arafat.jpgAnzitutto: condoglianze al popolo di Palestina.
Dopo: alcune considerazioni. Ciò che è successo all’indomani dell’annuncio della morte cerebrale di Yasser Arafat – anzi, nemmeno all’indomani, ma proprio nel mentre – è a dire poco vergognoso. Ci si è accaniti sulle spoglie di un uomo che, come ogni uomo, è stato contraddittorio, tranne che nel suo coincidere con la causa di un popolo espropriato di tutto, dalla terra ai diritti: quello palestinese. Invece i soloni nostrani hanno messo in dubbio anche questo. Da Vespa, gente come Gustavo Selva e Magdi Allam, come agenti Cia dell’amministrazione Nixon, che fu la prima amministrazione Bush, sostenevano la tesi che Arafat fosse un corrotto amante dei suoi propri conti bancari, piuttosto che del popolo a cui ha dato quei cinquant’anni di esistenza che fanno curriculum. Inutili le proteste del rappresentante ANP in Italia, il quale faticava a fare considerare lo statuto delle proposte di Taba, a cui Arafat disse no perché calpestavano la realtà impressionante dei profughi. La tesi di un Arafat che avrebbe negato la pace per motivi narcisistici è dilagata su giornali e programmi neocon, compresa La Repubblica. Per ricordare cosa successe, e perché successe, a Taba, ci affidiamo a Maurizio Debanne di paceinmedioriente.it. [giuseppe genna]

LA QUESTIONE GERUSALEMME: DA CAMP DAVID A TABA

campdavid.jpgL’11 luglio del 2000 il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton convocò un vertice trilaterale con israeliani e palestinesi a Camp David nella speranza di concludere il proprio mandato con uno storico accordo di pace che avrebbe messo la parola fine al conflitto mediorientale. I tempi però non si dimostrarono maturi[1]. L’approccio differente delle due delegazioni, e dei due leaders in particolare, non agevolò i colloqui. Mentre gli israeliani volevano procedere punto per punto, i palestinesi, ancor prima di negoziare, avrebbero voluto vedersi riconoscere dalla controparte la piena sovranità su Gerusalemme Est. Arafat insisteva che bisognasse rispettare la legalità internazionale ai sensi della quale Gerusalemme Est, comprensiva della Città Vecchia, è intesa come territorio occupato. Barak, infrangendo un vecchio e consolidato tabù israeliano, accettò la divisione della città santa ma era disposto a concedere la piena sovranità palestinese solamente per i quartieri situati a nord-est e sud-est di Gerusalemme permettendo così ai palestinesi di costituire nel villaggio di Abu Dis la capitale del loro futuro Stato.

Nel tentativo di trovare una sintesi tra le due richieste, gli americani formularono “soluzioni creative” attingendo all’accordo Beilin-Abu Mazen[2]. Clinton, capendo che la partita si giocava intorno allo status della Città Vecchia, propose alle parti di dividerla in due: ai palestinesi il quartiere mussulmano e cristiano, agli israeliani il muro occidentale e i quartieri ebraico ed armeno. Sulla Spianata sarebbe potuta sventolare la bandiera palestinese in riconoscimento di una “sovranità simbolica” ma non effettiva[3]. Clinton assicurò Arafat che lo stesso tipo di sovranità sarebbe valso per le zone al di fuori delle mura, come i distretti Sheikh Jerrah, Salah a-Din, alle quali Barak avrebbe concesso una maggiore indipendenza in termini di amministrazione municipale.

Arafat bocciò questo piano perché, a suo giudizio, non riconosceva Gerusalemme Est come capitale dello Stato palestinese. Il presidente Clinton elaborò allora una nuova proposta: la Spianata delle moschee sarebbe rimasta sotto la sovranità israeliana ma la sua gestione sarebbe stata affidata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e al Marocco, in quanto presidente permanente della “Commissione Gerusalemme” degli Stati islamici. La delega all’Onu assicurava ai palestinesi di non sottostare ad un’autorità israeliana. Ma Arafat rifiutò anche questa proposta: non voleva essere ricordato dal mondo arabo-mussulmano come colui che aveva svenduto la Spianata delle moschee.

