Una riflessione su Il mitico muro, lettere di scrittori italiani a Lev Verscinin

di Adriano Petta (nella foto)

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Il mitico muro (a cura di Franco Zangrilli, EVA Edizioni, Venafro (IS) 2001) è l’epistolario di alcuni scrittori italiani a Lev Verscinin (n. a Mosca il 7 luglio 1926) , colui che ha tradotto in russo i capolavori della narrativa italiana degli ultimi 40 anni (oltre a testi teatrali, cinematografici, poesie). Contrariamente alle consuetudini di sempre e di ogni paese, Lev Verscinin non si è dedicato solamente alla traduzione, ma è stato lui a scoprire le opere, a contattare gli autori. Questa non è una peculiarità dei traduttori in quanto una parte di essi — come la germanista Silvia Bartoli — non vuole avere rapporti umani e sociali con gli autori bensì… rabdomantici, solamente attraverso il testo scritto, e le domande o le perplessità preferiscono trasmetterle all’autore attraverso la casa editrice. Lev Verscinin, invece, ha instaurato quasi sempre un rapporto di profonda amicizia con gli autori. E da questo rapporto ne sono scaturite un migliaio di lettere che, grazie al lavoro di cernita di Franco Zangrilli e dell’editore Amerigo Iannacone, sono diventate uno splendido testo di letteratura, di storia, di costume.

Manca l’epistolario di Lev Verscinin, ma è come se le sue parole vibrassero nelle risposte. Fortunatamente per noi le lettere sono state scritte precedentemente all’avvento di internet, con ritmi umani privi dell’attuale frenesia; dalla loro lettura scaturisce uno squarcio sul mondo della posta tradizionale, fatto di frequenti ritardi e di tentativi per aggirarli con la consegna diretta, approfittando o del viaggio d’un amico, o di una riunione di scrittori, o di un premio letterario, o di un qualunque evento artistico. Ma anche con questo metodo talvolta accadono eventi inaspettati, curiosi, e la lettera torna tristemente al mittente. Quello che stupisce è che Lev sia sempre puntuale e preciso nello scrivere: ce lo confermano gli stessi autori che, invece, quasi sempre gli rispondono in ritardo (mi hai mosso il rimprovero di non averti scritto e soprattutto di non averti mandato quanto mi avevi chiesto con la tua lettera precedente — lo faccio con molto ritardo e me ne scuso — rispondo con un bel ritardo).
Lev, grande amico della letteratura italiana, è in continuo contatto con il Sindacato degli Scrittori e con l’Associazione degli Scrittori Siciliani: Mario Grasso gli scrive dicendogli che:

“anche queste istituzioni le faremo marciare in direzione di una nuova grande cultura europea, aperta all’Unione Sovietica”.

L’opera di Lev va oltre il puro evento letterario delle traduzioni: diviene un ponte fra due culture, due pensieri, due popoli. Le lettere, oltre all’argomento principale — ovvero le opere e le traduzioni — ci raccontano anche la vita degli autori e dello stesso Lev: gli anni passano, compaiono le inevitabili malattie, giungono le sospirate guarigioni. Sono, comunque, le parole di Elio Vittorini a fare da “premessa” a questo epistolario:

“Caro Verscinin, è vero, la nostra corrispondenza sta assumendo un tono informativo-burocratico. D’altra parte, come riuscire a condurre, per lettera un colloquio che non rischi di divenire formale? Se anche se ne presentasse l’occasione dubito che riusciremmo a discorrere, così da lontano, con lo stesso calore con cui potrebbe capitarci di riuscirci se venissi io a Mosca o lei a Milano. Non conoscendoci di persona, ignoriamo oltretutto le nostre rispettive suscettibilità: da ciò il tono cortese, piacevole, ma un poco anonimo della conversazione a distanza. Pazienza: anche un rapporto svolto in questa forma può avere, mi sembra, un valore.”

Ma Giuseppe Bonaviri, in uno slancio d’affetto, smentisce i timori di Vittorini cominciando a schiudere il suo animo all’amico russo:

“Quando sono a letto di sera mi vengono tante idee strane sulla vita, sulla stupidità della stessa, del coraggio da avere per romperla, ma quando spunta il sole divento… giovane!”

