spgl.jpgdi Mauro Trotta
[da il Manifesto]

Per comprendere più a fondo le dinamiche, i processi, i meccanismi della globalizzazione ormai imperante è fondamentale allargare quanto più è possibile lo sguardo, adoperando approcci e strumenti critici differenti. Se finora l’analisi si è focalizzata soprattutto sugli aspetti economici, politici e sociologici, un testo come Gli spazi della globalizzazione. Flussi finanziari, migrazioni e trasferimento di tecnologie, a cura di Fabio Massimo Parenti (Diabasis, Reggio Emilia, pp. 231, € 16) ha il merito di proporre un percorso metodologico diverso. È l’approccio «spaziale», geografico, che – come del resto suggerisce il titolo – viene proposto come chiave di volta per poter descrivere e comprendere le profonde trasformazioni in atto. Questo, naturalmente, non significa trascurare le implicazioni socio-economiche e politiche, ma cercare di analizzarle da un altro punto di vista. Come afferma il curatore, proprio all’inizio del primo dei quattro saggi che compongono il libro, lo scopo «è indagare sul modo in cui si stanno riconfigurando negli ultimi decenni gli spazi politici, economici e sociali dell’agire umano», tentando così di «contribuire a una maggiore comprensione delle dinamiche mondiali in corso e iniziare a costruire nuove categorie per leggere e interpretare un mondo in profonda trasformazione».