920067cdavid300.jpgClinton non si arrese elaborando una nuova proposta che avesse come principio cardine una definizione “verticale” della sovranità: ai palestinesi sarebbe stata riconosciuta la sovranità su quanto si trovava “sopra” il suolo della Spianata, agli israeliani la sovranità su quanto si trovava “sotto” il suolo della Spianata, cioè le rovine del secondo Tempio[4]. Ma nemmeno queste condizioni riuscirono ad evitare il fallimento delle trattative a cui gli americani attribuirono la responsabilità ad Arafat. Queste le parole del presidente Bill Clinton nella prima apparizione alla stampa: “Abbiamo fatto progressi sulle questioni principali e su alcune di esse i progressi sono stati sostanziali. I negoziatori palestinesi hanno lavorato sodo su un buon numero di questioni. Credo che a questo punto sia però corretto dire che, forse perché si è preparato di più, forse perché ci ha pensato di più, il primo ministro Barak ha fatto più passi avanti rispetto al presidente Arafat, specialmente per quanto riguarda la questione di Gerusalemme. I miei commenti dovrebbero essere presi per quello che sono, cioè non tanto una critica al presidente Arafat, poiché i negoziati sono molto difficili e non sono stati mai tentati prima, quanto un elogio per Barak. Era venuto qui sapendo di dover compiere passi coraggiosi e lo ha fatto; dovreste comprendere che quello che sto dicendo qui è più un apprezzamento nei suoi confronti che non una condanna della posizione palestinese”[5].

Ancora più esplicito nell’affibbiare la responsabilità del fallimento ad Arafat fu il premier israeliano Barak: “Arafat temeva di prendere decisioni storiche richieste per porre fine al conflitto. Sono state le posizioni di Arafat su Gerusalemme che hanno impedito la conclusione di un accordo. Noi avevamo in mente, e le nostre idee sono state illustrate in questa direzione, di rendere Gerusalemme più grande e più forte che mai nella storia, di annettere alla città varie zone in Cisgiordania, oltre il confine del 1967, come Maale Adumin, Givat Zeev e Gush Etzion. In cambio avremo dato la sovranità ai palestinesi su alcune città o piccole aree palestinesi che furono annesse Gerusalemme subito dopo il 1967. Sono state discusse queste idee, ma poiché il summit si svolgeva secondo il principio “Non viene accettato nulla fino a quando non sarà tutto concluso”, anche queste idee non sono più valide”[6].

Forte dell’appoggio dell’intero mondo arabo, Arafat respinse ogni accusa. Il presidente palestinese sostenne di essere stato invitato a Camp David non per negoziare ma semplicemente per accettare o meno le proposte israeliane già concordate con gli americani. Un vero e proprio diktat, secondo Arafat. Dal fallimento di Camp David nacquero comunque due nuove proposte, anch’esse però destinate al fallimento. Nella prima, il presidente egiziano Mubarak propose di rinviare a 5 o 10 anni la soluzione definitiva della questione di Gerusalemme e nel frattempo israeliani e palestinesi avrebbero convissuto in una città unita, ma con due amministrazioni distinte. Nella seconda, gli americani lanciarono una nuova “soluzione creativa” che prevedeva la divisione della Spianata delle moschee in 4 sezioni: il piazzale, le due moschee, il muro occidentale e il sottosuolo, ognuna con diverse graduazioni di autorità per ebrei e palestinesi. Entrambe le proposte incontrarono, anche per via del loro contenuto poco chiaro, un netto rifiuto.

