di Enzo Siciliano

835938.jpgTema dell´addio è il titolo dell´ultimo libro di versi di Milo De Angelis (Mondadori, pagg. 90, euro 9,40). «Io so la scienza dei commiati, appresa / fra lamenti notturni e chiome sciolte», è l´incipit di una delle più belle poesie di Osip Mandel´stam, Tristia. Durante la lettura di quest´ultimo De Angelis quel distico del poeta russo mi è tornato in mente più volte. Così mi tornavano in mente gli Xenia di Montale, ma per ricavare differenze.
Il libro di De Angelis ha il carattere di un obolo funerario, o, per usare una formula, dell´elaborazione di un lutto: la morte della moglie, una poetessa che conoscevamo bene, Giovanna Sicari. Negli Xenia montaliani è altrettanto la morte della propria compagna, quasi preparata lungo un´intera vita, a venire rielaborata: e rimangono barlumi di ricordi a comporre il puzzle di un rapporto coniugale tenero e intenso.

L’ultimo soffio della tua vita

Si consuma un´aspettativa nell´accumularsi degli anni in Montale. In De Angelis la morte ha lacerato un diverso tempo che ancora non conosceva limite o consumo. Conosceva la precarietà assiderante di una vita che per chi vive in una metropoli è solo sofferta e penosa.
Arriva improvvisa la certezza della malattia, e si vorrebbe scardinarne la stessa eventualità, ma attorno, all´esterno del cerchio chiuso dell´affetto e dell´amore, al di fuori delle mura di casa, nei tram che sferragliano risonanti per strada su binari rosicchiati dall´usura, si affannano esistenze dentro cui tutto è bruciato, tutto consiste e tutto, contemporaneamente non è. «L´essenza della carne ferita / vagava tra due muri, / l´amore usciva / dal presente e il lenzuolo / dei volti era lì, ed era cemento / tra le dita ed era buio / tutta la luce era chiusa / nel petto, tutte le parvenze / della rosa, tutta la forza / dell´ora persa».
Sono poesie, una sull´altra, allacciate in un unico racconto ideale dalla forza d´una musica interiore. E il racconto scivola di continuo fra il ricordo dello spavento e del dolore vissuto in due, e la solitudine subentrata poi, con uno strazio che non riesce a medicarsi se non nella parola. «Ci teniamo vicini / all´urlo, mentre passa il dodici / e l´attimo separato / dal suo vortice resta qui, nel cuore / buio dell´estate, nell´annuncio / di una volta sola. Tu / non ci sei. Resta la tua assoluta / voce nella segreteria, questa / morte che non ha luogo».
De Angelis ha passato i cinquant´anni. Dal momento in cui pubblicò il suo primo libro di versi nel 1976, Somiglianze, ha conquistato presso molti lettori quasi un culto – riparata la sua poesia, sempre, dal frastuono delle cronache e delle suggestioni corsive, forse troppo riparata in alcuni momenti dietro uno schermo di simboli e immagini orfiche. La sua è sempre stata una voce scandita all´interno di una meditazione più che controllata.
Ma in questo nuovo libro ha fatto irruzione la vita con i suoi tratti più crudeli, e la poesia riesce a coglierne i dovuti esclamativi, la rabbia, la rivolta. «Dove ondeggiava il sangue, dove il perfetto / insieme era più nostro, c´è l´ombra / del geranio, le sostanze crocifisse, / un metro d´asfalto e di nulla / e il respiro è d´asfalto, le labbra d´asfalto, / il silenzio e l´andarsene / sono d´asfalto. L´ultimatum, anche quello, / ce l´ha dato l´asfalto, l´asfalto».
Dunque, è questa una “scienza dell´addio”, secondo il dettato di Mandel´stam? Diciamo che è, in metafora, un sapere votato a doppiare in una esistenza diversa quell´esistenza che è stata strappata dalla morte – e questa esistenza nuova è appunto quella provocata dalla parola, dalla musica lacerata e segretamente lacerante che nasce dalla scansione del verso.