E assistiamo alla bellezza di chi, in poche righe, riesce a riassumere concetti e idee che valgono tutta un’esistenza. È lo stesso Bonaviri che dice:

“Lev… scrivimi, dimmi di te, del tuo lavoro, della tua salute: capisco che la vita è caduca, passeggera, forse senza significato in tanti miliardi di vite che nascono e muoiono.”

Gli anni passano, iniziano le prime schermaglie con la morte. Anche Lev sta male, e Giuseppe cerca di tirarlo su, di distrarlo, di comunicargli la sua gioia quando:

“inaspettatamente per me che vengo dalla gavetta, che faccio tutto da me, che non faccio parte di grossi giri editoriali o di mafie letterarie… quest’anno sono entrato nella rosa degli scrittori da Nobel.”

Un giorno scrive per raccontargli che è stato ricoverato in ospedale per un infarto che… inseguiva da anni! E coglie l’occasione per parlargli del suo libro di poesie O corpo sospiroso…

“cioè, scomparso il nostro corpo dentro cui viviamo in tante dimensioni, tutto muore…”

E riversa sull’amico russo — incontrato lungo le rive della poesia e dell’arte —:

“timori, paure, senso dell’assoluta inutilità della vita se non ci fosse il filo dell’affetto e del lavoro”. [E aggiunge] “…mi pare che scrivere sia una maledizione che mia madre mi cantò accanto alla culla… e certe volte mi viene la malinconia, di più la sera a letto, e mi verrebbe la voglia di abbandonare tutto, ma passa e riprendo il mio lavoro di uomo che, forse come è capitato a te, ha dovuto sempre lavorare da solo nella vita…”

Ma poi, per scacciare il senso di oppressione in cui le parole hanno fatto precipitare l’animo dell’amico Lev, quasi percependo l’eco della tristezza che ha indotto in lui, scrive:

“Basta! Evviva l’amicizia! Caro Lev, rispondo subito alla tua lettera affettuosa, aperta, come portasse vento di primavera, anche se tu soffri il freddo dell’inverno di Mosca…”

E mentre scoppiano i petardi della mezzanotte del 31 dicembre, aggiunge enfatico:

“auguroni di buon anno pieno di fiori nell’animo e nei libri e dentro casa a te, Maria, a tua figlia, nipote, genero, Mosca, tutta l’umanità e gli uccelli e i pesci!”

Le lettere de Il mitico muro sono divise per ordine alfabetico d’autore, e quindi quelle di Giuseppe Bonaviri sono tra le prime. Nell’ultima sua epistola pubblicata, datata “15.10.87, ore 18”, accanto all’ora, tra parentesi, indica:

“fuori è nuvolo, fa un po’ freddo, da voi sarà inverno. Sono solo! I figli a Roma, mia moglie a scuola.”

È una delle lettere più spontanee, umane, essenziali, dove — tra l’altro — Bonaviri dice:
“spero che almeno gli artisti, gli uomini di lettere, gli scrittori italiani (non dico gli uomini di governo sordi a tale tua attività) si accorgano di quanto tu hai fatto e fai per la nostra cultura. Spero, cioè, che gli scrittori dentro il loro animo abbiano un senso di riconoscenza verso di te e il tuo lavoro continuo, da grande italianista.”

Siamo nel 1983. Il mondo è il trionfo dell’inautentico, della falsità, della menzogna, dei luoghi comuni, della parola morta. Giuseppe Bonura confida all’amico Lev che in Italia

“c’è una depressione paurosa, una totale mancanza di tensione progettuale. Queste pressioni negative esterne, incidono sulla creatività individuale più di quanto non si creda…”

Da molte lettere affiora uno scoglio: non tutte le opere sono ideologicamente adatte all’Unione Sovietica (parliamo, naturalmente, del periodo antecedente alla caduta del muro di Berlino). Il compito di Lev è quindi di duplice difficoltà: scegliere autori e testi letterariamente adatti al gusto del popolo russo… ma che — nello stesso tempo — non incappino nel mirino censorio del ministero della cultura. Ed anche se la quasi totalità degli autori italiani è di sinistra, il problema si pone comunque. Leggiamo, ad esempio, la rabbia malcelata di Maria Corti che gli urla:

“Se stampate Malerba e Flaiano… come mai vi sembro poco impegnata io, che lo sono molto di più?”