Con questa ultima proposta si concludono i colloqui e i tentativi di pace e si aprono le porte alla seconda intifada che esplose il 28 settembre del 2000. Fu originata dalla visita provocatoria del leader del Likud, Ariel Sharon, alla Spianata delle moschee accompagnato da circa 1.000 poliziotti e uomini della sicurezza. La visita al Monte del Tempio intendeva suffragare la sovranità israeliana sul luogo sacro, oggetto di un interminabile contesa. Il giorno seguente la “passeggiata” Jibril Rajoub, capo della sicurezza in Cisgiordania, intervistato dal quotidiano israeliano Jerusalem Post, mise in guardia gli israeliani sulle inevitabili conseguenze del fatto: “I tumulti questa volta non saranno circoscritti alla città di Gerusalemme, ma si espanderanno in ogni angolo dei Territori e accenderanno aspre reazioni anche nei paesi arabi. I palestinesi non cercheranno di placare le sommosse, perché esse sono generate da un atto di aperta prevaricazione”[7]. In soli due giorni di scontri tra i palestinesi, non più armati di soli sassi come nella prima intifada, e le forze di sicurezza israeliane morirono decine di persone.

Malgrado il perpetuarsi delle violenze i negoziati continuarono faticosamente ad andare avanti tra l’ottobre 2000 e il gennaio 2001. Il 16 e il 17 ottobre, a Sharm el- Sheikh, venne convocato un vertice al quale presero parte, oltre alle delegazioni israeliana e palestinese, il presidente degli Stati Uniti Clinton, il re giordano Abdallah, il presidente egiziano Mubarak e il segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan. Barak e Arafat, pur non firmando alcun accordo, si impegnarono a far cessare gli scontri e accettarono l’invio di una missione americana, guidata dall’ex senatore Mitchell, che avrebbe indagato sugli eventi dell’intifada[8].

Alla Knesset intanto, il 27 novembre del 2000, passò a maggioranza schiacciante (84 voti contro 19) una legge di rango costituzionale che impedisce ogni cessione di sovranità sulla parte orientale di Gerusalemme[9]. La legge non fu però da ostacolo al rilancio delle iniziative di pace, il tabù sciolto da Barak a Camp David rimaneva valido.

Il 23 dicembre Clinton, il cui mandato sarebbe scaduto il 20 gennaio 2001, convocò le parti[10] alla Casa Bianca per annunciare le sue nuove proposte per una risoluzione del conflitto[11]. Il Piano prevedeva la cessione del 94-96% della Cisgiordania alla sovranità palestinese e l’evacuazione della maggior parte degli insediamenti israeliani. Il territorio annesso da Israele sarebbe dovuto essere compensato da uno scambio di terre in ragione dell’1-3%. Una forza internazionale, con una presenza militare israeliana per un periodo tra i tre e i sei anni, sarebbe stata dispiegata lungo la valle del Giordano. Per quanto riguarda Gerusalemme, il principio generale era una spartizione in base a criteri etnici: le zone arabe sotto la sovranità dei palestinesi, quelle ebraiche sotto la sovranità israeliana. Questo principio sarebbe valso anche per la Città Vecchia. Clinton era convinto che per la Spianata delle moschee/Monte del Tempio “le divergenze non sono da ricondurre all’amministrazione pratica, ma alle questioni simboliche implicate dalla sovranità e alla necessità di trovare un modo per assicurare rispetto alle credenze religiose di entrambe le parti”[12]. Per aggirare l’ostacolo “simbolico”, il presidente americano suggerì la seguente spartizione: sovranità palestinese sull’al-haram ash-Sharif e sovranità israeliana sul Muro del Pianto e sulla zona del “Santo dei Santi”, ossia l’area tra le due moschee.

Di ritorno a Tel Aviv la delegazione israeliana era entusiasta e certa che l’accordo fosse imminente. Barak decise di accettare il “Piano Clinton” come base per le trattative ma volle che Arafat facesse altrettanto.

Da Gaza il presidente palestinese rispose a Clinton con una lettera nella quale chiedeva maggiori garanzie e spiegazioni sulle sue proposte: “Ho bisogno di risposte chiare per un certo numero di domande riguardanti la percentuale di territori che sarebbero annessi e scambiati, la loro esatta localizzazione, la precisa demarcazione del Muro del Pianto, i suoi confini e la sua estensione, le conseguenze che ciò avrebbe per il principio di sovranità palestinese completa sull’al-haram ash-Sharif [13].

