, essa non si realizzerà verosimilmente mai: l’avvento dell’età dell’Oro non era che un falso miraggio. Sorge la domanda: dov’è finito il frutto di quelle ore che avrebbero dovuto essere state “liberate”, elevando il corpo e lo spirito umano, rendendo la società più egualitaria, e che invece continuano a essere cupamente lavorate senza che nulla di fatto sia cambiato? Il punto è, suppongo, che il meccanismo capitalista semplicemente non si limiti più al famoso “profitto” di marxiana memoria, ma sottragga avidamente ogni altro spazio e tempo e pensiero dell’individuo. Prima il “padronato” concupiva il profitto; ora “il lavoro” concupisce la vita, tout court. Peraltro occorre dire che spesso noi stessi ci gettiamo nella mischia per ottenere di più e meglio: il lavoro alleviatoci dalla macchina non ci basta per oziare o meditare, ci serve per venderci totalmente onde ottenere il superfluo (e inquinante), ben manovrati dai burattinai dei “bisogni indotti” (come si diceva in tempo).
Insieme al divario crescente tra ricchi e poveri all’interno degli stessi Paesi occidentali, aumenta (non sappiamo per quanto ancora ciò sarà sostenibile) il divario con i Paesi poveri, in barba ai rituali spergiuri in materia dei nostri governanti. Anche qui accadono cose che mai avremmo ritenuto la gente potesse accettare: ma il peggio non è neanche questo.
Accade, purtroppo, che la gente consideri ormai naturali tutti questi eventi.
È naturale perdere la privacy in cambio di maggior sicurezza (i nostri dati in mano ad altri significano “sicurezza”? Torneremo padroni di noi stessi?) È naturale che i governanti curino i loro personali interessi e si arricchiscano smodatamente: se lo fanno loro, “faranno arricchire anche noi”; ricchezze e beni fino a ieri considerati della Natura e quindi “di tutti” (fiumi, aria, montagne, paesaggio, biodiversità, litorali, opere d’arte antiche e moderne di natura scultoria, pittorica, architettonica tramandateci dal passato, e così via) oggi sembra normale che possano non esser più prezioso patrimonio comune, ma vengano affidate a privati “che saprebbero gestirli meglio dello stato ladrone”, o sembra logico venderle al miglior offerente mafioso. Appare sacrosanto che entità sovrannaturali quali Wto, Fmi, Monsanto eccetera — senza alcun mandato specifico da noi cittadini — decidano delle nostre vite, di ciò che dovremo ingurgitare senza neanche farci sapere di che si tratta, salvo veder crescere spaventosamente malanni d’ogni genere. La tratta delle bianche e nere, dei bambini, lo schiavismo e il resto, sembrano tutto sommato cose accettabili e insomma non saremo noi a dover pensare a ogni cosa e salvare il mondo; che i parametri percentuali della disoccupazione “fisiologica” funzionino come un organetto appare anche naturalissimo, benché i risultati siano una precarietà di lavoro mai vista se non in tempi di guerra, mentre siamo in periodo di maggiore ricchezza e surplus; normale che i sindacati (tutti invariabilmente mafiosi e ammanigliati, dicono) abbiano perso la loro forza: è cambiata la struttura del lavoro, inoltre artatamente le aziende si sono dislocate con la globalizzazione in territori diversi, per cui arduo diventa coordinare il malcontento dei lavoratori; che i lavoratori stessi siano convinti che quanto accade loro sia addirittura un “bene”, sembra normale: “perché le cose oggi vanno così”, tautologicamente, e perché “se mi lamento c’è pronto chi mi sostituisce senza aprire bocca”; che la gente assista impassibile allo smantellamento di uno stato sociale conquistato in decenni di lotte e sangue e invidiatoci da altre nazioni sembra anche questo normale: dico “sembra”, dal momento che fievoli e transitori sono imbizzarrimenti e lamentele che si levano contro. È bene privatizzare sanità, scuola, carceri, ferrovie acquedotti e tutti i servizi che una volta erano giudicati “sociali”, insomma il nocciolo o la ragion d’essere di uno Stato moderno: infatti lo Stato si è dimostrato imbelle nel gestire tali strutture, ergo meglio faranno i privati. E allora anziché risanare quegli enti, valido è il pretesto per dividersi allegramente tra i soliti ignoti nuove colossali fette di torta accaparrate gratis.
È naturale che finalmente anche i fatti e la Storia vengano oggi riconsiderati, dal momento che finora vi sono state troppe visioni distorte, c’è stata una predominanza-imposizione della cultura comunista (mi chiedo dove sia questa cultura di destra calpestata); e i cari ragazzi di Salò sono da comprendere se marciavano armati e spensierati perché avevano “degli ideali” (be’, anche i nazisti avevano i loro ideali), e insomma i morti sono tutti uguali (da morti, direi); e in fin dei conti la shoah non ha nulla di unico perché guardatevi intorno o indietro e scoprirete migliaia di orrori come e forse peggio dei campi di sterminio (ma, vorrei sottolineare, né “scientifici” come la shoah, né nati nel cuore dell’Occidente). Eccetera eccetera.
Eppoi, il terrorismo. Una terza guerra mondiale, dicono. Terroristi spietati, pericoli di guerre batteriologiche o di bombe “sporche”, pericoli per gli arsenali incustoditi dell’ex Urss, pericoli per…