Mario Soldati, il 3 marzo 1969, come a voler rivendicare il ruolo politico della letteratura, gli confessa che è

“rimasto deluso da quello che lei dice a proposito di Le due città, perché mi sembra che il mio romanzo offra un quadro storico della borghesia italiana, nella prima metà del secolo, e un ritratto spietato che avrebbero potuto essere interessanti per il lettore sovietico. Il giudizio che io do del protagonista, del suo ambiente e di tutta l’epoca fascista, è così chiaramente negativo che non capisco come il romanzo potrebbe dispiacere a ogni onesto socialista. Infatti anche in Italia, hanno amato Le due città soprattutto i socialisti onesti.”

Nove anni prima Elio Vittorini (il 7 novembre 1960) ha risposto alla missiva di Lev forse temendo che il suo “sapere” narrativo finisse nella palude delle banalità e risolve i dubbi su chi debba prevalere tra coscienza artistica e esistenza sociale:

“mi pare che lei identifichi realismo socialista con letteratura sovietica. Io non accetto questa identificazione: dicendo realismo socialista alludevo all’applicazione scolastica che si è fatta e si fa della teoria implicita in quella formula. Gli autori che lei mi cita li conosco e li ammiro (Nekrasov, soprattutto) proprio come scrittori che hanno evitato di applicare teorie, puntando su rappresentazione della realtà sovietica viva per forza d’invenzione e di linguaggio. Le teorie danneggiano sempre. Di quella costruita sul realismo socialista — la cui egemonia è stata propagandata anche in paesi come l’Italia — ha risentito, forse inconsciamente, anche il mio romanzo Le donne di Messina.”

Ma questo scoglio produce un dibattito salutare perché si cominciano ad intrecciare storia e letteratura, il realismo ed il “migliore dei mondi impossibili” (il romanzo). Lo sviluppo della civiltà occidentale ha privato l’individuo della forza di vivere possedendo pienamente il proprio presente, e quindi la propria persona, senz’aver bisogno di consumarsi nell’inseguimento di un risultato, che si trova sempre un passo più avanti. Carlo Montella – proseguendo questo dibattito a distanza e ripensando a Lukács quando asseriva che il romanzo nella sua radice, insieme romantica e borghese, serba un binomio conflittuale, la continua replica di una coppia antagonista: anima/mondo, ideale/reale, io/non-io – precisa che:

“qualunque modo in cui uno scrittore dimostri la sua presenza e la sua partecipazione ai problemi e all’angoscia della propria epoca, è realismo.” […] “la lotta contro il capitalismo è solo un aspetto attuale della nostra società e per questo non sono propenso ad una restrizione e ad una aggettivazione in senso socialista del realismo. Credo che si possa fare del realismo anche semplicemente descrivendo un ambiente borghese — naturalmente con una certa angolazione critica — senza tirare in ballo gli operai, il proletariato, le fabbriche e le officine e i trattori. Naturalmente da voi la cosa è diversa, essendo stata superata la fase della lotta di classe, ma il vostro realismo positivo e pedagogico è un vicolo cieco dal quale prima o poi la narrativa russa dovrà trovare il modo di uscire se vorrà ritornare alla grande tradizione dell’Ottocento.”

E in un’altra lettera di pura critica letteraria, chiarisce il suo pensiero:

“A me pare che Kazakov sia dentro il realismo socialista, ma può per questo dirsi che sia fuori? Io direi che Kazakov sia semplicemente un realista, prescindendo dalla qualificazione socialista; che egli, cioè, aggiri e superi spontaneamente tutte le questioni ideologiche connesse al rapporto fra letteratura e struttura sociale, e che ora con la sua schietta virtù di narratore ci dia dei personaggi che appartengono inconfondibilmente alla società sovietica contemporanea, anche se non parlano di trattori, di piani quinquennali ecc.”