Con la mediazione egiziana partirono subito dei colloqui preparatori che portarono ai negoziati di Taba, iniziati il 21 gennaio 2001 e conclusisi il 27 dello stesso mese. Nessun americano fu presente al vertice perché la nuova amministrazione guidata dal repubblicano Gorge W. Bush non considerava allora il Medio Oriente tra le sue priorità in politica estera. C’era l’Unione europea con il suo inviato speciale per il Vicino Oriente Moratinos. Per la risoluzione del problema di Gerusalemme, le due delegazioni[14] si ispirarono ai parametri di Clinton basati sulla spartizione della sovranità secondo il “criterio etnico”. I palestinesi dichiararono di essere pronti a discutere le richieste israeliane relative agli insediamenti ebraici a Gerusalemme Est costruiti dopo il 1967 ma esclusero categoricamente la possibilità di far rientrare sotto la sovranità israeliana gli insediamenti Maale Adumin e Givat Zeev, posti al di fuori della municipalità. Le parti si dichiararono inoltre disponibili all’idea di una “città aperta” capitale di due stati: Yerushalayim di Israele e Al-Qods dello Stato di Palestina.

Le trattative questa volta non si arenarono sul destino di Gerusalemme, come a Camp David, ma sul problema dei rifugiati palestinesi[15]. I colloqui terminarono con una dichiarazione congiunta in cui si ammetteva di non essere giunti a un accordo ma al contempo Abu Ala e Ben Ami affermarono che comunque “erano stati fatti significativi passi in avanti e che l’accordo non era mai stato così vicino”. Il giorno successivo, il 28 gennaio, Barak decise di interrompere i colloqui con i palestinesi e di dedicare le settimane rimanenti alla sua campagna elettorale, il processo di pace era sospeso a tempo indeterminato. Con la vittoria schiacciante di Sharon, la più netta nella storia democratica di Israele — 62,4% dei voti contro il 37%,6% di Barak, anche se votarono solo il 59,1% degli aventi diritto – , e con la progressiva perdita di autorevolezza di Arafat, il treno della pace aveva finito le stazioni a disposizione.

IL DRAMMA DEI PROFUGHI PALESTINESI

Due furono le conseguenze della prima guerra arabo israeliana:
la fondazione dello Stato di Israele e la nascita del problema dei rifugiati
causato dalla fuga e dall’espulsione di circa 750.000 palestinesi dal territorio
dello Stato di Israele . Come esattamente 750.000 persone si sono trasformate in
profughi è il vero nodo del problema.

Una parte emigrò per propria volontà, considerandolo il male
minore o confidando nella forza degli eserciti arabi di annientare il nemico e
riconquistare l’intera Palestina; altri invece fuggirono perché coinvolti
direttamente nelle ostilità. Nelle due differenti motivazioni di esodo si
riflettono le caratteristiche delle due fasi della prima guerra arabo
israeliana.

Nella prima fase, quella della guerra civile, che va dal novembre 1947 al maggio
1948, fuggirono per scelta le persone appartenenti all’élite della società
araba: proprietari terrieri, alti funzionari, uomini d’affari, medici, avvocati,
commercianti e insegnanti. Possedendo le risorse necessarie per stabilirsi a
Beirut, il Cairo o Amman, scapparono perché non volevano essere coinvolti
direttamente nel conflitto. Questo esodo ebbe due effetti deleteri sulla
popolazione palestinese. In primo luogo, demoralizzò gli animi delle classi
inferiori rimaste ma soprattutto la fuga delle classi medio alte comportò la
chiusura di scuole, negozi, ospedali, uffici, generando disoccupazione e
povertà.