Posto così, il guazzabuglio è tale che non ci si districa facilmente. Ed ecco, emergono come funghi studiosi, filosofi, ex intellettuali, teorici — dal vasto seguito mediatico — i quali rigettano le conquiste occidentali nel nome di una malintesa “libertà”, probabilmente a essi stessi non ben chiara. Per esempio, i “diritti umani”. Non fateci ridere, dicono (con de Benoist, con lo stesso Bobbio): essi sono semplicemente il frutto di contesti locali e temporali particolari, non si può pretendere che valgano sempre e ovunque; vi sono luoghi — dice de Benoist — in cui l’uomo non si sente individuo ma parte di un tutto (la sua comunità) e come tale legato mani e piedi agli umori e al destino di quella comunità e mai se ne staccherebbe, a costo di morire: di che diritti umani si ciancia in condizioni di questo tipo? (Ma “tutto” nasce in luoghi e situazioni particolari: ciò forse annulla ogni giudizio di valore?) Sul “Corriere della sera” del 16 settembre 2004, Paolo Mieli rispondeva a un lettore elencando una serie di dati statistici nazionali e mondiali da cui effettivamente si rilevava come le cose stiano sprofondando, eppure il Mieli concludeva sottolineando: “Non mi sembra peraltro dimostrabile che tutto questo dipenda dalla globalizzazione”.
Orbene: è dunque assodato che vi sono persone, persone di primo piano, persone presunte “intelligenti”, colte, magari in buona fede, che approvano tutto o parte di ciò che accade. Sono queste elencate le faccende che, personalmente, mi spiazzano di più, dal momento che io non riesco a staccarmi da alcune consolidate idee. Devo ragionare sulle ragioni altrui, o chiudermi nelle mie convinzioni rifiutando un dialogo che mi sembra una barzelletta oscena? Benché mi sforzi, cercare di capire queste “nuove” motivazioni mi risulta difficile, ma ancora più difficile è cercare di far capire agli altri le mie. Come guardare senza reagire? La democrazia sta subendo uno svilimento, un’offesa, mostrando che purtroppo oggi, così com’è congegnata, essa si rivela insufficiente a far valere equità e giustizia. Occorrerebbe introdurre correttivi che la aggiornassero, la potenziassero, evitando derive autoritarie. Pare invece naturale che si voglia fare proprio il contrario… La democrazia, oggi? Un fastidio in più, una rottura di scatole che fa sprecare tempo e denaro con il suo corollario interminabile di paletti, diritti, pretese sociali. Logico comunque che all’attuale governo freghi poco o nulla di una Costituzione non “sua”, definita “bolscevica” dall’ingegnoso premier.
Nonostante tutto ciò — insistono in molti — queste sono conquiste davvero “nuove”, rivoluzionarie; siamo noi i veri reazionari; è una bugia che questo sia uno dei periodi peggiori, abbiamo avuto momenti molto più critici. Portano esempi…

2 — Alcune interviste

Quelli che seguono sono miei stralci da tre (di sette) interviste, apparse su “Venerdì” (il magazine di “Repubblica”) del 17 settembre 2004 su temi del “mondo in cui viviamo”. Tralascio le altre quattro, che mi sono apparse meno significative ai fini di questo articolo.

1) Da JOACHIM FEST, storico tedesco (intervista di Andrea Tarquini).
Domanda: “Come giudica questo tempo?”
Risposta: “[Questa] non è una guerra mondiale come le precedenti. È la prima guerra di un nuovo ordine e di una nuova epoca. Una guerra completamente diversa da quelle che la Storia conosceva finora, i conflitti che con accordi e convenzioni internazionali il mondo cercava di circoscrivere e regolamentare, se così si può dire (…) I tentativi fallirono già con la seconda guerra mondiale, ma questa nuova guerra le rifiuta apertamente. (…) Non c’è chance. È un fanatismo molto più radicale. Non rispetta le differenze tradizionali tra pace e guerra. Si può reagire solo rafforzando polizia e organi di sicurezza. Ma dobbiamo fare attenzione a non finire in 1984 di Orwell, in un Grande Fratello onnipresente, pur di difenderci. Anche questo è un pericolo: smarrire per strada lo Stato di diritto [come sta accadendo negli Usa]. E come accadrà anche in Europa: telefoni controllati e tutto il resto. Una nuova dimensione del quotidiano. È inevitabile. Si tratta di limitarne le conseguenze negative, non di impedirlo”.
Domanda: “La coesistenza col nuovo pericolo come cambierà la nostra psicologia collettiva?”
Risposta: “In un modo che ancora non ci immaginiamo. Simili eventi macropolitici hanno sempre un effetto di lunga durata. La guerra dei Trent’anni segna ancora la psiche collettiva dei tedeschi, la lunga divisione dell’Italia quella degli italiani”.