Quasi a fargli eco, Angelo Ripellino racconta a Lev:

“Ho fatto per la radio e per Einaudi un volumetto antologico di poeti sovietici del dopoguerra; ma ti confesso, non mi entusiasmano troppo, ho l’impressione che, eccezion fatta per Evtušenko, si compiacciano troppo a cantare betulle e usignoli o si perdano in un vuoto realismo. C’è un abisso tra le conquiste della scienza sovietica e il livello formale e tematico della poesia.”

A questo punto credo che sia giunto il momento di tentare di dare una risposta al quesito che questi autori pongono a Lev Verscinin: uno scrittore deve essere socialmente impegnato… oppure un fabbricante di sogni?
Heinrich Böll diceva che il compito di un narratore è scrivere e rappresentare ciò che da parte ufficiale non viene rappresentato e la letteratura può scegliere come proprio oggetto solo ciò che la società scarta e considera come un proprio rifiuto. Tom Wolfe dice che i romanzi contemporanei sono quasi sempre scollati dalla realtà e che la narrativa moderna non riesce a tenere il passo con l’accelerazione della coscienza moderna. Sulman Rushdie dice che oggi la narrativa deve dire la verità in un’epoca in cui le persone cui è demandata di dirla inventano storie. L’editore, poeta e scrittore Mauro Baroni, invece, è convinto che solo la letteratura possa offrire alla gente sogni incommensurabili, in grado di resistere alla banalità del quotidiano e alla più cupa disperazione di esistere… e lancia un appello agli scrittori chiamandoli fabbricanti di sogni.
Per quanto mi riguarda — alla luce della mia esperienza e condizione di romanziere – uno scrittore dovrebbe essere entrambi e di più. Socialmente impegnato, fabbricante di sogni… ed altro ancora. Tutto ciò che accade in questa vita mi interessa, m’incuriosisce, mi annoia, mi esalta, mi terrorizza, mi fa orrore, schifo, nausea. Tutto ciò che mi appassiona, prima o poi lo riverso in un romanzo. Per me scrivere è liberare il dio agitante che è padrone delle mie emozioni, scrivere deve servire la vita, la mia vita. Quella dei miei lettori. La definizione più vicina a come vorrei che fossero i miei romanzi, la guida che scatena la mia energia intellettuale e immaginativa quando prendo la penna in mano… è la sferzata di Kafka: “un libro deve essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi.”
Si intuisce che Lev ami l’opera d’arte al di sopra di qualunque schema, condizionamento, etichetta: è chiaro che abbia delle riserve sulla categoria dei narratori che provengono da marcate esperienze politico-sociali. E come reagisce Vasco Pratolini, alla critica di Lev Verscinin che non è rimasto convinto dal suo capolavoro? Vediamo:

“Il suo giudizio su Lo scialo, è legittimo e pertinente. Lei ha esattamente individuato certe mie intenzioni, certe mie esigenze, non esterne, bensì di fondo, morali, di superamento: un modo, per me il più necessario, di andare avanti. E non tanto perché sentissi come ostacolo il lirismo oramai, ma perché non mi appartiene più. Lei ha visto giusto, quindi, e colto con esattezza le intenzioni; il suo giudizio è di resa artistica, estetico, e su questo io non ho nulla da contrapporre; se il libro non l’ha persuasa significa che io, scrivendolo, non sono stato persuasivo. La mia opinione è che si tratti del miglior libro, dove bene o male confluiscono tutte le mie esperienze passate, e nuove, di rottura, nel quadro che va facendosi sempre più accademico, pseudoavanguardista e manieristico di gran parte della narrativa italiana. (Non soltanto italiana.) Che ha messo d’accordo, nel respingerlo, con argomenti extraletterari ed extra critici, anche extraideologici direi, ma unicamente polemici, di povera, squallida, vergognosa polemica, sia la parte più ottusa della critica marxista, sia i più facinorosi Padri gesuiti e predicatori in loro riviste, sia la critica borghese del Corriere della sera, eccetera. Ma è stato accolto, nel suo significato, e per le sue ragioni oltre che narrative, storiche, ideologiche, da tutta un’altra parte della critica più giovane, avvertita e progressiva. E dai lettori comuni, con rabbia e con esaltazione. Io penso, al di fuori della mia persona, che non si deve catalogare uno scrittore sotto una definizione, e sorprendersi per negare quando, leggendo una sua opera, ci si accorge che è evaso da cotesta nicchia: è una lettura di comodo, altrimenti, un conformismo. Per esempio: io non avevo mai affrontato direttamente l’ambiente borghese, e quell’ambiente borghese, di quel tempo, attuale nel nostro mondo quanto mai. Non l’avevo affrontato perché materialmente non c’ero ancora arrivato, tutto qui! Ho forse avuto il torto di affrontarlo di petto, di non aggirarlo, di chiedermene la verità e gli orrori e di darne conto, di rappresentarli e di giudicarli? E in una maniera fedele alla realtà dei fatti, nella loro trasfigurazione? È l’unica certezza che ho: che non sia stato un torto, ma una precisa individuazione, un preciso dovere e artistico e intellettuale. Ciò detto, tutto è in discussione, e può darsi io non sia riuscito a dire uno del cento che mi proponevo. Mettiamolo in debito alla mia pochezza di scrittore; e cerchiamo, lo dico a me stesso, di far meglio.”

E conclude la lettera ringraziando Lev per la sua sincerità aggiungendo che, proprio grazie ad essa, gli ha parlato di queste “piccole cose”. E gli accenna all’opera che sta scrivendo, La costanza della ragione, un libro

“molto duro (ma non crudo): questa ricerca della ragione che si conclude con la sconfitta della ragione. Poiché la propria vittoria, la ragione, la trova proprio nel cedimento, una volta che si è conquistata la più riposta verità… Ma lei è un lettore troppo acuto perché io senta il bisogno di metterlo sull’avviso…”

Ma anche un autore come Calvino, che dice a Lev

“avrà capito che tengo di più ai racconti più astratti, ai paradossi geometrici, a quelli che hanno a che fare con concezioni dello spazio al limite delle possibilità d’immaginazione”,

tiene poi a chiarirgli un punto irrinunciabile del suo pensiero di fronte alla proposta del traduttore di effettuare dei tagli alla sua opera La nuvola di smog:

“È una dichiarazione di morale stoica che non dovrebbe essere in contraddizione con la morale marxista. Il mio pensiero è questo: come la morale cristiana può trovare la sua attuazione più alta da parte di chi agisce bene senza credere al paradiso o senza preoccuparsi se il paradiso esista o no, cioè da parte di chi trova il suo paradiso nell’atto stesso di compiere le buone azioni, non una ricompensa finale, così la morale comunista vale anche se non ci si occupa di una felicità futura, di un paradiso in terra, ma si trova la propria felicità nel fatto stesso di comportarsi da comunista. Il comunismo è già il fatto che degli uomini si comportino da comunisti, che dei lavoratori affrontino con tenacia lotte e persecuzioni per una causa giusta ecc…”

Da questo epistolario che si snoda in tante direzioni, mostrandoci non solo il tema fondamentale — i libri e la loro traduzione — ma tutto ciò che gravita attorno ad essi (l’Italia, la Russia, la salute degli autori e delle loro famiglie, i problemi economici, gli incontri in Italia, i viaggi in Russia, i regali che si scambiano, le difficoltà di farli arrivare a Lev), emergono anche il racconto e le riflessioni sulla letteratura come veicolo di protesta contro regimi dittatoriali come quello fascista di Franco. E il 2 febbraio del 61 Angelo Ripellino racconta a Lev:

“Sono stato in Spagna, a Palma di Majorca, nella giuria italiana del Premio Internazionale degli Editori. Vi sono stato con Moravia, Calvino, Vittorini, per conto di Einaudi. Per i russi ho difeso Tendriakov e Kazakov. Non c’era naturalmente molta speranza per gli autori slavi, ma si trattava di sottolineare la presenza spirituale di questo mondo, specie in terra franchista. Quando ho parlato della letteratura sovietica, ho avuto fragorosi applausi, soprattutto fra gli scrittori spagnoli.”