Nel seconda fase della guerra, che va dal maggio 1948 al
gennaio 1949, i palestinesi scapparono perché coinvolti direttamente nel
conflitto. Ad accelerare l’esodo fu l’eco della strage di Deir Yassin e la
conseguente diffusione della psicosi della fuga. Seppur in assenza di una
politica sistematica di espulsione , l’idea di scacciare le popolazioni arabe
crebbe nei sionisti parallelamente alla fiducia nella loro vittoria. Ai
comandanti militari fu richiesto di svuotare degli abitanti arabi molte città e
villaggi strategici in chiave difensiva e politica . L’obbiettivo era far
nascere uno Stato ebraico dai confini sicuri e con una minoranza araba il più
limitata possibile.

La metà dei rifugiati, circa 350.000 trovò riparo in Giordania,
di cui 280.000 a ovest del fiume Giordano, altri 200.000 si andarono ad
aggiungere ai 70.000 abitanti della Striscia di Gaza, territorio non ammesso ma
controllato dagli egiziani. Infine 100.000 si rifugiarono in Libano, 60.000 in
Siria e 4.000 in Iraq.

Alla fine della guerra Israele accettò di poter rimpatriare
100.000 rifugiati nel quadro di un accordo di pace complessivo ma la proposta fu
giudicata insufficiente dagli arabi. A parte la Giordania, che offrì loro la
cittadinanza e il diritto al lavoro, negli altri paesi i rifugiati furono
considerati esiliati apolidi e come tali vennero sistemati nei campi profughi
senza diritti . I regimi arabi erano infatti consapevoli che una loro rapida
assimilazione avrebbe in breve fatto scomparire la ragion d’essere
dell’opposizione contro Israele.

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò l’11 dicembre
1948 la risoluzione numero 194 in cui si affermava che ai rifugiati che avessero
voluto tornare alle proprie case e vivere in pace con i loro vicini si doveva
consentire di farlo. Nel caso non avessero scelto di fare rientro in Israele
avrebbero comunque avuto diritto ad un risarcimento per le proprietà perdute. Ma
già dall’ottobre del 1948 Israele stava facendo il massimo sforzo per creare le
condizioni che di fatto resero impossibile il rimpatrio. I dirigenti dello stato
ebraico utilizzarono la terra e le proprietà abbandonate per assorbire l’onda
dei nuovi immigrati che giungevano non solo dall’Europa ma anche dai paesi
arabi, da dove circa 600.000 ebrei furono espulsi. Gli ebrei allora
interpretarono l’esodo palestinese come un vero e proprio scambio di
popolazione.

Per alleviare le sofferenze dei rifugiati, le Nazioni Unite
costituirono l’UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine
Refugees) con il compito di provvedere alla loro sistemazione. Per quanto
volesse essere una misura temporanea, la sua costituzione ammetteva che i
rifugiati non sarebbero tornati nelle loro case.
Nella guerra dei sei giorni del 1967 il fenomeno, grazie anche alla rapida
vittoria israeliana, non assunse le dimensioni del 1948: non più di 200.000
palestinesi si aggiunsero ai 650.000 che già vivevano nel regno di Giordania. Ma
a più di cinquanta anni dalla Nakba l’UNRWA registra, alla fine del 2003,
poco
più di 4 milioni di rifugiati: 1.700.000 in Giordania, 650.000 nella West Bank,
900.000 nella Striscia di Gaza, 390.000 in Libano, 400.000 in Siria
. Tra questi
circa un terzo vive nei campi profughi. In base agli ultimi dati forniti dall’UNRWA
il 30 giugno del 2003, 176.514 nella West Bank in 19 campi, 478.854 nella
Striscia di Gaza in 8 campi, 222.125 in Libano in 12 campi, 119.766 in Siria in
10 campi e 304.430 in Giordania in 10 campi.