(Dunque, ciò che io noto è soprattutto questo: per vincere la “quarta guerra mondiale” si devono rafforzare polizia e organi di sicurezza; la nostra privacy ne verrà stravolta, ma bisogna accettare il male per prevenire il peggio. Quanto alla nostra psicologia, “cambierà in modo imprevedibile”. Personalmente sono convinto invece che sia già cambiata: in modo, purtroppo “molto” prevedibile. Andiamo avanti…)

2) Da MASSIMO CACCIARI, filosofo (intervista di Paola Zanuttini).
Domanda: “Professor Cacciari, una risposta filosofica a una domanda della strada: che mondo è ormai questo?”
Risposta: “Il migliore dei mondi possibili, sennò neanche ci sarebbe. Siamo stati infinitamente peggio un interminabile numero di volte (…) Scaduto il XX secolo, finite le grandi potenze, ne è rimasta una sola che non sa vincere la pace, quindi è tutto da inventare: nuovo diritto internazionale, nuovi organismi politici internazionali, stiamo inventando l’Europa. Sarebbe stupefacente se non ci fossero queste straordinarie difficoltà (…) La comunicazione ha una potenza mai avuta prima, ma dal punto teorico non è un problema diverso dal passato: le comunicazioni sono sempre state componenti essenziali dell’azione politica, che ha come fine quello di persuadere il prossimo. Oggi, certo, avere i mezzi di informazione è un must imprescindibile per ottenere l’egemonia, ma per Giulio Cesare non era tanto diverso.”
Domanda: “La parola democrazia ce l’ha un valore comune?”
Risposta: “Ottimo esempio dell’igiene linguistica che manca. Quale democrazia? Quella ateniese? Quella dei comuni medievali? Quella di Rousseau e Robespierre? Lo svuotamento semantico di questa parola è paradossale: siamo tutti democratici. Se non la riempiamo di contenuti e non capiamo finalmente come la usa ognuno di noi, diventa la più gigantesca delle foglie di fico. Non c’è una sostanza universale per un regime politico. Gli stessi diritti umani sono creazioni storiche, come insegnava Bobbio, e quindi in ogni epoca vanno rideterminati. Machiavelli diceva che il miglior modo per affossare uno Stato è credere che le sue leggi siano immodificabili. Credo che oggi, per dare un significato a questa parola, si intenda un regime che garantisce l’assoluto riconoscimento delle diversità culturali; un regime che davvero si mobilita per superare disparità e disuguaglianze. Ma sono declinazioni laiche, borghesi, in pantofole. Il linguaggio politico deve riscoprire un principio fondamentale: tutto è limitato”.

(Ecco una persona secondo la quale viviamo nel migliore dei mondi possibili, e tuttavia afferma che siamo stati infinitamente peggio chissà quante altre volte. Io non c’ero dunque forse è vero, ma badiamo al presente. Che significa “democrazia”? Scopriamo che forse non lo sa nessuno. Una volta, democrazia, l’unica che io conosca o che mi interessi, si rifaceva di comune intesa alla famosa triade libertà uguaglianza fraternità. Ma i diritti umani — ci viene ripetuto — sono, ahinoi, volgari e transeunti costruzioni storiche (vedansi Guantanamo e Abu Ghraib). Come pure, parlare del superamento di disparità e disuguaglianze significa fare “declinazioni in pantofole”. Attendiamo dunque con ansia di conoscere anche noi il senso autentico di un nuovo Mistero Glorioso, il nuovo strano oggetto concettuale detto “democrazia”. Un mio amico molto pragmatico diceva che la democrazia è come la poesia in un testo; inutile cercarla con la lente: o c’è o non c’è…
Quanto al fatto che le comunicazioni, sia pure solo in senso teorico, non differiscano dal passato — iulio Cesare! — avrei dubbi semplicemente colossali, confortato da continue dimostrazioni quotidiane, oltre che da pareri ed elaborazioni addotti da celebrità mondiali, a partire da Marshall MacLuhan fino a Howard Rheingold, Tomás Maldonado, Derrick de Kerckhove, Pier Luigi Capucci, Paul Virilio, Manuel Castells e non so quanti altri).