De Angelis ha voluto fare uso di una particolare modalità, e il titolo dato al libro rende esplicito di che modalità si tratti. Il “tema” in questione è da intendersi al modo musicale – tema con variazioni, replica numerata di un´emozione secondo apparenze diverse ma progressive.
Ogni poesia scatta sull´irrecuperabile addio alla propria compagna, ma ogni addio ritrova un momento, una figura, briciole di ricordi dentro cui si cristallizza una realtà nuova, tutta lirica, tutta poetica, per la fragile eternità possibile che essa tenterà di suggerire. «Sei un lontano passo di danza / mentre saluti tra i corridoi, un ventaglio di grazia che il male / non ha ucciso, diagonale / tra i quattro cantoni, silenzio / di fate e di foglie, finché il giallo / si fa scuro, si fa minaccia nel cielo, / il sorriso fragile e la gola / resta lì, sospesa e selvaggia».
È molto difficile, oltre la sponda dei versi, trovare altre parole per spiegare questa poesia, nuda nella sua complessità, diretta e immediata nel suo dolente pensiero. Ogni pagina è come un ricominciare da capo, ma nel leggere e rileggere non proviamo neppure un acino di sazietà.
Ci sentiamo confusi con quel dolore addosso e percepiamo una possibile fonte di bellezza al fondo di esso, o la lena trasfigurante di un ardore che riesce a illuminare gli angoli più bui dell´angoscia, o a raggiungere una scienza della felicità dove sembrerebbe per essa non esservi spazio.
«Talvolta è stato attendere nel buio / la felicità degli atleti, la chiara / fantasia sulla pista, i bei giocolieri, / talvolta è stato un blocco di partenza, / una melodia invocata tra le note / più disperse, i cuscini, le scale mobili / dell´ultima estate, dell´ultima / frase che respira in tutte». Ogni poesia propone attimi di vita, vortici di immagini, ma, ancora di più, l´amoroso rapporto che tentava di resistere alla devastazione della malattia con la forza della tenerezza e l´estasi della passione. E in questo ci sono momenti di pathos contagioso.
«Mi saluti, ti rimetti il reggiseno, senti / che puoi smarrire il codice terrestre, demolire / il nucleo, precipitare nel buio. Vai verso la doccia. / Ricordi un nove e ottanta a corpo libero, / una primavera della pelle, una diagonale perfetta. / Dall´incubo estrai una forcina, ti aggiusti / i capelli, indossi la cuffia, chiedi soltanto / di essere risparmiata». Fra ricordi di vita e paura incombente («ti cerchi / e ti consumi, affiori, graffi, ti aggrappi / urlando che questo è il bene eterno») cresce un´inquietudine che si trasforma in sconvolgente disperazione.
E se c´è un rapporto residuo fra gli amanti in questa tormentosa agonia, lui si fa coraggio per coglierlo, un coraggio che sfiora la crudeltà: «Ti rispondo che ogni dimora / si allontana da chi l´abita, che è la nostra / ultima recita».
Spero di aver suggerito al lettore la qualità umana di questo libro – un fatto raro nelle nostre lettere ormai. E il miracolo del dolore che qui ha avuto la meglio, proprio di quel dolore cui diciamo no di continuo sapendo che una volta o l´altra ci prenderà al laccio. Ma Tema dell´addio, oltre a questa qualità, ha anche quella, come ho detto, di parlare del mondo che assedia i due amanti disperati al di là delle pareti in cui sono rinchiusi con il loro spavento.
E fuori lo spavento non è diverso, lo sgretolamento delle cose e l´affanno degli animi hanno ferite, come quella nel seno dell´ammalata, senza più “contorni”. Insomma, abbiamo fra le mani pagine di una narrazione straziante e dolcissima.

[da la Repubblica]