Che cosa abbiano trovato in Donnie Darko i milioni di cultori di questo fu flop dei botteghini è difficile e facile a dirsi. Donnie Darko è la creatura di Richard Kelly che, nel 2001, incassò pochissimo ed ebbe breve vita nelle sale americane. Trascinato, tuttavia, da un crescente e autentico fenomeno di adorazione di massa sotterranea, ora Donnie Darko riesce in superficie. I suoi fan, che assommano il peggio della cinefilia intellettualoide di mezzo pianeta e una vasta schiera di idioti zeppati, parlano come capolavoro a proposito della pellicola interpretata da Drew Barrymore, Patrick Swayze, Mary Mc Donnell e dal giovane protagonista Jake Gyllenhaal. Si tratta di un mélange che esalta gli anni Ottanta, investendoli di quell’aura improbabile e paraconfettosa che ha fatto il successo di altri “capolavori”, da American Beauty a Vanilla Sky a Magnolia.
Apocalisse e new age a intensità ridotte, ucronie e viaggi nel tempo, un po’ di horror tra Halloween e Scream, strizzatine d’occhio alle soap d’ambientazione college, spruzzate del Notorius degli Arcadia (praticamente, i Duran Duran), un po’ di Famiglia Keaton e Happiness: dalla defunta “contaminazione dei generi” si è passati direttamente alla contaminazione da generi, con un prodotto ad alta radioattività intellettuale: attenti a esporre il cerebro.
La storia è questa. Donnie Darko è un quindicenne di buona famiglia, vive nella casetta monofamigliare col pratino in quel di Middlesex (la stessa località in cui si compie la saga fintoepica dell’omonimo romanzo di Jeffrey Eugenides, vincitore di due Pulitzer fa). Donnie è uno schizoparanoide borderline, summa di tutte le dissociazioni possibili a cui il Digest delle patologie psichiatriche vota l’adolescente contemporaneo. Solo che Donnie non è un adolescente contemporaneo. Vive nel 1988, proprio mentre George Bush vecchio sta contendendo la presidenza a quella nullità passeggera che fu Michael Dukakis.
Un bel dì, Donnie, che è anche sonnambulo oltre che dissociato, e ha le allucinazioni, si salva uscendo di casa perchè segue le istruzioni di un coniglione gigante, a metà tra Harvey e Alice nel Paese delle Meraviglie e Freddy Krueger e Francis l’Asino Parlante. Il coniglione allucinatorio detta i tempi per la fine del mondo: mancano poco più di ventotto giorni. Il coniglione fa paura quanto le creature dell’ultimo Dario Argento, per intenderci. Fatto sta che, uscendo in preda alle allucinazioni, Donnie si salva dall’assurdo incidente che distrugge la sua camera: un motore di aeroplano, caduto da non si sa che aereo (si saprà alla fine del film), piomba sulla sua stanzetta da perfetto teen-ager wasp.
Seguono poi, per tutti gli interminabili 28 giorni che dovrebbero condurre alla fine del mondo, i turbamenti del giovane Darko: il college coi cattivi e le fighe e le immigrate ciccione cinesi, vari amorini e vessazioni, allagamenti come nel caso del liceo Parini di Milano, vandalismi osé, sedute di psicoterapia a base di ipnosi, arresti di pedofili, vecchiette ex suore e neoeinstein, mamme tenerissime e alienate, papà pre-neocon, fisica quantistica in base ai deliri di Stephen Hawking, viaggi nel tempo, citazioni dei cult anni Ottanta (i Puffi son così, Ritorno al futuro, le canzonette dei Tears for Fears). Gran finale surreale con tanto di ineluttabilità e gioviale indifferenza della morte.
Insomma: un fancazzismo giovanilista in salsa neoesistenzialista, ma laccato e variopinto, e che potrebbe tradursi in una sorta di veltronismo all’americana, essendo il veltronismo una sorta di kennedysmo all’amatriciana. Una versione edulcorata dell’assolutismo ferocemente nichilistico del Fight Club di Fincher. Idealismo da stronzi di balera ad altezza 2004: distruggere tutto perché tutto fa schifo, conta solo la propria identità, che peraltro è inesistente eppure è importantissima.
C’è anche – càspita – la difesa della letteratura, quella tosta e aggressiva, con tanto di riferimento a Capitano, mio capitano!, qui usando Greene al posto di Whitman.
La supposta straordinarietà della rete di ucronie, il molto conclamato splendore della struttura circolare, i comici rimandi interni e la superficialissima patina fisico/filosofica sono belletti che fanno ridere i polli. O le galline: come le galline, infatti, Donnie Darko rimane sempre dietro la riga del finto capolavoro, in piena area Tutti pazzi per Mary.
Ci frega assai che sia deflagrato il culto di un sottoprodotto simile della sottocultura cinematografica e di costume. Il film fa schifo, se siete sottoculturati andatelo a vedere con gioia: vi propinerà tutto il trash di cui avete bisogno, ma senza dichiararlo, spacciandolo del tutto naturalmente per uno di quei gommoni rosa zuccherini che, ai cultori della spazzatura, sembrano uguali se non superiori al caviale.
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