Renzo Rosso, il 1° dicembre 1965, è felice che Lev stia traducendo il suo racconto Breve viaggio nel cuore della Germania e, in un lungo particolareggiato Post Scriptum, gli spiega i motivi che lo hanno spinto a scrivergli, e anche il momento (l’inverno 55-56) ed i motivi della sua volontà di scavare e di indagare fra le macerie per cercare di capire

“in un’epoca cioè nella quale ormai da tempo l’Europa occidentale aveva messo da parte e sembrava avviata a dimenticare del tutto i crimini del nazismo… Pensavo alle disfatte tedesche, ma il costo mi pareva ugualmente insopportabile. Ancora una volta i conti non tornavano: chi aveva urlato di paura e di disperazione e di dolore non era stato placato. La natura si era ripresa i morti, e i vivi — sostanzialmente d’accordo con essa — amministravano una giustizia sempre più opaca e blanda. Per questo ho affidato l’incarico della giustizia a un pazzo e ai suoi deliri (la deposizione scritta di un sopravvissuto), cioè a qualcuno fuori della natura e del tempo; e viceversa a qualcuno ben dentro di essi, cioè a una persona normale (il funzionario A. Motka) quello della testimonianza inerte. Posso immaginare che il racconto produca un senso di angoscia e di repulsione ma ciò è dovuto al fatto che con angoscia e repulsione, io l’ho scritto.”

Ventuno anni dopo, sempre Renzo Rosso risponde a Lev. Ed ecco l’eco della clessidra che permea le pagine di questa lettera:

“Anch’io sto invecchiando, Lev, nel senso che talvolta me ne rendo conto, quando lavoro; ma più che il senso del tempo, quello di un’accentuata inutilità, e del pericolo sempre maggiore delle ripetizioni (anche di quelle interne, organiche, che finiscono per intaccare la fantasia, l’immaginazione, la libertà sfrenata di un tempo”).

Il soggetto di questo epistolario è la letteratura al servizio della vita, del mormorio del suo fluire. Le lettere di Luce D’Eramo che ci dipingono Lev e i fatterelli minuti d’ogni giorno, sono squarci che ci fanno intravedere baluginii di un’anima profonda, bella:

“La tua lettera m’ha come sempre portato amicizia e sincerità” […] “Lev carissimo… hai questo calore tuo proprio, questa tua forza di comunicazione e io ho la fortuna d’essere capitata a portata della tua personalità… Tu hai un modo vivo di raccontare e un sentimento comunicativo del linguaggio che mi fanno stare tranquilla sulla presa della tua traduzione. Considero una fortuna per Deviazione l’essere approdata… tra le tue mani linguistiche. È eccezionale trovare critici i quali capiscano che compito dello scrittore non è sparare giudizi a destra e a manca secondo il vento che tira, ma rendere intellegibile il mondo. Solo se il mondo ci è intellegibile, possiamo risponderlo e migliorarlo.” […] “Poi ti voglio dire che condivido in pieno il tuo giudizio sul terrorismo. Perciò la tua reazione di rifiuto di quella via, quasi rafforzata dalla lettura del mio romanzo, è proprio quella che speravo di suscitare nei lettori. Il mio assunto è che uno scrittore non pensa al posto del lettore, ma si rivolge alla sua intelligenza, gli stimola così il sentimento di responsabilità… affida la storia che racconta al libero giudizio del lettore. Io sono contro la letteratura didattica, che guida e orienta il lettore. Sono convinta che, solo guardando con occhio umano i più dolorosi fenomeni, si mette a nudo non solo l’errore, ma la disumanità delle azioni rappresentate. Arrivederci un giorno. Sino allora restiamo vicini nel pensiero.”

