marxcomunirurali.jpgdi Annibale C. Ranieri

A cavallo fra gli anni settanta e ottanta del milleottocento
il vecchio e malato Marx si trovò coinvolto nella polemica
attorno cui si dibatteva la “intellighentsija” russa, ed in
particolare le sue componenti liberali e rivoluzionarie, circa il
destino della comune rurale, antichissima istituzione che in
Russia aveva attraversato i secoli e che in quel periodo subiva
gli attacchi concentrici di uno Stato oppressivo e del nascente
sviluppo capitalistico. In quel dibattito Marx venne coinvolto in quanto, con le sue
opere scientifiche, e specialmente col Capitale, avrebbe
sostenuto la inevitabilità della dissoluzione della comune rurale
e di tutte le forme di economie precapitalistiche, secondo lo
schema di sviluppo che l’Inghilterra aveva semplicemente
anticipato, ma che tutti i popoli avrebbero dovuto seguire,
vincolati da una necessità immanente alle ferree leggi dello
sviluppo storico.

Inoltre per il gruppo di rivoluzionari che
costituivano il nocciolo del futuro Partito operaio
socialdemocratico di Russia, tale processo oltre che inevitabile
era anche auspicabile, in quanto solo dalla dissoluzione della
comune rurale, e dalla conseguente proletarizzazione dei
contadini russi, sarebbe potuta sorgere e svilupparsi la classe
soggetto della emancipazione dell’umanità, come per altro
sembrava avvenire nella progredita Europa occidentale.
Marx però riteneva che quella interpretazione del suo pensiero
equivaleva ad un travisamento, come scrisse in una lettera della
fine del 1877 alla redazione dell’Otecestvennye Zapiski: quanto
descritto nel Capitale è “unicamente … la via mediante
la quale, nell’Occidente europeo, l’ordine economico
capitalistico uscì dal grembo dell’ordine economico feudale” e
non una “teoria storico-filosofica della marcia trionfalmente
imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione
storica essi si trovino, per giungere infine alla forma economica
che, con la maggior somma di potere produttivo sociale, assicura
il più integrale sviluppo dell’uomo”. Infatti alla conoscenza dei
fenomeni storici “non ci si arriverà mai col passe-partout
di una filosofia della storia, la cui verità suprema è
d’essere soprastorica”. Tuttavia questa lettera di Marx non venne
pubblicata dalla rivista russa, e fu resa pubblica soltanto dopo
la sua morte, a Ginevra nel 1884 e, in versione integrale, a
Parigi nel 1902.
L’8 marzo 1881 Marx rispondeva a Vera Zasulic, una rivoluzionaria
che da poco aveva lasciato il populismo per unirsi a quanti in
Russia si rifacevano al movimento socialista di “ispirazione
marxista”, la quale gli chiedeva una opinione sulla posizione da
assumere sulla comune rurale. In maniera altrettanto netta Marx
ribadiva alla Zasulic che “la fatalità storica” del movimento di
“espropriazione dei coltivatori agricoli”, e quindi il passaggio
al sistema capitalistico basato sulla “separazione radicale del
produttore dai mezzi di produzione”, è “espressamente
limitata ai paesi dell’Europa occidentale“. Dalle
analisi del Capitale, chiariva Marx alla Zasulic, non
possono essere derivate ragioni pro o contro lo sviluppo della
comune rurale russa, “ma lo studio apposito che ne ho fatto, e di
cui ho cercato i materiali nelle fonti originali, mi ha convinto
che la comune è il punto di appoggio della rigenerazione sociale
in Russia”. Al contrario “se la Russia continua a battere il
sentiero sul quale dal 1861 ha camminato, perderà la più bella
occasione che la storia abbia mai offerta a un popolo, e subirà
tutte le peripezie del regime capitalistico” (lettera citata alla
“Otecestvennye Zapiski”. Tuttavia nemmeno la lettera alla Zasulic
venne resa pubblica, nonostante ad essa Marx attribuisse
sicuramente una notevole importanza – come testimoniato dalla
notevole mole di appunti preparatori stesi dallo stesso Marx – e
solo nel 1924 uscì dall’archivio Axel’rod.
In cosa consistesse per Marx l'”occasione storica” che la Russia
rischiava di perdere risulta chiaro dagli appunti preparatori
della lettera alla Zasulic: la possibilità per un modo
comunitario di relazione sociale, quale quello della comune
rurale russa, di “appropriarsi le conquiste positive del sistema
capitalistico senza passare per le sue forche caudine”, cioè
senza “dover cominciare col proprio suicidio”, ed anzi
dimostrando, nel processo “di rigenerazione della società russa
… la superiorità sui paesi ancora asserviti dal regime
capitalistico”.
Ho voluto riprendere così lungamente queste note di Marx su una
questione che ha per noi la distanza della storia, perché
testimoniano quale fosse l’effettivo punto di vista del Marx
giunto alla conclusione del suo lungo percorso intellettuale e
politico. Di fronte al conflitto fra la potenza dissolutrice del