3) Da RALPH DAHRENDORF, filosofo inglese (intervista di Enrico Franceschini).
Domanda: “Viviamo davvero in un’epoca di tenebre, nel peggiore dei mondi possibile?”
Risposta: “Da un certo punto di vista sì. Quello odierno è un mondo peggiore di prima, perché il terrore, la guerra, l’odio, la paura, sembrano colpire contemporaneamente un po’ ovunque: in America e in Europa, nelle Russie, in Medio Oriente…”
Domanda: “C’è un periodo della storia moderna che giudica come il più atroce e spaventoso per l’umanità?”
Risposta: “Senza dubbio quello che va dal 1914 alla morte di Stalin nel 1954: quarant’anni che hanno visto due guerre mondiali, nazifascismo e comunismo, l’Olocausto, la Rivoluzione bolscevica, le feroci repressioni staliniane, il sorgere della cortina di ferro, il colonialismo. Ma pure i successivi quarant’anni, dal ’54 al ’91, di Guerra fredda e relativa stabilità, erano contraddistinti da conflitti fra Stati. Oggi il male non proviene tanto da Stati o da coloro che li governano, quanto da società. Civiltà che sembrano impazzite, incattivite, malate. È come se in più luoghi della terra la società degli uomini avesse invertito il cammino verso illuminismo e progresso per tornare verso il selvaggio brutale tempo delle caverne. Il male prodotto da una società è meno prevedibile di quello scatenato da uno Stato o da un tiranno: non sai dove, come, quando attaccherà. Per lo stesso motivo è molto più difficile combatterlo, fermarlo, curarlo. Perciò, credo, la gente si dispera. Davanti a una minaccia simile, la nostra civiltà si sente più vulnerabile. Non c’è molto che si possa fare”.
Domanda: “Esisterà pure una cura”.
Risposta: “Si può provare a curarla con la forza. E talvolta è a mio parere assolutamente necessario: come è stato fatto in Afghanistan. Sicuramente si può e si deve provare a curarla anche con altri mezzi, rafforzando il dialogo tra civiltà, popoli, religioni differenti, esportando ovunque è possibile un maggiore benessere, una crescente libertà. Ma non sarà semplice come dichiarare una guerra e poi vincerla, perché questa non è una guerra, come la chiama erroneamente Bush: è una crisi delle società. Alcune impazzite, come dicevo; altre incapaci di difendersi e di garantire la sicurezza dei propri cittadini. Finirà quando cambierà l’atteggiamento delle masse. Quando in nessun paese del mondo una madre potrà sentirsi orgogliosa del fatto che il proprio figlio è morto come kamikaze in un attentato suicida”.

(Su queste risposte ci sarebbe da “divertirsi” — si fa per dire — di più. Tanto per andare d’accordo con Cacciari, intanto, eccoci capovolti nel peggiore dei mondi possibili. Quanto al passato, però, Dahrendorf sembra incerto: ci sono stati nazifascismo e comunismo staliniano. In realtà pure oggi il sangue scorre in abbondanza, e stiamo avendo anche inedite e clamorose dimostrazioni che per sottomettere le masse talora non c’è bisogno dei gulag o dei ghetti. Scopriamo anche — se non fraintendo — che il colonialismo è roba solo del XX secolo. Per salvare la nostra civiltà, inoltre, ci vuole la “forza”. Forse Dahrendorf interpellerebbe — tra gli altri — Schwarzy, chissà. Anche l’esempio dell’Afghanistan non mi pare proprio pertinente, visto dove sta portando la “lezione” di Bush. Eppure, una cosa importante Dahrendorf dapprima sembra averla capita: sono le masse che sembrano incattivite, la società è malata. Poi però ti accorgi che non parla minimamente di noi. Noi siamo rincoglioniti solo perché non ci sappiamo difendere, i “cattivi” sono sempre loro, gli “altri”, per esempio quei genitori orgogliosi di avere figli kamikaze. Io in verità ho letto di peggio: in Cecenia l’età dei kamikaze si è ridotta prima ai ragazzi, poi ai bambini, e soprattutto alle bambine: specie quelle che ormai hanno perso entrambi i genitori in guerra, e con essi ogni riferimento. Piccole creature traumatizzate e sbandate, alle quali viene assicurato che se si immoleranno raggiungeranno i loro cari: l’orrore, la protervia, l’insensibilità umana, sono davvero senza fondo. Nessuno nega che il mondo sia realmente impazzito. Comunque è rilevante che in tre interviste ad altrettanti grossi nomi, su un giornale ritenuto di sinistra (per Berlusconi stampa comunista) non vi sia “una” sola parola d’autocritica sul way of life occidentale, sulle “scelte” occidentali…)

(1-continua)