Nella West Bank i profughi, originari della regione centrale
della Palestina mandataria o loro discendenti, rappresentano circa il 30% della
popolazione. Di loro solo il 29% vive nei campi profughi, gli altri hanno
stabilito la propria casa nelle città o nei villaggi palestinesi.
Nella Striscia di Gaza la situazione è più critica: i profughi costituiscono il
75% della popolazione e più della metà di essi vive negli otto campi profughi
dell’UNRWA che a Gaza svolge gran parte del suo lavoro. Le condizioni igienico
sanitarie, causate dal sovraffollamento, sono disastrose e il 42% dei residenti
dei campi vive sotto la soglia di povertà. Va aggiunto che, con lo scoppio della
seconda intifada, molti lavoratori palestinesi di Gaza non hanno più potuto, a
causa delle imponenti misure di sicurezza adottate da Israele per proteggersi
dagli attacchi suicidi, recarsi ogni giorno nelle città israeliane per poter
lavorare.

La situazione in Libano è forse la più drammatica. Accolti con
favore nel 1948, i palestinesi esuli nel paese dei cedri sono oggi dal punto di
vista legale stranieri, non godono di alcun diritto e sono del tutto al di fuori
dalla vita economica e sociale del Libano. In conseguenza di questa politica
endemica di discriminazione i rifugiati si piegano ad ogni tipo di lavoro, a
cominciare da quello minorile. Come a Gaza, anche nei 12 campi profughi del
Libano il problema del sovraffollamento ha raggiunto proporzioni estreme, ad
esempio nel campo Ain el-Helwe, fino a 18 persone vivono in alloggi di 100 mq.

Condizioni di vita relativamente migliori sono state quelle concesse dalla
Giordania, il paese arabo che ospita il maggior numero di rifugiati. Ma sebbene
il regno haschemita abbia conferito loro la cittadinanza giordana, molti
continuano a ritenersi discriminati soprattutto nel mondo del lavoro.

LA QUESTIONE AL VERTICE DI TABA

Dietro al problema dei profughi si nasconde la questione demografica del
conflitto. Dal 1950 la popolazione ebraica superò quella araba grazie alle
grandi ondate irregolari di immigrati e all’esodo dei palestinesi. Lo Stato di
Israele, che ha sempre rifiutato di riconoscere la sua responsabilità storica su
questa tragedia, rifiuta l’ipotesi di rimpatrio perché equivarrebbe
all’annullamento della sua personalità ebraica. Dal canto loro i palestinesi
insistono per l’applicazione della risoluzione 194 e chiedono che a tutti i
rifugiati venga data la possibilità di far ritorno alle proprie case.

Nelle proposte elaborate dal presidente americano Bill Clinton
nel dicembre del 2000
la questione dei profughi veniva vista, così come quella
di Gerusalemme, più come un problema di forma che di sostanza. Clinton, sicuro
che Israele fosse pronto a riconoscere la sofferenza morale e materiale causata
al popolo palestinese come conseguenza della guerra del 1948, suggerì la
costituzione di una commissione internazionale al fine di rintracciare una
soluzione del problema che comprendesse le tre seguenti ipotesi: compensazione,
reinsediamento e riabilitazione.

Il principio guida era che qualsiasi soluzione dovesse tenere
conto delle esigenze di entrambe le parti e, nell’ottica dei due stati, che lo
stato palestinese sarebbe diventato il punto focale per i palestinesi e quello
israeliano degli israeliani. Nello specifico Clinton propose 5 possibili
sistemazioni per i profughi: il futuro stato palestinese, le aree di Israele
trasferire alla Palestina nello scambio di territori, riabilitazione in un paese
ospite, riabilitazione in un terzo paese e infine il reinsediamento nello stato
di Israele. Ovviamente per il reinsediamento negli stati ospiti, terzi e nello
stato di Israele sarebbe stato necessario il consenso di questi paesi.

Le proposte di Clinton furono, insieme
alla risoluzione 242, la
base del negoziato di Taba nel gennaio 2001. I palestinesi continuarono a
chiedere il riconoscimento del diritto al ritorno e l’individuazione di
soluzioni concrete per il reintegro ma Israele era disposto solo ad esprimere
“dispiacere per le conseguenze della guerra del 1948” anche perché, a suo
avviso, se gli arabi avessero accettato la spartizione della Palestina non ci
sarebbe stato alcun bisogno di una guerra e dunque non sarebbe mai nato il
problema dei rifugiati palestinesi. La distanza delle opinioni, colmabile solo
al raggiungimento di una lettura comune della storia, fece fallire il vertice.