Tre anni prima, sguardo velato di vita tremula e struggente, aveva chiuso la sua prima lettera così:

“Ora mi trovo per una quindicina di giorni in Liguria. C’è una nebbietta in cielo, con un’umidità calda e sudaticcia a mezz’aria. Solo a sera il mondo si rinfresca e io le scrivo davanti alla finestra aperta, coi lumi delle barche da pesca che oscillano sul buio del mare, che pare un vuoto nella notte.”

Gerardo Vacana si complimenta con Lev per la sua straordinaria operosità e fecondità, non solo come traduttore ma anche come autore in proprio; in poche righe, riassume il merito più grande di Verscinin:

“Non ci hai solo informato in modo serio sui rapporti tra le nostre due letterature e culture; con le tue testimonianze dirette, nelle scuole e davanti a un pubblico più vasto, hai svolto per noi un ruolo insostituibile, dandoci anche notizie di prima mano sull’evolversi della politica del tuo Paese.”

Poi lo ringrazia per la sua bellissima e dettagliatissima lettera:

“la tua interpretazione della mia poesia coglie perfettamente nel segno, quando indica la civiltà contadina e la fedeltà al paese come motivi ispiratori di fondo.”

L’amicizia sgorgata fra autori italiani e il traduttore russo spesso è fatta di pensieri, di piccoli doni, di ricordi indimenticabili lungo una strada seminata da tanti amici e del personaggio principale che aleggia fra le righe di quasi tutte le lettere: la Russia, il suo calore umano, la sua generosità. Tonino Guerra, infatti, gli scrive:

“Ho molta nostalgia per il mondo russo fatto di gente che conserva intatta la voglia e la pratica dell’amicizia. Qua (in Italia), mi sembra che il consumismo stia frantumando quelle scintille di amore per gli altri che, a volte, sprizzano dagli occhi di qualcuno di noi.”

Cesare Zavattini gli ricorda ancora una volta di essere stato accolto a Mosca con calore, con una generosità indimenticabili, e gli porge gli auguri per il nuovo anno:

“mi auguro che il tuo 1971 si sia avviato per il meglio. Quello del mondo continua tra cose orride e sublimi”

e poi, otto anni dopo, sempre a Capodanno, augura:

“per il 1979 che l’intelligenza si sviluppi quanto basta per comprendere che è assurdo vedere possibile la pace, realizzarla con il tipo di pensiero di cui l’umanità dispone.”

Anche a questo dovrebbe servire la letteratura. Ad entrare in comunione con gli altri e con il mondo.

Proprio all’inizio di questa esposizione, ho citato le parole di Vittorini che lasciano trasparire un po’ di amarezza per il fatto che il rapporto epistolare si andava snodando lungo i binari del formalismo dell’educazione, attraverso righe che scorrono in un dileguare monotono. Ma Lev Verscinin verrà molte volte in Italia per incontrare gli autori delle oltre trecento opere che tradurrà e diffonderà in Russia, e farà di tutto perché essi vadano nella sua terra ed i viaggi diventano incontri di lavoro, spesso comunione di anime, come mirabilmente preciserà Tonino Guerra:

“Il tuo viaggio dentro di me ed il mio lavoro, mi sembra che abbiano raggiunto i punti segreti delle storie e dei contenuti.”

E voglio terminare con la chiusa dell’unica lettera di Goffredo Parise, scritta il 19 gennaio 1973:

“Scio tutto il giorno, non faccio letteralmente nulla, m’innamoro perdutamente di persone o per meglio dire della loro illusoria immagine, so che la fine di tutto non è lontana e che la fine relativa dell’esistenza delle cose quali le abbiamo viste da bambini e ancora le vediamo (le vestigia sono lente a scomparire) è anch’essa vicina. Perciò mi pare di godere e gustare la vita come uno degli ultimi, per poi poterla raccontare a chi non avrà più questo bene.”

Non c’è più certezza alcuna: la fine della vita produce un innamoramento continuo dell’illusoria immagine di altre creature. Respirare la luce del sole, mentre sta diluendo, catturare gli ultimi baluginii, rapire e imprigionarli in vibranti pagine di letteratura: è un modo per tener lontano il mortale silenzio dell’invincibile notte di qualche altro struggente balenio.

Da Amnesiavivace