I flussi del pianeta
In questo scritto Parenti pone dunque premesse di carattere metodologico, portando però avanti un’analisi, densa e serrata, sul concetto di spazio, indagandone le implicazioni d’ordine antropologico e politico, geografico ed economico. Il tentativo è di delineare i processi principali «attraverso i quali è possibile giungere a un’identificazione della globalizzazione e a una sua parziale “visualizzazione”». E i processi – sociali, economici e politici – sono esaminati in termini di quella intedipendenza tra realtà nazionali o regionali che sono messe in relazione tra loro tramite flussi di informazione, di capitali e di migrazioni.
Prende così forma un variegato panorama della globalizzazione, caratterizzato appunto da macroregioni e microregioni, attraversate e messe in rapporto da flussi migratori, commerciali, finanziari, tecnologici. Si delineano le relazioni tra stati-nazioni e regioni, mentre un’attenzione particolare viene assegnata ai rapporti tra globale e locale, arrivando gradualmente a un esame critico delle «classiche» dicotomie Nord-Sud, Est-Ovest. Si pongono, insomma le basi per un discorso che si svilupperà in tutto il libro dove è contemplata la possibilità di giungere a risultati e punti di vista anche diversi tra loro, ma comunque caratterizzati dal tentativo di rendere evidente la complessità insita nei processi messi in moto dalla globalizzazione, il loro essere comunque sempre in fieri e sempre in mutamento e «il cui movimento è dato proprio a partire da differenze spaziali mutevoli».
E se questa è la premessa metodologica, il saggio di Roberto Panizza, professore di economia internazionale all’università di Torino, punta a descrivere movimenti internazionali di capitali dal Rinascimento ai giorni nostri. Ancora una volta si parla di flussi, questa volta prevalentemente finanziari e commerciali. Ma anche di luoghi: si segue, infatti, l’emergere, il consolidarsi e il crollare dei grandi centri economici che si sono succeduti nel corso dei secoli: da Siena a Firenze, da Genova all’Olanda, da Londra agli Stati Uniti, all’Europa, alla Cina. Con chiarezza, Panizza ricostruisce le vicende fondamentali che hanno portato all’attuale situazione, soffermandosi in particolare sul periodo che inizia con la fine del secondo conflitto mondiale, identificando nell’assoluta centralità dei mercati finanziari e nelle profonde innovazioni sia di processo, sia di prodotto, introdotte negli anni Ottanta in conseguenza dell’affermarsi delle teorie monetariste, il momento topico per l’avvio dei processi di globalizzazione neoliberista.
Nel corso dell’analisi si cerca anche di far luce su alcune vicende poco chiare e poco conosciute, come, ad esempio, la continua svalutazione della lira nel corso degli anni Settanta.
Con encomiabile chiarezza, Panizza ricostruisce le continue operazioni di cessione e riacquisto di lire a brevissimo termine – chiamate tecnicamente swap – effettuate da banche italiane in modo illecito, dal momento che si utilizzavano anche i soldi presenti nei depositi dei clienti, con la complicità della Banca d’Italia e di grandi banche straniere. Attraverso queste ultime, gli istituti di credito italiani vendevano, ad apertura dei mercati, grandi quantitativi di valuta nazionale, causandone la svalutazione. A fine seduta, utilizzando parte della valuta straniera incamerata, veniva riacquistata la stessa quantità di lire, ma a un prezzo decisamente più conveniente a causa, appunto, della svalutazione. I dollari o i marchi rimasti erano divisi tra le banche straniere, che avevano materialmente compiuto l’operazione, e quelle italiane, che gli avevano fornito i capitali. Intanto, i clienti vedevano diminuire il valore reale dei propri depositi bancari. In conclusione del suo saggio, Panizza afferma senza mezzi termini che «la libertà dei flussi finanziari è oggi eccessiva e presuppone una regolamentazione». Occorre, dunque, scoprire di nuovo «l’importanza della regolamentazione degli interessi individuali: tutte le iniziative solidaristiche o quelle di redistribuzione del reddito, come il Piano Marshall, hanno poi assicurato lunghi anni di benessere per tutti coloro che ne sono stati coinvolti».
Ai flussi dei migranti è dedicato invece il contributo di Umberto Melotti, docente di sociologia politica alla «Sapienza» di Roma (Le nuove migrazioni internazionali). Si tratta, in pratica, dello stesso testo pubblicato poco tempo fa per Bruno Mondadori con il titolo Migrazioni internazionali. Globalizzazione e culture politiche. Si apre con una periodizzazione del fenomeno in Europa, scandita da tre fasi – 1945-1973, 1973-1982 e dal 1982 a oggi – e con l’elenco di una serie di punti attraverso i quali si concretizzerebbero i rapporti tra globalizzazione e migrazioni. Si passa, poi, a esaminare, in maniera forse un po’ troppo succinta e generica, le culture dei principali paesi di immigrazione: dalla Francia dell’assimilazione o dell’integrazione degli immigrati all’Inghilterra delle «relazioni di razza e di etnia», agli Stati Uniti del melting pot prima, del multiculturalismo e dello «scontro tra civiltà» poi.
Se fino a questo punto, l’intervento sembra avere più le caratteristiche del pamphlet che del saggio – per la stringatezza delle argomentazioni e la mancanza di approfondimento – tale impressione si rafforza col procedere della trattazione. Quando passa a esaminare le scelte politiche e legislative compiute dall’Europa e, in particolare, dall’Italia, il testo di Melotti acquista la coloritura del pamphlet. Impegnato a difendere le proprie posizioni in favore di una rigida regolamentazione degli ingressi dei migranti, l’autore non rinuncia all’invettiva e definisce, senza però mai argomentare il giudizio sprezzante, «sedicenti “esperti”» chi non la pensa come lui, segnatamente Salvatore Palidda e Alessandro Dal Lago, oppure «”carismatico” missionario no-global» Alex Zanotelli. Ancora: Melotti afferma che «molti sociologi e teorici politici, quando parlano dell’immigrazione, sembrano gareggiare in demagogia con i più scriteriati esponenti no-global e si compiacciono di civettare con le tesi dei “cattivi maestri” ritornati di recente in auge». Qui il riferimento, citato esplicitamente nella versione dell’intervento pubblicata presso Bruno Mondadori, è a Toni Negri e a Impero. In questa visione, allora, non può sorprendere il giudizio sulla legge Bossi-Fini, definita «un insieme di misure equilibrate e ragionevoli, che rispondono in gran parte alle indicazioni delle istituzioni europee, anche se di attuazione tutt’altro che facile, date anche le carenze degli organi che dovrebbero curarne l’applicazione».

Tra Marx e Shumpeter

Il libro si conclude con un altro saggio di Fabio Massimo Parenti, incentrato sui flussi tecnologici e industriali. Partendo dalla teoria dell’innovazione di Schumpeter ed arrivando Marx, Parenti da un lato arriva a descrivere il sistema economico globalizzato come una sorta di rete «di reti informazionali, commerciali e produttive in movimento, che si fondano, in modo sempre più marcato, su un complesso mosaico di macro e micro regioni»; una rete a maglie larghe, però, «scheletrica», costellata di buchi neri e caratterizzata da uno sviluppo ineguale e da dinamiche continue di inclusione/esclusione di luoghi e gruppi umani. Dall’altro rilancia il concetto marxiano di tecnologia come rapporto sociale, e la centralità, dunque, della cooperazione come fondamento di ogni processo innovativo.
Interessante per la novità dell’approccio sperimentato, ricco di spunti, idee ed intuizioni, ma anche di interpretazioni francamente non condivisibili – in particolare per quel che concerne il discorso sulle migrazioni condotto da Melotti -, gli spazi della globalizzazione rappresenta un’analisi a tratti efficace sull’economia (e sulla società) mondiale e dei suoi processi costitutivi.