 

NOTE

[1] Un’ottima descrizione su come le parti, in special modo i palestinesi, arrivarono a Camp David è fornita da Alessandra Schiavo, La vera storia di Camp David, in “Guerra Santa in Terra Santa”, Limes, n.2 2002, Gruppo editoriale L’Espresso, pp. 109-123. La Schiavo racconta che quando il presidente palestinese Arafat incontrò Dennis Ross e Madeleine Albright, giunti in Medio Oriente per esporre alle parti la possibilità di convocare un vertice, li avvertì che secondo lui l’iniziativa sarebbe stata votata al fallimento.

[2] Yossi Beilin e Abu Mazen elaborarono nel maggio 1996 in lunghi colloqui segreti un piano di pace per Gerusalemme in base al quale la città santa sarebbe stata “aperta e indivisibile”. I limiti municipali sarebbero stati estesi fino ad Abu Dis e a tutti gli insediamenti israeliani come Maale Adumim e Givat Zeev. La città sarebbe stata inoltre amministrata da un “Joint Higher Municipal Council”. Per una buona descrizione dell’accordo Beilin-Abu Mazen si veda Paolo Pieraccini ed Elena Dusi, Gerusalemme: un accordo possibile?, in “Israele/Palestina la terra stretta”, Limes, n.1 2001, Gruppo editoriale L’Espresso, pp. 107-109.

[3] Il responsabile dei servizi segreti israeliani propose anche la formazione di un corpo di polizia congiunto per il mantenimento della sicurezza nella città vecchia.

[4] Cfr. Alessandra Schiavo, La vera storia di Camp David, in “Guerra Santa in Terra Santa”, Limes, n.2 2002, Gruppo editoriale L’Espresso, p. 116.

[5] Cfr. Charles Enderlin, Storia del fallimento della pace tra Israele e Palestina, Newton & Compton Editori, 2003, p. 206.

[6] Cfr. Charles Enderlin, Storia del fallimento della pace tra Israele e Palestina, Newton & Compton Editori, 2003, p. 205.

[7] Danny Rubistein, Il mistero Arafat, Utet, 2003, p. 157.

[8] Con lui c’erano anche l’ex presidente turco Souleyman Demirel, il ministro degli Esteri norvegese Thorbjoern Jaglan e Javier Solana, alto rappresentante dell’Unione europea per gli Affari Esteri.

[9] La legge può comunque essere modificata a maggioranza assoluta, 61 voti su 120, totale dei seggi della Knesset.

[10] Erano presenti tra gli altri Madeleine Albright, Tennis Ross, Saeb Erekat, Mohammed Dahlan, Shlom Ben Ami, Gilead Sher.

[11] I parametri redatti personalmente dal presidente, consultabili nella appendice 1 documenti, rappresentano i criteri che a suo giudizio avrebbero dovuto ispirare la pace finale tra israeliani e palestinesi ma non i termini esatti dell’accordo.

[12] Charles Enderlin, Storia del fallimento della pace tra Israele e Palestina, Newton & Compton Editori, 2003, p. 257.

[13] Charles Enderlin, Storia del fallimento della pace tra Israele e Palestina, Newton & Compton Editori, 2003, p. 259.

[14] Quella israeliana era composta da: Shlomo Ben Ami, Amnon Lipkin-Shahak, Yossi Beilin e Yossi Sarid assistiti da Gilead Sher, Israel Hasson, pini Medan e Avraham Diechter. La delegazione palestinese era invece formata da: Abu Ala, Yasir Abed Rabbo, Nabil Shaat, Hassan Asfur e Mohammed Dahlan.

[15] La questione verrà analizzata nel prossimo paragrafo centrato sul problema dei profughi palestinesi.