JStroud.jpgdi Silvia Arzola

JStroudcover.jpgSopravvissuto al metissage e alla ‘rivalutazione’ dei generi, il fantasy si attesta quale unica forma di narrativa popolare e intergenerazionale. Attingendo a immaginari diversi e stratificati, decisamente libero nel gioco combinatorio di temi e tradizioni, il fantasy soffre comunque di una certa legnosità simbolica, vincolato come è a quella impalcatura metastorica che lo inchioda a una recezione semiesoterica e lo configura, contemporaneamente, quale prodotto di evasione per eccellenza.
In questo panorama Jonathan Stroud col suo Amuleto di Samarcanda (Salani 2004) si distingue non solo per originalità, ma soprattutto per intenzione, confezionando un fantasy scopertamente attuale ed eretico. Eretico in senso quasi etimologico. Infatti mentre un Terry Pratchett, giocando magistralmente sul rovesciamento degli stereotipi tradizionali, si limita ad allestire una pur brillantissima operazione parodica, Stroud delle stereotipo annulla le premesse, ricodificandone la funzione.

Nathan, il protagonista, ha l’età di Potter ed è un senza famiglia. Ma la sua orfanità non contiene alcun presagio di destino, al contrario (è stato venduto dai genitori) ne sancisce un’origine meno che ordinaria. A partire da questo semplice assunto Stroud può modellare un universo controsimbolico libero da quell’apparato intimamente reazionario che contraddistingue generalmente il fantasy e che costringe lo stereotipo ‘fiabesco’ a uno sviluppo necessario quanto prevedibile.
E’ vero che già con l’ingresso di Potter il genere sembra stemperare la propria vocazione massimalista in un décor spurio, addirittura ostile all’estetica eroica del medioevo germanico di Tolkien e dei suoi epigoni. Eppure, a ben vedere, Tolkien e Rowling (per solo citare i due estremi più noti del fenomeno), benché attingano a immaginari incompatibili, rispondono alle medesime esigenze di senso mutuate, in definitiva, dalla tradizione del romanzo cavalleresco: vi si rintraccia infatti il tipico percorso di formazione dell’eroe, destinato a culminare in un’agnizione spirituale circa la propria origine e il proprio destino.
Lungo questa traiettoria, che fa dell’avventura lo spazio simbolico eminente, l’eroe si troverà sì costretto a combattere lo status quo, ma non allo scopo di rovesciarlo quanto di rifondarne le ragioni: per ristabilire un fronte manicheo che ribadisca, una volta epurata, la nobiltà ‘originaria’ della gerarchia. In questo senso il fantasy si fa carico dell’orrore del Dominio ma, attraverso una splendida mistificazione, ne sancisce la validità, rafforzata da un orizzonte magico che fa del diritto al potere una sorta di dovere elettivo.
Stroud, alterando questo archetipo, si riserva di indicare l’orrore inscritto nel binomio magia/potere, immaginando un mondo esplicitamente contemporaneo in cui i maghi altro non sono che l’establishment politico ed economico di un certo Impero inglese in continua guerra con potenze rivali, rette a loro volta da magici faccendieri. L’apprendistato di mago va così a coincidere con l’iniziazione a un potere che non ha nulla di nobile né di elettivo, e la trasmissione del sapere magico, priva di ogni fascino rituale, si limita a un cupa e dolorosa pratica di dominio/sfruttamento.
Con un prezioso coraggio antiglamour Stroud ripulisce dunque la magia da ogni pretesa sapienziale e mette a nudo il nocciolo di molta ipocrisia esoterica: il mago non è colui che conosce i segreti più profondi della ‘natura’, ma colui che pretende di ordire i segreti della società. Non solo, il mago è un parassita: un essere brutale che copre con una messinscena rituale un semplice processo di sfuttamento. In Stroud, infatti, la catena del dominio magico non si regge sulla capacità diretta di controllare la ‘materia’, ma sulla sottomissione sistematica di spiriti ancestrali, i Jiin.
Convocati loro malgrado e resi schiavi dagli odiati maghi, i geni, o demoni che dir si voglia, mediano tra il mago e la ‘materia’, offrono al ‘Potere’ la possibilità di mantenere i propri privilegi e di dominare sulla gente comune, ma, alla stregua della tecnologia nella SF, si dimostreranno strumenti necessari quanto incontrollabili.
Sarà proprio l’incontro tra Nathan, l’orfano ambizioso e l’antico genio persiano Bartimaeus a produrre una sovversione, quasi casuale, all’interno del sistema di potere già minacciato da una fantomatica Resistenza. L’incontro di due entità che sfidano la retorica del destino imprime un deragliamento anarchico, fuori dai binari della ‘necessità’ di genere. E ciò a dimostrazione che il Destino non è che un pregiudizio: una forma di propaganda del potere per il potere.
Incontrare Stroud, dopo aver letto il prodotto più materialista della tradizione del Fantasy, obbliga a parlare di politica oltre che di letteratura.