denaro nella sua funzione di capitale – che irrompe sulla scena
di un paese non ancora pienamente sviluppato – e le preesistenti
formazioni sociali di tipo comunistico, quindi non ancora
assoggettate agli “automatismi del mercato” e alla conseguente
atomizzazione delle relazioni sociali, Marx riteneva possibile
una pratica che né si attestasse su posizioni “reazionarie” di
difesa dei vecchi istituti né accettasse come inevitabile pagare
i “prezzi della modernizzazione capitalistica”. Anzi, riteneva
Marx, proprio il carattere pubblico e comunitario di tali
istituti li rendeva soggetti fondamentali nella lotta per il
superamento della società borghese, avendo qualcosa da insegnare
ai soggetti il cui orizzonte di vita è costituito dai “paesi
ancora asserviti dal regime capitalistico”.
La possibilità di questo nuovo sviluppo storico si fondava, per
Marx, sulla contemporaneità fra la esistenza di antichi istituti
comunitari e lo sviluppo del modo di produzione capitalistico
sulla cui base si sono sviluppati tanto i processi di
universalizzazione delle relazioni sociali quanto l’emergere del
valore della individualità con la connessa idea moderna di
libertà: “se la rivoluzione russa diverrà il segnale di una
rivoluzione proletaria in Occidente, in modo che le due
rivoluzioni si completino a vicenda
(sottolineatura mia),
allora l’odierna proprietà comune della terra in Russia potrà
servire come punto di partenza ad uno sviluppo in senso
comunistico” (prefazione alla edizione russa del
Manifesto, il 21 gennaio 1882).
E’ impossibile non rimanere colpiti dalla assonanza fra queste
osservazioni marxiane e ciò di cui è espressione il “popolo di
Porto Alegre”: la realtà composita di un movimento in cui
esperienze fondate su pratiche comunitarie, di resistenza alla
penetrazione del capitale in settori non ancora interamente posti
sotto il suo dominio – perché sino ad un certo momento ancora non
ritenuti utilizzabili ai fini della sua accumulazione – si
mescolano alle esperienze critiche sviluppatesi dove più estremo
è stato il processo di “atomizzazione” e “astrattificazione”
della vita e “desertificazione dell’universo di senso”.
L’assonanza che mi sembra di trovare fra questa vecchia polemica
marxiana e gli inediti compiti che ci troviamo innanzi,
indica, mi sembra, quanto lunga sia stata la fase della sua
gestazione, cioè l’intera epoca storica in cui è storicamente
posto il problema del superamento del denaro come forma della
sintesi sociale, cioè il dominio del rapporto sociale di capitale
sull’intero delle relazioni sociali. D’altra parte proprio questa
definizione dell’epoca contemporanea come epoca di transizione
verso un nuovo mondo, possibile e necessario,
fondava per Marx (come chiarito nelle note preparatorie della
lettera alla Zasulic) la possibilità che antichi istituti
comunitari e modi di produzione non assoggettati alla legge del
capitale assumano un ruolo fondamentale nel processo di
liberazione dalle forme storiche del dominio, dello sfruttamento
e dell’alienazione, anziché essere consegnate alla pattumiera
della storia.
Così, se, come spesso ci ricorda Cavallaro, il nodo che abbiamo
da sciogliere è quello di superare/sopprimere il dominio del
denaro (capitale) nella determinazione del quanto, come e cosa
produrre, è altrettanto vero che questo compito, che segna per le
sue dimensioni una intera epoca storica, non può essere ridotto
alla definizione di una autorità centrale (a livello planetario),
ma ci riconsegna il problema della invenzione e
costruzione di percorsi decisori pubblici e democratici,
non (più) mutuabili dalle esperienze degli stati nazionali, senza
ovviamente con ciò volere demonizzare le esperienze del
novecento, né darne una rappresentazione caricaturale, come
troppo spesso capita di leggere.
Questa invenzione storica, anche di articolazioni istituzionali,
oltre che economici e sociali, può essere solo il prodotto di un
movimento in cui cooperino creativamente tutti i soggetti che già
oggi fanno pratica (contraddittoria quanto si vuole) di relazioni
sociali non mercantili e non autoritarie.
Non è un caso, io credo, che anche su questo punto le assonanze
fra le attuali esperienze del “popolo di Porto Alegre” e le
valutazioni espresse da Marx sulla Comune di Parigi e nella sua
Critica al Programma di Gotha – con cui ruppe con la
cultura lavorista e statal-nazionalista del movimento socialista
europeo – ci obblighino a sviluppare uno sguardo capace di
interrogare il tempo presente in tutta l’ampiezza dell’unico
destino che vincola tutti viventi sulla Terra da quando essa, con
la conquista delle Nuove Indie, è stata progressivamente posta
sotto il doppio dominio della spada e del
denaro.

[da il manifesto del 11 Settembre 2001]