Leggendo il libro ho avuto la sensazione che dietro la vicenda fantastica si celi una metafora precisa del momento storico. Tutti questi demoni antichi di area mediorientale, ricordano la politica da apprendisti stregoni che le potenze occidentali hanno praticato fino agli anni 90 col mondo musulmano …

In realtà quando ho iniziato a scrivere il libro, nel settembre del 2001, l’unica idea forte era quella di rappresentare i maghi come una élite politica corrotta. In Gran Bretagna c’è una grande divario tra la politica e la gente comune. Un divario che viene vissuto con insofferenza o indifferenza, volevo segnalare questo distacco tra la politica e i suoi riti e le persone. Oltre a ciò mi affascinava l’idea di recuperare la tradizione orientale dei jinn. Poi, mentre scrivevo e si sviluppavano gli eventi politici, mi sono reso conto il collegamento con i fatti recenti poteva apparire fondato. Non a caso ho inserito nelle riflessioni di Bartimeaus (il Jinn protagonista) un paio di note su Bagdad e Bassora.

Leggendo si ha l’impressione che tu abbia voluto creare l’anti Potter, se non addirittura l’antifantasy. Il protagonista ha undici anni ed è l’opposto di Potter. Non solo, in Potter le gerarchie magiche sono ancora dotate di senso e di una certa sacralità, qui tutto si sfalda in una dimensione quasi amorale…, non c’è nemmeno un Grande Malvagio solo cupidigia e meschinità etc.

Sin dall’inizio ho deciso di fare un libro che andasse contro la tradizione ‘familiare’. Non per spirito polemico, rispetto il fantasy inglese e mi piace molto la Rowling. Ma, da un lato, sul piano commerciale, avevo bisogno di creare un prodotto che si diversificasse fortemente dalla media del dopo -Potter, dall’altra mi interessava fare qualcosa che parlasse del presente. Con Bartimeaus, che è il vero protagonista del libro, credo di aver creato un antieroe anarchico e terribilmente spiritoso.

La letterattura fantastica inglese mostra spesso un manicheismo di fondo. I nomi dei grandi malvagi o dei ‘luoghi del male’, contengano talvolta al loro interno la radice di mors latina: Moriarty, Voldemort, Mordor e ciò a sottolineare l’aspetto emblematico del male. Il tuo cattivo, invece si chiama Lovelace…

Beh naturalmente è una scelta ironica. Non bisogna dimenticare che Lovelace è un politico, ho scelto un nome che insinuasse la stucchevolezza della propaganda.

A tratti mi è sembrato di leggere un libro di fantascienza, qualcosa che ha a che vedere con la paranoia del futuro.

Ora che mi ci fai pensare è vero. Però penso alla SF di un Philip Dick, che è l’unico autore di SF che amo. In effetti la magia nel mio romanzo ha la funzione di uno strumento. Uno strumento equivoco come la tecnologia in Dick.

Anche l’ambientazione così dark, quasi postatomica …

Ho voluto ricostruire una Londra che attualizzasse le atmosfere di Conan Doyle e Dickens. E’ una citta moderna, ma con una modernità sottotono.

Fantascienza, Fantasy, ma anche video games, cinema d’azione e filosofia: un immaginario vastissimo.

Credo di essere una gazza ladra. Rubo da varie tradizioni e leggende, e innesto il tutto su una sensibilità che è quella in cui sono cresciuto: appartengo alla generazione che si è nutrita di video games e action movies. Poi, chiaramente, tutto quanto viene accordato su una scala più intima…

Cosa c’è dietro questi maghi meschini, arricchiti, fatui, un semplice disegno letterario o un avvertimento?

C’è innanzitutto il riflesso della mia sfiducia. Ma nel libro c’è anche il riflesso delle mie speranze. Nella relazione di amicizia tra Nathan e Bartimeaus si scorge la possibilità di salvarsi. Dal secondo volume in poi arriveranno ad interagire anche con una ragazzina protagonista della Resistenza. Quello che mi sta a cuore è mostrare la complessità dell’amicizia come via di scampo.

Jonathan Stroud è nato in Inghilterra nel 1970. Laureato in letteratura inglese, ha fatto a lungo il redattore e ha pubblicato tre libri per l’infanzia. Per scrivere L’amuleto si è licenziato, provando a campare solo di scrittura. A suo rischio e pericolo.